“Assegnare” un sesso o “affidare” una creatura a un sesso? A proposito della legge e del rapporto tra le parole e le cose
Premessa. Diverse visioni e un conflitto che val la pena mettere a fuoco
Leggo le quattro definizioni che il ddl Zan intendeva introdurre, e forse introdurrà, allo scopo di punire chi istiga a compiere o compie atti discriminatori o violenti fondati su sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere. C’è scritto che per sesso si intende quello biologico o anagrafico; per genere le manifestazioni esteriori di una persona conformi o contrastanti con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna; per orientamento sessuale l’attrazione emotiva o sessuale nei confronti di persone dello stesso sesso, di sesso opposto o di entrambi i sessi; per identità di genere la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al sesso biologico.
I promotori della legge dicono che queste definizioni sono state introdotte per includere tutti gli aspetti dell’identità sessuale di una persona. Penso invece che ne lascino fuori parecchi, ed è quello che proverò a dire in queste pagine, aiutandomi con frammenti di una conversazione che stiamo svolgendo insieme a Rinalda Carati e Stefania Ferrando e che scaturisce da una sensazione, messa in parola così da Rinalda: «è anche un po’ come se fosse di nuovo vietato parlare della propria esperienza» e così da Stefania: «tante volte incontro scissioni profonde tra le parole e l’esperienza, che sono poi fratture dell’esperienza».
Quel che io, come giurista, posso dire al riguardo è che la scissione tra le parole e l’esperienza è il difetto, molto pericoloso e molto noto, in cui la legge incorre quando adotta definizioni che si staccano dalla lingua corrente. Da questo punto di vista la critica da molte condotta nei confronti delle definizioni ora citate è una riprova di come le femministe, molto spesso, hanno intuizioni giuridiche alquanto precise e profonde. Questo è particolarmente vero proprio per quelle femministe che, riconoscendosi nel pensiero della differenza, apparentemente danno al diritto poca importanza, e invece del diritto sanno moltissimo, e perciò non si accontentano di nozioni storicamente relative, come quella secondo cui il diritto consiste nella legge[1].
Questo è quello che dirò in queste pagine, e proverò a dire anche un’altra cosa. Il conflitto che molte femministe – in specie quelle che, come me, si riconoscono per pensiero del simbolico – hanno sollevato intorno alle definizioni introdotte dal ddl Zan ha suscitato in alcuni un senso di sorpresa: come! Vi è un dissenso tra il femminismo e la sinistra!
Come se quel dissenso fosse una cosa nuova. In realtà è un dissenso che non sorge affatto con quelle definizioni e non è affatto nuovo: ha le sue radici in modi diversi di concepire la realtà e perciò, anche, di concepire il rapporto tra la realtà e il diritto, e cioè in differenze di visione che esistono da quando il pensiero del simbolico esiste, hanno radici filosofiche, hanno un profondo significato politico.
Di queste differenze di visione non potrò fare qui la storia, ma proverò, nell’ultima parte di questo scritto, a dire qualcosa al riguardo. La possibilità di mettere a fuoco quelle differenze di visione mi pare in effetti ciò che di prezioso, o quanto meno di utile, la vicenda della legge Zan ci lascia. In mancanza, non è possibile capire l’essenziale. Contestare l’affidarsi al discorso esperto e tecnico della legge non implica affatto contestare o mettere in dubbio la verità e il valore delle esperienze soggettive che ognuna e ognuno vive rispetto alla propria sessuazione. È vero semmai il contrario: contestare l’affidarsi al discorso esperto e tecnico della legge implica difendere la verità e il valore dell’esperienza soggettiva, che l’abuso delle definizioni nega.
1. Genere e norme di genere
Secondo un complesso di teorie che hanno origine negli studi sociologici e psicosociali le norme di genere sono tutto ciò con cui la società ci comunica come dobbiamo essere per conformarci a certe aspettative: è la “cultura” che si sovrappone alla “natura” (il sesso biologico). Alle norme di genere (ad esempio: sposati e fai tanti bambini) corrispondono altrettanti costrutti sociali (il ruolo femminile “materno”) ed in questi si risolve l’essere donna: un mucchietto di comportamenti esecutivi di norme sociali di genere, e poi, come si dice, “sotto il vestito niente”. La definizione del ddl Zan è, come ricordavo sopra, «le manifestazioni esteriori di una persona conformi o contrastanti con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna».
Si è portati a pensare che le norme di genere siano sempre qualcosa di tradizionalista e conservatore, ma le cose non stanno così, e il punto è ormai assodato in molti studi. Sempre la società, e i poteri attraverso cui si esprime, trasmettono indicazioni su come è utile che le persone si comportino, e, come è ovvio, ciò che viene considerato utile, e pertanto conveniente e doveroso, cambia. Oggi molti riconoscono che le modernissime politiche europee di genere si sono rivolte ad abbattere vecchi “costrutti di genere” (quelli che, asseritamente, erano incorporati nei diritti sociali che, per esempio, tutelavano le donne dal lavoro notturno) allo scopo di introdurne di nuovi, basati su un diverso complesso di aspettative: nei tempi nostri bisogna essere tutti disponibili al 100% al lavoro. Così, per esempio, con l’abbattimento delle tutele delle donne dal lavoro notturno, “discriminatorie e stereotipizzanti”, a rimetterci sono stati tutti i lavoratori, che si sono ritrovati esposti a subire orari di ogni tipo, come osservava tempo fa la giuslavorista Maria Rita Bellestrero. Io spesso penso che i divieti e i limiti posti a tutela del corpo delle donne siano limiti simbolici e ogni volta che ne viene abbattuto uno qualcosa viene travolto ai danni di tutti. Come mai non si pensa a estenderle, quelle tutele, invece di dire che sono discriminatorie e perciò vanno negate a tutti? Il motivo è chiaro: la donna è stata il primo lavoratore tutelato; abbattere le tutele per le donne dicendo che sono discriminatorie ha aperto la diga da cui è passato il fiume del neoliberismo[2].
Questo per dire che il “genere” è, di per sé, un riferimento piuttosto ambiguo.
1.1. Quel che mi risulta
Con questo non voglio mettere in dubbio che le norme di genere esistano; mi limito a osservare che, per fortuna, esse non sono tutto ciò che fa di una donna una donna (e, se è per questo, di un uomo un uomo), né quello che più conta.
Io per esempio, nata nel 1963 e sempre piuttosto brava a scuola, sono arrivata a diciott’anni avendo ricevuto dalla società, che mi parlava attraverso la mia famiglia o le mie insegnanti, precise norme di genere, che erano le seguenti: studia e fai una bella carriera, renditi economicamente indipendente (poi semmai sposati e fai bambini). Si era infatti, e ormai, nei tempi in cui, come con impressionante precisione proprio a quel tempo Alessandra Bocchetti scriveva, «una donna è libera di fare carriera, ma non è libera di non farla» (e la mente va, oggi, anno 2022, al Piano nazionale di ripresa e resilienza che investe su metodi per convincere le giovani a studiare materie scientifiche e non materie letterarie affinché si rendano competitive sul mercato del lavoro: sempre di conformarsi a qualcosa si tratta, come dicevo). Iscrittami all’università, mi laureai brillantemente e divenni subito assistente, iniziando una carriera universitaria che appariva promettente (sarebbe stata, poi, anche molto difficile). E un giorno – mi ricordo che era una bella mattinata d’inverno – mentre parlavo per strada col mio Grande Professore facendomi come d’uopo piccola piccola davanti alla sua Eminente e Potente Persona (e soffrendo in effetti enormemente, per un disagio, per un malessere che non sapevo nominare), una mia amica, passando in bicicletta, mi vide. E la sera a casa mi disse: ti ho vista oggi in Borgo Stretto col tuo professore, eri ridicola tutta adorante e servente: NON VOGLIO MAI PIÙ VEDERTI COSÌ! Era una “norma di genere” questa?
No, non lo era. Nessuna norma sociale prevede che una donna eserciti approvazione e disapprovazione verso un’altra, e tanto meno che l’altra risponda; invece lei mi chiamava alla responsabilità per come mi comportavo, per il modo in cui facevo vedere al mondo che cos’è una donna. La mia amica quel potere – di essermi regola e misura – se lo era preso da sé, per amor mio e suo, e io sentii che per me era un varco, un’opportunità da cogliere, una necessità (mia e sua). Nessun “costrutto di genere” aveva fabbricato il potere che la mia amica ha esercitato o contemplato il bisogno che ne avevo; nulla di ciò era ed è utile ad alcun grande interesse e ad alcuna grande forza che si autoproclami del progresso.
Le parole della mia amica, il suo comportamento con me non erano norme di genere. A dire il vero erano ben di più che norme, erano (come si dice in Toscana), una “regolata” con cui quella mia amica esercitava la tanto semplice e tanto misteriosa forza di libertà che si chiama autorità femminile: a chi vuoi piacere, a lui o a me? Tra i due, di chi ti importa? Chi e che cosa è il metro che per te segna il tuo valore?
