diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Ho Letto

Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti

(ed. Bruno Mondadori, 2004)

 

Chi scorresse l’indice di questo libro dopo essersi soffermato sul titolo, che facendo dell’innamoramento una qualità filosofica suona quasi una provocazione, proverebbe un supplemento di inquietudine nei confronti di alcuni termini che caratterizzano il contenuto dei capitoli: non solo perché appaiono marginali rispetto a una accreditata tradizione di pensiero, ma in quanto solitamente ritenuti estranei alla possibilità di una trattazione scientifica. La serie, incompleta ma significativa, di eredità (filosofica), trasformazione, empatia, invisibile, amore, disegna infatti il tracciato di un progressivo allontanamento dagli ambiti della riflessione occidentale, non fosse altro perché l’eredità filosofica (prima della serie) si costituisce come lascito di un sapere duale, dunque separativo, mentre l’amore (ultimo della serie) tiene insieme le contraddizioni. Certamente l’amore appartiene alla nostra esperienza e alla nostra riflessione, come testimonia la persistenza del ‘discorso d’amore’ nel lavoro di poeti, romanzieri e trattatisti. Ma, per l’appunto, questo discorso si rivela assai problematico. Sia quando tende a scomporre la presunta unità dell’Io, a drammatizzare un gioco delle parti che ce lo rappresenta, questo Io, come dolente e frammentato: da Guido Cavalcanti a Roland Barthes; sia quando, viceversa e specularmente, mira a un’improbabile fusione unificante, alla sintesi del due-in-uno e dunque al misconoscimento della differenza: come nella tradizione del pensiero cristiano, consegnata all’idea dell’amore agapico, e successivamente in quella del Romanticismo, catturata nelle voluttuose spire dell’amour-passion.

La provocazione, se tale si può considerare, di un testo dedicato a una “filosofa innamorata” sta dunque prima di tutto nella volontà di tenere insieme i (presunti) contrari, nel tentativo di abitare l’aporia – per quanto ne so, coerentemente alla pratica del pensiero della differenza sessuale cui fa riferimento Annarosa Buttarelli -, e secondariamente nell’insistere (ritornare?) sul concetto d’amore come motore stesso della vita e del sapere. Agli occhi di un lettore di sesso maschile, mi sembra sia esattamente questo concentrarsi su un concetto pur così evidente, nella sua varietà fenomenologica, a trasformarlo nella fonte di un’inquietudine analoga a quella del ‘perturbante’ freudiano-lacaniano, quel perturbante che permette alla struttura di funzionare solo restando celato, poiché laddove appare – in questo caso perché apertamente convocato – produce un’immediata alterazione delle coordinate soggettive, un vacillamento dell’essere. Ineffabile ma sostanzialmente aconcettuale, nell’ottica maschile l’esperienza d’amore resta infatti uno spazio vuoto, che malvolentieri si accetta di attraversare limitandosi semmai a evocarlo metaforicamente. Forse perché un’oscura consapevolezza suggerisce che esso, esattamente come il perturbante, se affrontato nella sua verità trasformatrice ci lascia annichiliti e come trasparenti a noi stessi, costringendoci a rimettere in questione il nostro rapporto primordiale con la conoscenza.

Troppo vicino al cuore segreto dell’identità, fino a sovrapporvisi e rappresentarla, nel discorso maschile l’amore occupa forse il posto del rimosso che non deve ritornare, pena il sorgere dell’angoscia. Non a caso gli uomini con più scioltezza mettono in campo l’amicizia, sulla quale hanno speso fiumi di inchiostro. Concetto peraltro assai interessante, quello dell’amicizia: intanto perché calato nei recinti di una Stimmung storicamente non priva di ambiguità ma dal profilo peculiarmente virile, quindi pacificante; ma anche in quanto capace di tenere separati l’Io e l’Altro, in nome della sostanziale dissimmetria dei rapporti umani e nel contesto di una affinità (Cristina Campo direbbe “ospitalità”) intellettuale prima ancora che emotiva, in cui distanza e presenza trovano un loro miracoloso ancorché precario equilibrio.

Pur con qualche distinguo, allora, questa amicizia sembrerebbe abbastanza prossima a quell’empatia (mediana nella serie) cui Annarosa Buttarelli rimanda esplicitamente nel suo testo, definendola come uno “stare in compresenza amorosa con l’altro”. Tanto più se questa compresenza consente a un rapporto non fusionale, mantiene insomma quella minima distanza in grado di mettere il simbolico maschile al riparo da perturbanti identificazioni.

Se non che non si parla di amicizia nel libro di Annarosa Buttarelli, ma in linea con gli insegnamenti di María Zambrano ancora e sempre di amore e della sua valenza trasformativa. Di un amore che viene di lontano e precede la filosofia, che implica la capacità di sostenere la presenza dell’altro ma anche la sua mancanza, ovvero che impone di sperimentare la mancanza radicale che costituisce l’indispensabile requisito per imparare ad ascoltare, dunque a trasformarsi.

Ancora una volta, siamo fuori dalla tradizione. Siamo in presenza di un’idea della critica (filosofica) che nulla ha a che fare con il commento, il rispetto dei codici, il dispiegamento dei dati, una critica che ricerca la propria salvezza, cioè la propria ‘salute’, nell’evidenza di un