E io, che non potevo sopportare di essere ridicola agli occhi di lei, e mi affidai a questo sentimento: sentivo che, richiamandomi a lei, la mia amica faceva emergere il mio bisogno di essere me stessa. Si è trattato di un fatto interiore e soggettivo per quale è passata la realtà che io ho data al mio essere donna, diversa dai costrutti ricevuti, eppure debitrice del rapporto con un’altra persona, a sua volta viva, reale, parlante, e, attraverso di lei, debitrice del rapporto col mondo.
1.2. Nel mezzo
Da allora diffido di chi parla di norme di genere, e in generale di chi mette in primo piano la parola “norma” in discorsi il cui oggetto (asseritamente) sarebbe la libertà. Posso assicurare che quello di norma è un concetto fondato sull’eteronomia (le norme qualcuno le dà agli altri, e per fini che sono di quel qualcuno) e che non ha spazio per la libertà che la mia amica si è presa, e alla quale io devo tutto della mia, una libertà fatta di autonomia (il darsi norme da sé). La quale libertà, questo scopersi allora, è un gioco che si fa in due: lei mi ha chiamata, io ho risposto. Quel che lei mi diceva mi dava regola perché aveva ragione di essere nella realtà che io vivevo, nel bisogno che sentivo, nel mio malessere, nel desiderio di farne altro, e nella presenza di lei e nel mio bisogno di lei, che mentre mi rimproverava mi autorizzava a prendere una mira diversa, perché mi aveva vista.
La parola “genere” e il concetto di “norme di genere” riducono la realtà degli esseri umani a un complesso di costrutti ricevuti, che incorporano rapporti di potere, mentre c’è tanto di altro a comporre una vita; inoltre, come dice precisamente il ddl Zan (genere sono le “le manifestazioni esteriori di una persona conformi o contrastanti con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna”) il genere lascia solo due alternative: o ti conformi a una norma o la trasgredisci.
Il che è davvero molto poco: quand’è che crei qualcosa tu? Quand’è che tu concorri a costituire la realtà?
Tra due eccessi, conformarsi alle norme o trasgredirle, c’è in effetti una via intermedia, e non tenerne conto è negare il vero, è irrealistico, è far torto alla realtà per come la conosciamo e la viviamo. Questa via passa, da una parte, per il prendersi la responsabilità del fatto che ciascuna è già libera adesso (io ero libera di non pregiare il professore, e di pregiare l’amica) e, dall’altra parte, per il riconoscere che non sarai mai libera da sola, perché hai bisogno dell’altra (io ero libera di comportarmi in altro modo: ma è c’è voluta lei che me lo facesse notare, e restasse lì a dirmi se poi ero cambiata).
Certo, è un disegno più complesso di quello tracciato dalla rigida alternativa tra essere normate o ribellarsi alla norma, ma è anche più molto più realistico e più semplice da capire, perché più simile a quello che capita agli esseri umani. Non abbiamo sempre e solo a che vedere con norme e con grandezze sociali, ma di solito abbiamo a che vedere, e molto, con gli altri, ciascuno dei quali porta, con esempi, suggestioni, idee, parole, mille opportunità per il nostro proprio essere che passano per relazioni, delle quali alcune funzionano, altre falliscono, tutte lasciano un segno.
Rinalda, scrivendo a proposito delle relazioni che hanno contato per lei, e cioè parlando di come è avvenuto che lei è lei, la donna che è (comprese le sue contraddizioni, o quelli che sente come i suoi limiti) usa queste parole (aggiungo io le enfasi): «È condividere. È mettere in mezzo e lasciare lì tutto quello che accade. A lavorare. Alla riunione. Sull’autobus. Nella cosiddetta famiglia. Ma soprattutto è stato andare e venire, una esperienza fluida e variegata e tante piccole e grandi cose, di un attimo, di mesi e anni, nel mezzo». E poi dice: «con tutta la mia convinzione sulla soggettività, e però alla fine penso sempre me stessa come un non-io, non-una». E dice ancora: «Era un rilancio di energie reciproche quando andava. Era una fatica vicina all’insopportabile quando non andava. Ha coinciso con la mia vita. Ha prodotto poter andare altrove da quanto era previsto. Ha prodotto materialità e trascendenza».
Rinalda dice tutta la realtà che manca alla parola “genere”: è la realtà che dipende dall’esserci, oltre che dei grandi fatti sociali, di un soggetto che li vive li pensa e li interpreta, se ne fa carico e rilancia. La realtà “sociale” c’è, c’è la materialità dei rapporti di potere, ma non c’è solo quella o quel solo livello della realtà. C’è la realtà dell’amore, del desiderio, dell’immaginazione, dell’attenzione che ricevi e che dai; e questi sentimenti fanno la realtà, a meno di non voler cancellare, dalla realtà, la soggettività, quell’«io-non io» che è reale proprio perché vuole andare oltre ciò che è dato, e essere.
2. Identità di genere
Sapermi non del tutto determinata dalle aspettative sociali mi salva come soggetto. Se non sono già del tutto definita a livello sociale allora esisto per me e, per ciò stesso, posso fare qualcosa di me, non devo aspettare l’opera salvifica di grandi soggetti sociali per cambiare qualcosa nella realtà[3]. Sapermi non del tutto determinata dalle aspettative sociali salva me, ma salva anche l’altra, la sua realtà, la sua verità e salva la realtà e la verità di quello che viviamo, che sentiamo, che ci risulta, e su cui possiamo fare leva per introdurre nell’esser donna, in tutto ciò che siamo e che facciamo, significati imprevisti.
Si potrebbe dire che, delle verità soggettive, il concetto di identità di genere è l’esaltazione, in quanto esprime la sottrazione alle aspettative sociali. Mentre la norma di genere, lo dicevo ora, è il complesso dei costrutti sociali che ti determinano o ai quali ti ribelli, un codice esterno che coincide coi rapporti di potere in cui si pretende si esaurisca la realtà, l’identità di genere sarebbe quello che senti di essere, una cosa tutta interna (il ddl Zan definisce l’identità di genere come «la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al sesso biologico»).
In verità, a me pare che norme di genere/identità di genere compongano una coppia dicotomica che esprime due estremi che non si toccano e si rispecchiano l’uno nell’altro: da una parte (genere) c’è l’esterno, che determina tanto i comportamenti connessi al tuo sesso “biologico” o “anagrafico” quanto il perimetro della tua possibile ribellione; dall’altra parte (identità di genere) c’è l’interno di te, in cui senti di essere qualcosa di diverso da quel sesso “biologico” e dai relativi costrutti sociali, un qualcosa di diverso che, d’altra parte, non si coagula mai e di cui tu, soprattutto, tu sola sei il termine e la misura. Molto si discute sul se sia corretto o meno richiedere che un giudizio medico e poi un consenso burocratico intervengano per asseverare l’identità di genere di una persona. Capisco alcune ragioni profonde di ciò (in particolare l’esigenza di evitare situazioni patologizzanti e interventi medico-chirurgici invasivi) ma penso anche che il vero problema, in questi casi, non sia il giudizio in quanto giudizio medico o burocratico, ma in quanto giudizio dell’altro, avvertito come un limite e una minaccia all’autodeterminazione della persona. L’identità di genere – si pretende – non ha bisogno degli altri, è un assoluto, è tutta affermativa: non ha bisogno di contrattare, di venire a patti, di scambiare qualcosa con gli altri e di render conto. Se io affermo di sentirmi in un modo lo sono ipso facto, o meglio devo (“ho diritto di”) esser riconosciuta per tale.
Sono paradigmatiche le legislazioni straniere che impongono ai genitori, se la figlia o il figlio vuole cambiare sesso, di limitarsi ad eseguire il desideratum: nessuno deve avere nulla da dire su quanto capita a un altro, perché se lo fa è solo con intenzioni cattive ed effetti dannosi.
Le norme che ci comunicano che non dobbiamo, e non possiamo, metterci nei panni degli altri, discutere con loro, portare il nostro punto di vista, la nostra esperienza, ci invitano alla passività, ci vietano di elaborare dentro di noi e con gli altri l’esperienza vissuta[4]. Di quale libertà possono dunque essere portatrici? Eppure, è proprio questo è implicato dal concetto di identità di genere percepita: una volontà soggettiva che diventa norma grazie alla forza coattiva di un disposto legislativo, il quale serve a far diventare indifferente e irrilevante tutto il mondo delle relazioni in cui, e di cui, una persona pur vive.
Perciò il concetto di identità di genere non esalta la soggettività, ma una finzione di soggettività, che vive senza il rapporto con l’altro (l’auto-determinazione). Eppure, quanto della nostra vita interiore è un tessere e ritessere il senso di esperienze che facciamo nel mondo, con gli altri, in relazione ad altri, che poi si riflette all’esterno di noi?
2.1. La donna transessuale
Quando alcune, tra cui io, hanno fatto obiezioni al concetto di identità di genere come definito nel ddl Zan la risposta è stata: l’ordinamento conosce già la nozione, ne parla anche la Corte costituzionale, perché vi sorprendete e lo criticate proprio adesso?[5]
È vero che la Corte costituzionale parla di identità di genere, ma lo fa per esprimere la condizione della persona transessuale, che sente di avere una identità sessuale non corrispondente al sesso di nascita e di averne invece una coincidente con l’altro sesso, nel quale vuole transitare; la Corte ha detto anche che sentire di appartenere a un sesso non è sufficiente per pretendere di essere riconosciuti sul piano pubblico come appartenente a quel sesso. Questa è una idea di identità di genere che ha la sua storia nei percorsi dei diritti della personalità propri della nostra interpretazione della Costituzione: esprime, ad un tempo, il sentimento di scissione tra il sesso in cui una è nata e quello cui sente di appartenere e il diritto a compiere un percorso che ricostituisce una coincidenza tra il sesso fisicamente inteso e quello sentito, un percorso del quale fa parte il rapporto tra me e il mondo esterno, che non può essere considerato ininfluente su ciò che io sono[6].
La nozione che il ddl Zan ha contribuito a far emergere anche da noi, e che ha la sua storia nelle teorie di genere e successive modificazioni e aggiornamenti, è ben diversa. Essa punta non sul desiderio di una persona di andare a coincidenza con l’altro sesso, ma sulla percezione che una persona ha di non appartenere a un certo sesso. Come dicevo prima, in questo caso un modo di sentirsi è rappresentato come automaticamente produttivo di una realtà oggettiva che si impone agli altri.
Non faccio notare questa differenza per affermare che una definizione è più giusta dell’altra. Trovo la questione secondaria, e lungi da me farmi forte dell’autorità della Corte costituzionale, o in generale, come pure fanno alcune, farmi forte del fatto che di qualcosa parli un testo giuridico, per dedurne che allora è vero e giusto (non è che se una cosa è scritta in un testo giuridico va bene, no? Se dovessimo inchinarci a ciò che è scritto nelle leggi perché è scritto nelle leggi ricadremmo in quello che i giuristi chiamano il positivismo etico: obbedire alla legge è giusto perché la legge è giusta, il che è un abominio, o anche semplicemente una sciocchezza, agli occhi di qualunque spirito critico). Faccio notare quella differenza per osservare che, in effetti, le due definizioni sono diverse, e perciò, intanto, non è corretto dire che l’ordinamento già conosceva la nozione di identità di genere, perché a questa nozione (come a tutte) si possono dare significati diversi. Chi ha sostenuto che l’ordinamento non conosceva la nuova nozione diceva una cosa fondata, e questo è importante, intanto, perché nei propri argomenti uno sforzo di veracità va fatto e lo hanno fatto di più quelle che hanno rilevato la differenza tra la vecchia e la nuova definizione che non quelle che l’hanno sottaciuta. Cosa che non andrebbe fatta perché cogliere le differenze, distinguere, aiuta a capire.
E allora mi ci provo: in che cosa sono diverse queste due definizioni? La nuova impernia l’identità di genere, come dicevo, sul sentirsi uomo o donna o nessuna delle due cose, la vecchia sul desiderare di diventare uomo o donna. La vecchia definizione assume che “uomo” e “donna” siano condizioni dell’essere umano; la nuova postula che l’essere “uomo” o “donna” non esistono, non sono reali, ma sono altrettanti costrutti sociali; e questo riduce una persona a una oscillante sommatoria di un sesso “biologico” o “anagrafico” e di un complesso di aspettative sociali.
In effetti: se il genere sono «le manifestazioni esteriori di una persona conformi o contrastanti con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna» e l’identità di genere è «la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al sesso biologico», in che cosa consiste, ogni volta, quel certo essere umano di cui parliamo?
Io esempio, stando a quelle definizioni sarei una donna perché sono nata “biologicamente” donna e poi mi sono conformata alle aspettative di genere (?). È poco per me, che ho desiderato tanto essere donna, contro certe «aspettative sociali connesse all’essere donna», ma facendomi forte dell’autorizzazione che mi davano pur sempre… altre donne! Ed è poco anche per Tizia, che, sempre stando a quelle definizioni, è donna perché si è operata, le hanno cambiato i documenti (sesso anagrafico), e si è conformata e si conforma alle aspettative di genere (si mette i tacchi? È seducente?). A che è valsa tutta la sua impresa, se si trattava di andare a coincidenza con dei banali costrutti sociali eteronomi già stabiliti, a cui si è uniformata, sottomessa? In questo era destinata a spegnersi la forza indomabile che l’ha spinta a sopportare operazioni, trattamenti farmacologici, enormi prove nei rapporti con sé e con gli altri, tutto questo per andare a coincidenza con le aspettative sociali?
Sento di avere in comune con Tizia una cosa: ci siamo ribellate alle definizioni, non per cadere preda di una serie di altre.
3. Sesso assegnato
È stato detto che nel ddl Zan occorreva mettere tutte quelle definizioni perché altrimenti qualcuno sarebbe rimasto fuori dalla tutela. Mi pare che sia già così. È tagliata fuori da quelle definizioni ogni donna che ha voluto e vuole essere donna non secondo una misura sociale, ma secondo la misura sua e dell’altra. Sono tagliate fuori le persone transessuali che hanno cambiato o desiderano cambiare sesso per diventare ciascuna la donna che si sente di essere, non un costrutto sociale. Ripeto: se una donna non è altro che un dato biologico/anagrafico+un complesso di costrutti di genere pre-normati, quale libertà si apre a chi vuole diventare una donna?
Io penso che più ci sarà libertà femminile in circolazione, maggiori saranno gli spazi di libertà (le opportunità di divenire se stesse in modo pieno) che si aprono a chi sente di essere donna. Ma perché la libertà femminile circoli, bisogna pure ammettere che essere donna sia qualche cosa di diverso o di più da quel che ci consegnano certe norme sociali, certi costrutti, o certe definizioni: bisogna pur ammettere che ogni donna sia un soggetto che, nell’interpretare la realtà in cui si trova, genera senso. E dunque bisogna ammettere anche che in una persona transessuale ci siano tante cose, a cui la parola transessuale fa riferimento, con cui è in collegamento, ma che la parola non può pretendere di esaurire in sé. All’altro capo delle parole c’è la realtà, nella realtà ci sono le persone, soggetti che vivono, sentono, pensano e dunque plasmano il senso delle parole e la realtà che queste designano.
Il fatto è, e non lo scopro io, che ci sono sempre più cose che parole, e illudersi, o pretendere, di catturare la realtà con una definizione spesso equivale a evitare il lavoro di ricercare un rapporto corretto (vale a dire il meno possibile scorretto) tra le parole e le cose. È un lavoro che non ha esiti garantiti e prevedibili e che, soprattutto, richiede di tener conto non solo delle definizioni esperte, ma anche dell’esperienza soggettiva. Verso quest’ultima, e verso il suo carattere aperto, in mutamento, esprime assai poco rispetto la pretesa di catturare la realtà in una definizione.
Penso all’espressione “sesso assegnato”, che ha cominciato a diffondersi insieme alla nuova definizione di identità di genere. L’espressione sta a dire che a ogni nuova nata e nuovo nato viene dato un sesso, ma è una cosa esteriore, un costrutto sociale, a cui potrà ribellarsi e rispetto al quale potrà scegliere la sua identità di genere.
In questo ordine di idee chiamare bambina o bambino una nuova nata o un nuovo nato è rappresentato come un gesto arbitrario e un esercizio di potere o come il frutto di un’automatica e irriflessa coazione a ripetere conforme a certe aspettative sociali (a tale si riduce del resto, in questo ordine di idee, l’intero esser donna, l’intero essere un essere umano).
Ma è proprio così? È sempre così? Quando nasce una bambina e la si iscrive come bambina si sta soltanto iterando un uso sociale che vuole avviarla a un binarismo sessuale autoritario e repressivo? Siamo davvero tutte così sciocche, tutte così passive?
Sull’espressione “sesso assegnato” Stefania ha detto una cosa che mi ha toccata molto (e anche qui aggiungo le enfasi): «Per quel che mi riguarda non la sento mia, sarebbe come fare entrare lo stato e la burocrazia (a questo mi rimanda l’assegnare) tra le pieghe del mio corpo e della mia storia. Non dice quello che c’è di importante nel mio, di sesso, nella scommessa di gioia che l’ha accompagnato nella mia famiglia di donne. Per mia mamma è sempre stato chiaro che fosse una grande fortuna nascere donna. Assegnare a un sesso mi funziona solo se è un affidare: in qualche modo, certo, sono stata affidata a una storia di donne, che in qualche modo mi è stata affidata. E così arrivo alla seconda esperienza, quando sono diventata mamma io… ho ‘assegnato mio figlio a un sesso’? Quanto poco dice della buffa e intelligente dottoressa che faceva l’ecografia e degli scambi tra noi… E quanto poco dice del mio sentimento, una volta uscita dal suo studio: la sorpresa di un’attesa sconfessata e non confessata prima, la speranza che fosse una bambina, che invece non era: come si fa a essere la mamma di un maschio? Non avevo molti esempi attorno a me. E poi mia mamma, che senza che io parli, al telefono, intuisce e mi dice: non ci sono molti maschi in famiglia, sarà una bella avventura! E molta dell’inquietudine si placa… Sono movimenti d’anima, di corpi e relazioni che danno da pensare, e non è mica facile, ma quella parola “assegnare” non mi aiuta per niente».
Non nego affatto, e non lo nega Stefania («una volta ho sentito [quell’espressione] più vera, per la persona che me ne parlava e che raccontava di un’esperienza che, senza dirlo, penso la toccasse direttamente, l’essere nata con un corpo che aveva richiesto la decisione di genitori e medici») che alcune o alcuni abbiano sentito il sesso in cui sono nate o nati come esteriore, falso, “assegnato”. Ma non penso che la questione si riduca in tutti i casi a questo. Io sono madre di una figlia, mi ritrovo molto in quello che ha scritto Stefania, non la ho assegnata a un sesso (sono assai più intelligente e molto meno violenta di quanto quella parola mi definisce). La ho affidata a un sesso, quello femminile, ad una genealogia, a una storia, di cui mi sentivo parte e responsabile; e vedo che lei, che ora ha diciott’anni, con quella storia si confronta, fa i suoi conti, con quella parola, “donna”, apprende se stessa e si dice in nuovi modi[7]. Rinalda dice di aver provato gioia davanti alla parola usata da Stefania, “affidare”, ma dice anche «non posso usare la parola affidare senza attaccarci un mi. Posso usare solo affidarmi». Io mi ritrovo anche in questo. Il lavoro paziente con le parole, come lei lo chiama, è «sentire che cosa accade dentro di noi ascoltandole. E come suonano tornando fuori da noi». In affidarmi, mi piace come sottolinea quanto non siamo estranee a ciò che facciamo.
Temo le parole che restringono il senso delle esperienze e non aiutano a comprenderle (apprenderle) e a dirle, a farle proprie e modificarle.
4. Leggi e definizioni
Mi fa paura un legislatore che dice che il sesso di una persona è un segno su un documento o un complesso di norme da rispettare o da trasgredire, perché, se dice così, non ha alcuna idea di che cosa sia la libertà, e allora come farà a rispettarla? Mi fa paura una legge che per tutto definire troppo lascia fuori dell’esperienza per come le persone la vivono, la sentono, la nominano (tra affidare ed assegnare a un sesso c’è una grande differenza, come si fa a essere così rozzi e brutali da cancellarla?).
Per questi motivi, come molte e molti altri, ho proposto di scrivere nella legge: persone omosessuali e transessuali per indicare le persone oggetto della tutela, anziché definire che cosa è e in quante parti si articola l’“identità sessuale” di una persona. La prima replica è stata che sarebbe rimasto tagliato fuori chi non vuol essere né donna né uomo, o le persone in transizione o fluide. Come ho detto, restano fuori la maggior parte degli esseri umani nel loro rapporto creativo e misterioso (la parola “mistero”, profondamente ben scelta, è stata spesso usata da Neviana Calzolari) con sé e col mondo, mentre, d’altro lato, sarei sicura che qualunque persona considererebbe tutelata da una norma che si riferisce alle persone transessuali anche l’adolescente transgender.
La seconda replica è stata che omosessuale e transessuale non sono parole precise, “tecniche”, o anche che esse veicolano pregiudizi e stereotipi[8].
Al fondo, il sospetto era ed è che le persone come me, che si opponevano e si oppongono a queste definizioni, lo facessero e lo facciano contro quelle specifiche definizioni che danno riconoscimento all’identità di genere, la quale scombinerebbe il nostro conservatore binarismo o il nostro amore “essenzialista” per la differenza sessuale, che intenderemmo come differenza biologica (chi mai lo ha sostenuto nel femminismo del simbolico? Non si sa)[9].
Ma la questione è un’altra: non è il pericolo di queste particolari definizioni che è stato avvertito, ma il pericolo che inerisce in generale all’uso di definizioni “oggettive” nel campo delle esperienze soggettive. Non bisognerebbe perdere di vista che definizioni oggettive sono possibili nel campo delle cose oggettive, di laboratorio (l’acqua è un liquido), ma nel campo delle esperienze umane no. Pretendere di poter definire donna (un costrutto sociale) come si definisce l’acqua (un liquido) significa irrigidire e ridurre a cose di laboratorio la vita e il sentire delle persone, a oggetto la vita, a cosa il pensiero e la libertà e l’azione.
Da molti secoli si tramanda nel diritto il concetto che Omnis definitio in iure periculosa est, che si deve a un giurista che si chiamava Giavoleno ed è vissuto tra il 60 e il 120 d.C. In esso mi ritrovo, come molti giuristi e come, di fatto, vi si ritrovano le giuriste del simbolico (in realtà è un concetto metaforico, non si sa che cosa voglia dire, per questo può dire e aiutare a dire tante cose).
Purificare la lingua del diritto riempiendola di definizioni asettiche è una tentazione ricorrente, perché simili definizioni, dal tono burocratico e qualche volta ospedaliero (“sesso assegnato”), possono sembrare neutre, avalutative, oggettive, perciò migliori delle parole della lingua corrente, le quali hanno una gamma di significati, dipendono dai contesti in cui sono usate, risentono del tempo e delle circostanze e di chi le usa. Ma, come ha scritto un giurista a proposito del linguaggio giuridico: «Tutte le volte che si tende a trascurare gli aspetti emotivi e normativi, più genericamente umani di tale linguaggio a vantaggio degli aspetti puramente descrittivi e scientifici, ci si propone in realtà, più o meno consapevolmente, di razionalizzare in sostanza alcuni aspetti delle ‘azioni’ e dei sentimenti umani, sulla base di mezzi e fini assunti come razionali (…), quasi che questi ultimi fossero suscettibili di spiegazione scientifica». Con l’effetto che: «Una volta sottoposto a un processo di ‘purificazione’ [il linguaggio giuridico] non perde il carattere normativo, non si affievolisce il contatto col mondo dei valori, ma si irrobustisce quell’unico valore che viene imposto da chi pretende di renderlo più razionale»[10].
L’eccesso di definizioni in diritto è sempre pericoloso perché sostituisce, al lavoro importante e complesso di tenere le parole della legge in relazione con le cose per come le persone le vedono e le sentono, e le fanno, al lavoro di tenere la legge in connessione con l’esperienza di ciascuno di noi, l’operazione semplificativa ed escludente di creare con le parole della legge realtà artificiali, le quali possono non tenere in alcun conto ciò che pensiamo e sentiamo o sappiamo di ciò che viviamo e che siamo.
4.1. Chi media tra la legge e la vita?
È vero che sono molti quelli che, a differenza di me e di tanti altri, pensano che la legge debba porre definizioni molto precise. Generalmente si ascrivono a questo gruppo i giuspositivisti analitici, una specie di giurista molto interessato all’efficienza dei sistemi normativi e fautore di quella che è detta la neutralità etica del diritto.
Per far capire che cosa è una norma imprecisa e quali sono i suoi difetti questi giuristi fanno il caso del capufficio che dice alla segretaria (non è colpa mia se usano questo esempio piuttosto stereotipato): “passami solo le telefonate urgenti”. Questo sarebbe l’esempio di una norma pericolosamente indeterminata. Infatti: quali sono le telefonate urgenti? Alla segretaria potrebbe sembrare urgente una telefonata che non lo è affatto e il dirigente sarebbe disturbato inutilmente (ecco l’inefficienza).
Un altro esempio è “guidare con prudenza”. Una norma così indeterminata a che cosa serve? È inutile! Occorre essere precisi e dire: “non superare 50 km/h”.
Come dicevo, i fautori delle definizioni sono convinti assertori della neutralità etica del diritto. Che cosa si intenda per essa, e da dove provenga, questi esempi lo dimostrano bene: si tratta della convinzione che gli esseri umani non possano mettere in comune giudizi morali. I giudizi morali, conviene chiarirlo, sono tutti quelli attinenti alla qualità delle cose e delle esperienze (bello brutto buono cattivo giusto sbagliato urgente in quanto sinonimo di importante…). I giuristi definitori accedono a convinzioni filosofiche secondo le quali non esiste, e non può esistere, una nozione comune di telefonata urgente, perché “urgenza” è concetto qualitativo, morale, è “idea”, e le idee non contengono oggettività. Eppure, tutti sappiamo che quella nozione esiste, tutti la conosciamo, ed essa grosso modo ricomprende le telefonate che avvertono di un imprevisto, esclude quelle che confermano un appuntamento routinario. Come si è formata questa nozione? Con l’esperienza, vissuta e scambiata tra gli esseri umani. Io posso parlare di telefonate “urgenti” perché l’idea di urgenza non esiste solo nella mia testa, e la parola, pur esprimendo un’idea, designa anche una realtà, in quanto ha un senso che io come altri conosciamo.
La convinzione che il diritto debba essere neutro in campo morale poggia invece sulla convinzione che nel campo dei giudizi qualitativi ogni giudizio sia puramente “privato” e pertanto irrilevante, a meno che non diventi il contenuto di una norma che lo impone a tutti. Ciò che è urgente per me e ciò che è urgente per te saranno sempre cose diverse, in comune non abbiamo niente, se non la norma che stabilisce che cosa dobbiamo considerare urgente. Ma, ripeto: non è così! Altrimenti non potrei mai dire per esempio “ho fretta” pensando che l’altra capisce ciò che sto dicendo, o “sto male, sto bene”, senza far riferimento a un codice normativo che definisce “l’aver fretta” o lo “star bene”.
I fautori delle definizioni non danno rilievo al fatto che, in realtà, noi tutti abbiamo un’idea di che cosa è una telefonata urgente e di che cosa non è, di che cosa significa avere fretta e di che cosa può significare non star bene. Proprio perché non danno rilievo a questo fatto, essi si allontanano dalla realtà per come un essere umano la vede e la sente: ognuno di noi sa di avere un’idea di che cosa è una telefonata urgente, simile a quella di altri. Essi invece pensano, come dicevo, che ognuno, quanto ai giudizi morali, ha un suo mondo soggettivizzato, tutto interno a sé, irrilevante per l’esterno: per me è urgente x, per te y, allora, per avere certezza, ci vuole la norma, che si imponga a te e a me, che elenca puntualmente ciò che è urgente.
Ragionare così significa pensare che il modo in cui le persone sentono, vivono e giudicano le proprie esperienze non contribuisce a creare la realtà (la mia e la vostra idea di ciò che è urgente è irrilevante, è solo soggettiva) e che è oggettivo e reale solo ciò che è definito da un codice pubblico, esteriore e, in un modo o in un altro, cogente. Il capufficio dovrebbe stilare una dettagliata lista delle telefonate urgenti per lui, e attaccarla sul desktop della sottoposta, e la segretaria dovrebbe smettere di pensare e ricordare, di tener presente quel che sa quanto all’urgenza delle cose.
Si capisce, mi pare, che i fautori delle definizioni pensano che sia necessario limitare e se possibile escludere del tutto la soggettività, e il suo ruolo mediatore e interpretativo del senso delle cose, dall’applicazione della legge, dalla vita della legge, e quindi dal rapporto della legge con la vita. La soggettività è vista e rappresentata negativamente come causa di incertezza e di abuso, in base al presupposto che la soggettività (io, tu, voi) nulla può mettere in comune, il che significa che non partecipa alla costituzione della realtà, la quale non esiste se non in quanto scelta e deliberata dalle norme, giuridiche o sociali, che di tempo in tempo la costruiscono. Non esiste nulla che sia urgente, o buono, nessuno sa niente al riguardo; esistono solo le cose che sono definite come urgenti, o buone, da un codice normativo, come le leggi o i costumi, che sia abbastanza forte da imporsi a tutti e che è convenzionale e mutevole.
4.2. Se la legge crea un mondo artificiale
Benché amino sottolineare la loro neutralità etica (che considerano un vanto), i fautori delle definizioni sono in realtà difensori di un altro interesse, che è il potere del legislatore (il potere di dare norme agli altri). C’è infatti un’altra ragione che sta al fondo della pretesa che la legge possa e debba dare definizioni molto precise, e la mostra bene l’esempio del “guidare con prudenza”, e questa ragione, come vengo dicendo, ha a che vedere col perché si fanno le leggi.
È antichissimo il pensiero che la legge viene fatta – iubendo, vetando, puniendo, permittendo – perché ci sono persone che non capiscono da sole come devono comportarsi. Quando questo pensiero fu inizialmente messo nero su bianco, i giuristi pensavano che la legge avesse solo una funzione dichiarativa di qualche cosa che è scritto nelle cose, pensavano che il diritto fosse un’espressione di ragione, o per meglio dire di equità, cioè di senso e perciò la ragione bastasse a capirlo. Per questo si poteva benissimo scrivere una norma come “guidare con prudenza”. Se guidi e non sei prudente potresti provocare incidenti, tutti lo capiscono, non ci sarebbe bisogno di dirlo, data la natura dell’attività “guidare un veicolo”, che è attività pericolosa (è un fatto in cui è iscritto un valore, una qualità). D’altra parte, è anche vero che, purtroppo, qualcuno è stupido, allora meglio dirlo espressamente.
Dire “guidare con prudenza”, in effetti, significa dire una cosa ovvia, che sta già nelle cose (non vuoi forse arrivare sano e salvo a casa e senza essere imputato di omicidio stradale?) che però a qualcuno molto limitato o molto sventato potrebbe sfuggire. Perciò questo qualcosa, cui tutti, a senso, arrivano, va pur detto, è preferibile che sia detto, perché ci può sempre qualcuno che non ci arriva da sé, e sarebbe un peccato se poi fa una stupidaggine che magari avrebbe evitato se tu glielo avessi detto. Ma si tratta comunque di dire qualcosa a cui, a senso, la maggior parte arriverebbe da sé e che aggiunge poco o nulla a un dover essere che è già nell’essere (guidare è una cosa che richiede prudenza, se non vuoi provocare danni gravi a te o ad altri), di un essere, fattuale, che le persone sono in grado di interpretare e capire nella sua qualità, nel suo valore.
In un tempo molto più vicino a noi, nel XVII secolo, l’antico e plurisecolare pensiero per cui la legge va scritta, va detta, perché c’è sempre qualcuno che potrebbe non capire quel che è ovvio, e che ovvio rimane, è stato molto rielaborato, precisamente dai gesuiti della Seconda scolastica, che all’idea dichiarativa della legge sostituirono l’idea costitutiva (la legge non descrive la realtà, la istituisce e la determina). I gesuiti pensavano che il diritto non è affatto una cosa di ragione, che ce l’hanno tutti, è una cosa di volontà ed è precisamente la volontà di un’autorità che guida il gregge; serve a esprimere la volontà che le cose siano fatte in un modo o in altro. Questa volontà, siccome risponde ai fini superiori che solo il legislatore conosce, può avere un bel nulla a che vedere con come le persone comuni di media intelligenza pensano che sia bene fare, agire, in certi casi o in certe attività. Per questo occorre comunicare la volontà del legislatore nel modo più chiaro possibile: in materia di legge, conta solo la volontà di chi la stabilisce. I gesuiti furono in effetti i primi a insegnare ai giuristi la grande importanza delle tecniche di comunicazione della legge ai suoi destinatari, purtroppo con effetti devastanti sul modo in cui molti giuristi hanno, di poi, iniziato a ragionare. Nasceva, come dicevo, l’idea che la legge non descrive la realtà, la costituisce.
Sicuramente, questi gesuiti, che erano molto moderni, molto vicini agli odierni fautori delle definizioni, concepivano la legge come una cosa che nulla ha a che vedere con il senso comune, perché erano molto pessimisti sulla natura umana: l’uomo è peccatore, da solo non si salva, ci vuole l’aiuto di dio (legislatore) ma non vorrà l’uomo sindacare con la sua modesta ragione la volontà di dio o pretendere di capire le cose.
Ecco perché “guidare con prudenza” è una cattiva norma, e la legge deve invece definire molto precisamente quel che permette e quel che vieta e stabilire “non superare i 50 km/h”. La legge può perseguire fini talmente tutti e solo suoi, che col solo lume dell’intelletto un pover’uomo o una povera donna non ci arrivano. Magari tu credi che un limite di velocità serva a evitare incidenti, sicché basterebbe dire “siate prudenti”; invece che ne sai? Il legislatore può porre quel limite per fini tutti suoi, per esempio può contare proprio sul fatto in molti lo violeranno, sicché il limite di velocità non ha a che vedere con la sicurezza della circolazione ma con l’impinguare le languenti casse pubbliche coi proventi dell’Autovelox. Il senso comune che noi attribuiamo alla parola “guidare” non ha alcun rilievo dal punto di vista del legislatore, che può vedere la guida non come una attività pericolosa ma come una fonte di redditi per le casse pubbliche.
Riassumendo: da una parte la preferenza per le definizioni è fondata sul presupposto che le persone non possono mettere in comune i loro giudizi morali e dare realtà alle idee (l’urgenza, la prudenza) grazie alla loro esperienza. Dall’altra parte in quella preferenza, quando usata nel campo del diritto, gioca un ruolo eminente la convinzione secondo cui, quali che siano le idee sulla realtà di qualcosa che le persone hanno (quale che sia il senso comune di una parola), la legge non è affatto tenuta a corrispondervi.
Le definizioni precise sono la cosa più amata da coloro che pensano che la legge non debba avere alcun rapporto con la realtà, non sia da essa limitata e misurata, ma abbia invece tutto il potere di dirigere e determinare la realtà.
Ecco le ragioni di chi, come me, diffida delle definizioni, come pure dei neologismi, o dei termini tecnici e scienziati nelle leggi. Finché usa espressioni che, benché imprecise, hanno non di meno senso nel linguaggio comune (donna, uomo, omosessuale, transessuale), il legislatore dichiara di dipendere da, di non essere autonomo da, la capacità di dare senso alle parole, e quindi alle esperienze, delle persone comuni: fa professione di eguaglianza. È come se dicesse (ed in effetti dice) “ciò che vale per l’uno vale per l’altro”, davanti alla lingua siamo uguali perché non la ha stabilita un atto di volontà ma la storia, il tempo, il lavorio delle tante menti di tutti coloro che hanno dato senso alla loro esperienza delle cose.
L’aspirazione a definizioni molto precise è fondata sulla convinzione opposta e cioè che il diritto possa, anzi debba, prescindere dall’esperienza. È una aspirazione molto pericolosa. Essapone il problema che i destinatari della “norma” saranno spossessati, come ogni c.d. “inesperto” davanti al c.d. ’”esperto”, della competenza a dare senso e valore a fatti ed esperienze, che invece vivono in primissima persona, di cui sono i e le dirette responsabili (come il senso del proprio essere sessuati, del proprio essere donna, del dire il sesso di una creatura)[11]. Prediligere le definizioni “precise” significa pensare che la realtà sia qualcosa che non esiste, che non dice alcunché, non dà segnali che l’intelligenza umana può cogliere e in base ai quali comportarsi, non è composta dalle scelte e dalle azioni delle persone, ma preformattata dall’alto.
Significa, ancora e soprattutto, pensare che la realtà è qualcosa che le norme possono creare, causare, determinare, invece che qualcosa che viene prima delle norme e ne rappresenta un contenimento, un limite e una ragione. Così succede che la madre assegna un sesso, non affida sua figlia a un sesso, affidandovisi a sua volta: le donne possono pensare di affidare le proprie figlie al sesso femminile, di affidarsi al proprio sesso; ma questa realtà sarà muta per sempre dato che per la legge “assegnano” un sesso.
Dalla medesima irrilevanza dello scambio di esperienze come base per la formazione di un senso comune nel campo della qualità, dei valori, e del significato delle cose viene la convinzione che si possa stabilire con legge che se una “si sente” appartenere a un certo sesso occorre riconoscerlo. In questi casi, è solo la forza della norma che dà rilievo a quel sentire, e il presupposto è che, in mancanza dell’aiuto della forza cogente della norma, quel sentire non avrebbe mai alcun peso. Il mio essere dipende da un legislatore che oggi sceglie di dar ad esso rilievo, ma domani potrebbe cambiare idea: il sovrano, dopotutto, è lui.
5. Sopra la legge
In passato, non in un passato molto lontano come forse potrebbe sembrare, i giuristi pensavano che una regola fosse una storia, un racconto, una brevis rerum enarratio, ed erano attenti a insegnare che per spiegare una regola e per interpretarla e applicarla bisogna tener presenti i fatti e fatterelli in relazione ai quali si è venuta formando, e che a poco a poco, siccome simili tra loro, potevano essere espressi in una breve formula, detta regola. Ma ammonivano che bisogna saper usare la regola, e perciò occorre tenere sempre presente che è dai fatti che viene la regola, perché c’è un legame tra le parole e le cose; occorre guardarsi dal generare regole con le regole, perché si rischia di perdere di vista la realtà sottostante e di fare ingiustizia alla realtà, cosa che è molto grave perché quando si nega la realtà della realtà ne va in primo luogo della realtà nostra. Di quali regole parlavano? Erano le regole che si trovavano nel diritto romano, che ha fornito la principale fonte del diritto in Europa sino alle codificazioni; queste regole, pensavano i giuristi, erano a loro volta nate non dalla volontà di un legislatore, ma «da una lunga serie di osservazioni» dei comportamenti umani, dei loro effetti sociali, ed erano tutte esempi di un medesimo punto di vista: quando, osservando un certo rapporto, ad esempio un contratto, si vede che c’è uno squilibrio (uno guadagna troppo, l’altro troppo poco, uno ha imposto all’altro una condizione fraudolenta) occorre ricostituire l’equilibrio, lo scambio, affinché X compensi Y, vi sia reciprocità, in questo senso giustizia. Una volta gli antichi romani si posero il problema se il parto della schiava data in usufrutto spetti all’usufruttuario, come accade, secondo la regola generale, a tutto ciò che in fundo nascitur; ma fu fatto osservare che un bambino, per quanto nasca, non nasce come nasce una mela sull’albero, per cui la regola in quel caso non valeva, perché non rispecchiava bene la realtà che noi vediamo e sentiamo. I giuristi, per secoli, ne ricavarono che il senso delle parole di una regola andava ricercato tenendo presenti le cose a cui si riferiva e che gli abusi del linguaggio sono alquanto temibili nel diritto, perché essi rischiano di realizzare altrettanti attentati alla realtà, e altrettante cancellazioni dei sentimenti intelligenti delle persone, di quello che le persone sanno della realtà.
Le giuriste del simbolico pensano come questi giuristi, per i quali dietro ogni regola c’era un fatto, una situazione, e lo sforzo di far coincidere, per quanto possibile, le cose con le parole, per non fare violenza alla realtà. Ricordo una frase celebre di Lia Cigarini: «Le regole, io penso, si curveranno in un senso o nell’altro a seconda del modificato rapporto con la realtà di donne e uomini, a seconda che la differenza femminile parli»[12].
Qui c’è l’idea che il diritto viene dopo l’esperienza, di cui sono protagonisti gli esseri umani, la dichiara; il diritto è visto come un mezzo per portare a parola l’esperienza, che è il vero punto in cui l’idea di diritto e quella di giustizia si intersecano. E c’è la coscienza che quando non è così, quando non si impegna a portare a parola l’esperienza, il diritto la minaccia. Sempre.
L’idea della regola che viene dopo, che esprime e descrive una realtà che si è consolidata attraverso il modo intelligente in cui i suoi protagonisti, gli individui, la hanno vissuta e interpretata e quindi nominata, è molto ricorrente nel pensiero femminista del simbolico: la si ritrova ad esempio in importanti passaggi dedicati all’esperienza politica collegata alle lotte contro gli effetti devastanti per l’ambiente di vita delle persone dell’Ilva di Cornigliano, e come suggerimento di criteri per l’azione pubblica: «Le regole scritte sono un punto di arrivo e non di partenza. Nell’adottarle, la mediazione fra i diversi interessi dovrebbe essere già avvenuta: è qui che la partecipazione gioca un ruolo fondamentale: porta alla luce i diversi interessi, li soppesa e li compensa al fine ultimo che dovrebbe essere quello della miglior scelta possibile col minor sacrificio di risorse anche umane»[13].
Le femministe del simbolico non si sono opposte alle definizioni della legge Zan per un subitaneo capriccio o un rigurgito omofobo. Esse hanno sempre saputo che «La lingua è signora (…) è sopra la legge (…) resiste alle nostre tentazioni volontariste»[14]. Hanno preferito fare i conti con le resistenze della lingua e si sono ben guardate dal pensare di normarla, perché sapevano e sanno, in armonia con una sapienza giuridica millenaria, che preservare l’autonomia della lingua è l’unico modo perché la nostra realtà generi la legge e la tenga a bada, e non avvenga il contrario, ciò che ci riduce a creazioni determinate dalla legge e tutte a sua disposizione[15].
6. Diverse visioni della realtà
Sul ddl Zan una parte della sinistra e il pensiero del simbolico si sono trovati in conflitto, e la storia non è nuova: le ragioni di questo conflitto sono di lunga data e risalgono a due diversi modi di sentire la realtà, che sono i due modi diversi presupposti ora dai fautori delle definizioni nel diritto, ora da chi dalle definizioni mette in guardia.
A partire dalla modernità storica si è affermata la tesi nota come “dualismo tra fatti e valori”: per molto pensiero moderno i fatti sono solo meri fatti, e sono oggettivi; i valori, cioè i giudizi che attengono alla qualità delle esperienze e delle cose, le idee (buono cattivo giusto … o urgente, per tornare a un esempio fatto poco fa) sono solo soggettivi. Come fa un pensiero soggettivo a valere oltre la sfera del soggetto? Vi riesce se in qualche modo acquista il potere di determinare la condotta altrui.
Un’altra tradizione di pensiero pensa che anche i giudizi soggettivi compongono l’impasto della realtà, che tutti concorriamo a far essere, elaborando la nostra esperienza vissuta. Una filosofa molto cara al pensiero del simbolico, Iris Murdoch, dice che la realtà è frutto di una co-implicazione tra soggettivo e oggettivo e dicendo così dice una cosa che pensava Giambattista Vico, e cioè che la mente umana partecipa creativamente al reale. Che cosa vuol dire? Che la realtà non è composta solo di fatti ai quali è applicata una volontà normativa, ma del contributo di una miriade di azioni e di pensieri con cui ciascun essere umano interpreta e vive la propria realtà e così trasmette la realtà agli altri.
Il pensiero di sinistra, che è positivista e materialista, aderisce all’idea moderna di realtà: la realtà dipende per intero dai poteri che la conformano (perciò è importante prendere il potere, per modificare la realtà, che in rapporti di potere si riduce, mentre non ha alcuna importanza cosa pensa e cosa sente il singolo individuo, per definizione impotente a cambiare le grandi forze della storia). Il pensiero del simbolico non pensa che la realtà sia fatta solo di rapporti di potere, e proprio perciò pensa che la realtà non è solo un dato, manipolato e manipolabile a piacere. Se, da un lato, essa dipende anche da come ciascuno di noi la vive e la interpreta, dall’altro, e per la stessa ragione, nessuno di noi può essere reale senza confrontarsi con la realtà, il che significa anche abbassare le pretese di poterla modificare a piacimento con atti di volontà (o di “autodeterminazione”), o definendola a modo proprio, senza tener conto di cosa ne pensano gli altri (Omnis definitio periculosa).
Dunque, da una parte c’è chi assume che la realtà di cui gli esseri umani fanno parte è solo la realtà “sociale”, costituita da rapporti di potere che riguardano soggetti collettivi, come le classi, le masse, “le comunità”, i generi, varie sovrastrutture, tra cui principalmente la lingua, che sono molto forti e molto condizionanti ma anche relative e convenzionali. Nessuna di esse è reale, nessuna è per sé, ognuna è costruita volontariamente, sicché tutte possono (almeno in teoria) essere ‘riformate’ con altrettanti atti di volontà (es. con leggi o strategie educative). Diventa molto importante impadronirsi del potere di governare i codici “sovrastrutturali” perché così si stabilisce la realtà. Un tempo si dava molta importanza alle sovrastrutture economiche e si affermava che si doveva lottare contro di esse per la liberazione degli oppressi, oggi si accetta tranquillamente il neoliberismo e si lotta contro la lingua come sovrastruttura, dicendo che è quella che deve essere riformata per dare libertà e visibilità agli oppressi. Siccome lo schema è lo stesso (sempre di lottare contro una sovrastruttura si tratta) ci si illude che la faccenda sia una cosa di sinistra, cioè giusta e progressiva.
Il femminismo del simbolico, che accede a una visione dell’essere umano come una unità indissolubile di ragione e emozione, natura e cultura, pensa che l’esperienza umana (la realtà) è materiale ma anche spirituale, è impastata sia dei costrutti sia della nostra possibilità di trascenderli, dà spazio al bisogno dell’animo umano di dare senso a se stesso e di sentirsi reale e pensa alla lingua non come a un codice che a noi si impone dall’esterno ma come il frutto delle nostre comuni intenzioni di significare la realtà, del nostro desiderio di essere. E così facendo, fa quella che si può chiamare una scelta nel senso del preferibile. Rispetto al pensare che il mio essere donna (come qualunque altra condizione umana) non ha senso in sé, è solo un dato materiale (biologico) rivestito di una serie di costrutti sociali, una produzione delle condizioni materiali dell’esistenza e un dispositivo di disciplinamento, preferisce pensare che il mio essere donna ha un senso, senso che consiste, da parte di ciascuna, nel ricercarlo, e che non può essere ricercato senza pensare che c’è, che ha realtà.Ecco perché lasua ricerca presuppone il partire da opinioni, che sono esperienze, di chi ci ha precedute e ci accompagna, dalle altre donne. La ricerca del mio essere presuppone dare credito alla realtà di ciò che altre hanno fatto e detto, dicono e fanno, e alla mia.
Molte incomprensioni tra il femminismo del simbolico e la sinistra politica dipendono da un’insufficiente messa a fuoco di questi diversi presupposti filosofici di pensiero, che diventano modi di essere, di sentire e di fare: il primo, ma non la seconda, pensa che la realtà esiste, e perciò anche che la realtà è un principio di bene, dal momento che è meglio essere che non essere. Per questo il pensiero del simbolico ha invitato le donne ad assumersi il proprio essere donna come una realtà con cui è necessario fare i conti, se la si vuole trasformare in realtà.
Nei secoli che abbiamo alle spalle, il pensiero maschile non ha dato credito all’essere (che ha ridotto un complesso di dati di fatto o di convenzioni, ciò che esalta la volontà e il suo potere). Il fatto è, mi pare, che per dare credito all’essere, alla realtà, per avere voglia di farci i conti, per voler salvarla dal ridursi a una contingenza insensata o a una lotta per il potere, occorre sentire che c’è, che ci riguarda, che ha qualcosa a che vedere con noi direttamente e personalmente. Non ho paura di affermare che le donne danno credito all’essere più degli uomini perché, l’essere, possono metterlo al mondo, possono affidarlo, e con questo possono affidarsi ad esso (altrimenti, a che pro far nascere?). L’ordine simbolico della madre è una grande scommessa sul fatto che non è vero che l’essere è niente, altrimenti non metteremmo al mondo nessuno, e tanto meno metteremmo al mondo noi stesse o ci alleeremmo con altre, e con altri, affinché siano ciò che possono essere (come fece la mia amica con me, a Pisa, tanti anni fa). Ed ecco perché, davanti a una proposta di legge come il ddl Zan, portata spesso avanti dai suoi assertori in nome di una domanda di empatia verso una condizione umana che pareva ammettere solo una adesione incondizionata, quasi che l’empatia dovesse «cancellare la mia capacità di dare senso al mondo», molte hanno sentito il rischio di sentirsi fatte a pezzi, «una parte di me ammessa, l’altra no» (sono parole di Rinalda). Esperienza antica, per le donne.
Intorno a queste diverse visioni della realtà risiedono le cause del dissenso tra il pensiero femminista del simbolico e molto pensiero di sinistra.
Un mio amico filosofo la definirebbe “una spaccatura ermeneutica radicale”. Ma con questo non sarebbe tirata in ballo che un’altra definizione, che, come tutte le definizioni, serve a dare l’illusione di controllare i conflitti, li depotenzia e li neutralizza, li rende insignificanti mentre li chiude in un classificatore per non pensarci più. Laddove invece sarebbe il caso di aprirli, non come conflitti falsi e falsanti fatti di accuse farlocche di transfobia o essenzialismo, ma come conflitti profondi e importanti su come pensiamo il mondo e noi stesse: non c’è solo la materialità, ma anche la trascendenza, è questo il nodo, come dice Rinalda, che di queste cose sa molto, e per esperienza[16].
[1] Non credere di avere dei diritti (Libreria delle donne di Milano, Sperling&Kupfer, Milano, 1987) ha ingenerato questa diffusa e infondata credenza. Il libro metteva e mette in guardia contro le illusioni riposte nella legge come strumento di riforma. Molti e molte, scambiando l’identificazione tra diritto e legge con una realtà di natura, hanno considerato ciò come equivalente a diffidare dal diritto tout court.
[2] Si può, per convincersene, leggere A. Simone, Donne, è arrivato il Pnrr!, online su Dinamopress, 10.6.2021. Per le cose che affermo in precedenza sulle norme di genere e le politiche di genere europee mi permetto di rinviare a S. Niccolai, Lotta alle discriminazioni e modello sociale europeo, Efesto, Roma, 2022. Ma una ricerca fatta per bene dovrebbe cominciare da La rivoluzione inattesa, con scritti di A. Buttarelli, G. Longobardi, L. Muraro, W. Tommasi, I. Vantaggiato, cur. L. Cigarini, Pratiche editrice, Parma, 1997. Non si dovrebbe nemmeno pensare che le teorie di genere siano nuove, in quanto affondano nelle premesse più tradizionali di un sociologismo in fondo comtiano (cioè originario), quello che, come già si osservava nell’Ottocento, spinge a concepire ogni persona come «organo della società, dalla quale riceve tutti gli influssi che formano e muovono la vita, e della quale riflette tutte le mutazioni ad esse poi adattandosi», secondo la diagnosi piuttosto precisa di un giurista, Francesco Buonamici, che scriveva queste righe nel 1898.
[3] Lo spiegava molto bene Luisa Muraro in una lezione di molti anni fa, commentando un passo di Virginia Woolf, che «non ha bisogno di distinguere quello che nella donna è effetto di una condizione sociale da quello che potrebbe essere naturale. È una grande economia di ragionamento (…). Non fare la distinzione tra quello che nella donna sarebbe opera della natura e quello che sarebbe opera del condizionamento culturale, ragionare per quello che a lei risulta e concludere, questo è un mettersi, mettere la donna nella posizione di soggetto. L’essere donna non viene più rappresentato attraverso la determinazione della sua natura o della sua condizione (…) questa distinzione e queste disquisizioni lei le salta e riesce a farlo logicamente, non è che evita il problema, lo risolve veramente, nel senso che prima delle determinazioni esterne c’è lei: c’è un soggetto pensante capace di ragionare e di concludere in base a quello che le risulta. È il cominciamento della soggettività femminile e quindi della libertà e quindi della possibilità di formulare dei giudizi e di arrivare a una conclusione. (…) E l’inizio di questa strada è entrare in sé, pensare da sé secondo quello che le risulta, con l’istruzione, poca o tanta, che si trova, i condizionamenti, naturali o sociali, poco importa. E non riferirsi più a sé da una posizione di esteriorità come spesso si fa: anche noi a volte lo facciamo, quando riduciamo l’esser donna a una questione scientifica o politica o quello che volete. Lei si mette nella posizione di soggetto e da qui, con quello che sa, con quello che vuole, fa derivare le conseguenze»: Luisa Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, cur. R. Fanciullacci, Orthodes, Napoli, 2011, p. 33; il testo riproduce una lezione tenuta a Roma il 21 e 22 febbraio 1987, dal titolo ‘La rivoluzione simbolica del partire da sé. Le Tre ghinee di Virginia Woolf’, presso il centro culturale femminista Virginia Woolf B di Roma (gli stessi locali poi divenuti la Casa internazionale delle donne di Roma, ricorda Fanciullacci nell’Introduzione). Primo corsivo nell’originale, secondo aggiunto.
[4] L. Muraro, Vita passiva, in La rivoluzione inattesa, cit., p. 68-69. Partendo dall’idea che l’empatia è l’esperienza di un altro io, «’l’esperienza a cui rimanda il sapere dell’esperienza vissuta altrui’, Muraro osserva che «alla nostra società sta capitando l’estinguersi, nei rapporti tra esseri umani, di questo tipo di esperienza, scoperto da Edith Stein, che si chiama empatia»; cresce con ciò «il senso della nostra impotenza» anche perché «molte informazioni ci arrivano già confezionate con l’interpretazione, il commento … Non è come quando si legge, che molta parte resta da elaborare con l’intelligenza e la fantasia. Veniamo esonerati da ogni elaborazione del nostro sentire al punto che perfino questo, il sentire, diventa superfluo».
[5] «Parliamo di un concetto largamente acquisito nel nostro ordinamento, riconosciuto in testi di legge e in convenzioni internazionali, di cui parlano da anni le corti di merito e su cui più volte si è espressa la Corte Costituzionale. Non è dunque un concetto nuovo o un artificio linguistico introdotto in questo testo. Ci sembra un errore pensare di sostituirlo con il riferimento alla ‘transessualità’, termine che peraltro in ambito giuridico non ha alcun riscontro»: così in Omotransfobia è polemica tra le femministe. L’appello delle favorevoli al ddl Zan, in La Repubblica on line, 3.7.2020. Richiamerò più di una volta questa frase.
[6] Sin dal 1985, la giurisprudenza costituzionale adotta l’espressione “identità di genere” per indicare il diritto a veder coincidere la propria identità sessuale con quella percepita, se sentita non corrispondente al sesso di nascita, nei casi delle persone che vivono a questo riguardo una dissociazione. Dato che questo diritto, appartenendo alla sfera dell’identità sessuale, ha carattere fondamentale, e dato d’altronde che esso coinvolge interventi sul corpo (che è la sfera più intensamente protetta, dalla Costituzione, nei confronti di ingerenze esterne), è stato riconosciuto che la soddisfazione di questo diritto non deve di necessità essere condizionata a che il soggetto si sottoponga a trattamenti sanitari che potrebbero comprometterne gravemente la salute fisico-psichica. Di qui la possibilità di ottenere la modifica dei documenti senza un intervento chirurgico demolitivo/ricostruttivo dei caratteri fisici sessuali, ma purché il passaggio sia serio e univoco, si esprima cioè in una «oggettiva transizione dell’identità di genere» (sent. 180/2017, ma già 221/2015, enfasi aggiunta). In quanto attiene all’identità, il diritto all’identità di genere trova infatti una limitazione nelle esigenze di certezza dei rapporti giuridici, che hanno rilievo in tutti i casi in cui un diritto appartiene all’identificazione della persona nei rapporti giuridici e sociali. Su queste cose è stata molto chiara F. Izzo, Perché ‘identità sessuale’ valorizza le differenze, in La27maOra/Corriere, on line il 9.7.2020.
[7] «Situandosi in quella genealogia, è un altro mondo che appare come già reale, tanto nel suo essere presente quanto nella sua storia»: S. Ferrando, Sopra la legge [1], in Diotima, Per amore del mondo, 17/2020.
[8] Alcune hanno scritto che sostituire identità di genere con transessualità sarebbe un errore, perché, tra altro, transessualità è «termine che peraltro in ambito giuridico non ha alcun riscontro» (Omotransfobia è polemica tra le femministe, cit.). “In ambito giuridico?” Da quando una femminista si preoccupa di farsi forte di quello che ha riscontro “in ambito giuridico”? E comunque, è pure un fatto che, digitando su Google “legge sul transessualismo” si viene condotti dritti alla legge n. 164 del 1982: il termine non avrà riscontro nell’”ambito giuridico” (ed è cosa tutta da dimostrare) ma ne ha nella lingua corrente (è cosa che non ha peso?).
[9] «Per alcune esponenti del femminismo, l’uso della categoria di ‘identità di genere’ minaccia il sesso biologico, aprendo a una fluidità di identificazioni e cancellando il corpo con cui siamo nate» (Omotransfobia è polemica tra le femministe, cit.).Semmai, è stato il femminismo anglosassone, a differenza di quello europeo, a operare la «divisione netta … che ha distinto tra sesso biologico (sex) e lingua (gender)» e «l’aver isolato il sesso biologico dalla lingua abbia portato a delle divaricazioni di cui sentiamo fortemente le conseguenze oggi. Ora, invece, la sessualità è intrecciata fin dall’inizio con le parole. Per noi è più evidente quello che è vero in generale: c’è porosità tra il piano delle parole e il piano della sessualità. In altri termini c’è porosità tra natura e cultura. Nel conflitto oggi aperto sulla questione dell’identità di genere e della differenza sessuale uno dei punti centrali è proprio questo: il poter pensare di separare sesso biologico dal piano del linguaggio»: C. Zamboni, Il nostro è un corpo vestito di parole, in Libreria delle donne.it., 7.12.2021. Il testo si conclude con queste parole: «Credo che chiarire sia da parte nostra sia da parte del movimento LGBTQ+ l’uso diverso delle parole e il significato di politica come creazione di modi di vivere assieme, possa liberare energia per il formarsi di alleanze su particolari questioni che si presentano nel nostro paese. Del resto mi interessa quando vedo una loro ricerca di verità soggettiva in rapporto alla sessualità, e sento che in questo ci sono semi trasformativi potenzialmente arricchenti per tutti».
[10] A. Giuliani, Contributi a una dottrina del diritto più pura, Giuffré, Milano, 1953, p. 189.
[11] Sul problema della sostituzione dell’esperto alla voce di chi vive l’esperienza il pensiero del simbolico batte spesso; tra tante, sono molto espressive le frasi di Luisa Muraro in Non è da tutti, p. 37, sui «discorsi che coprono l’esperienza del vero con una massa di conoscenze che si impongono perché sono dimostrate, dimostrate ma non vere perché non restituiscono l’esperienza, la sostituiscono».
[12] Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche editrice, Parma, 1995, p. 232. Dell’opera è appena uscita una nuova edizione a cura di S. Ferrando per Orthodes, Napoli, 2022. Per Cigarini il processo, che si affida allo scambio tra parlanti, è, come lo è sempre il linguaggio, occasione in cui, salendo al livello della parola, «l’esistenza umana si dà o non si dà ragione di essere», ib., p. 85).
[13] Patrizia Avagnina, in D. Alfonso e P. Avagnina, Romanza popolare. Cornigliano, una storia corale, De Ferrari, Genova 2006, p. 152. Ringrazio Stefania Ferrando per avermi fatto conoscere questo testo. Metto l’enfasi su “compensa”, verbo che esprime reciprocità, attenzione all’equità. Sull’esperienza di Cornigliano v. R. Carati, Saper vedere quello che c’è: le libere donne di Cornigliano, in Ipazia, Autorità scientifica autorità femminile, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 107 ss. e R. Carati. Obiettivo ambiente, Ediesse Roma 1987.
[14] L. Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale, p. 81-82.
[15] L’eccesso di definizioni coincide con la volontà di non fidarsi della lingua che tutti parlano, deposito di storia e di esperienza, e, in una parola la volontà di non fidarsi senso comune (che è senso dell’esperienza) delle persone, sebbene soltanto mantenendo un contatto tra la lingua della legge e l’esperienza è possibile che ciascuno sia giudice dell’altro, un’esigenza che era molto cara a Simone Weil, la quale pensava che la «garanzia contro ogni decisione arbitraria» è il controllo esercitabile da ciascuno sull’attività di tutti gli altri per mezzo della ragione che abbiamo in comune in quanto esseri coscienti, senzienti, intelligenti. Nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934), Weil ragiona su come, artificializzata e tecnicizzata, la «vita sociale contemporanea» si risolva nel «rendere superflua la capacità degli uomini di pensare»; lo stesso fa un diritto inteso come strumento per determinare i comportamenti umani dall’esterno e dall’altro.
[16] «La ragazza sa già allora di non essere una questione e nemmeno una condizione. Per questa strada si accorge della stranissima cosa che le accade di conseguenza alla questione femminile. Lei è una donna, ma per occuparsi della questione femminile deve pensare le donne come “le altre” (c’è un bel libro di Rossana Rossanda che ha questo titolo). Si deve mettere altrove e guardare, fare, brigare. Ma quell’altrove non esiste veramente per lei. Non ci può andare. (…). Non solo: ‘Si produce silenzio tutte le volte che l’oggetto di cui ci si occupa viene separato dal soggetto che se ne occupa’, scriverà, nel 1990 il gruppo La nostra libertà è solo nelle nostre mani, nato dalla IV mozione. ‘Si produce silenzio perché si produce ideologia’. Sarà difficile, lungo, per certi aspetti molto doloroso, per altri divertentissimo venirne fuori: dal silenzio, dall’ideologia, dalla normatività… e da tante altre cose. Ma c’è già stata Carla Lonzi, nel 1975 viene tradotto in italiano ‘Speculum’ di Luce Irigaray, escono i primi Sottosopra, si comincia a discutere di differenza sessuale. Per il Sottosopra verde Più donne che uomini, bisognerà aspettare fino al 1983; Non credere di avere dei diritti uscirà nel 1987. Del 1987 è anche la ‘Carta delle donne’ del Pci. Ma intanto è già lì la strada di molte che cominciano a cambiarsi»: R. Carati, Il partito-comunità come educazione sentimentale, in Critica marxista, 1/2 2021 (cito dal dattiloscritto).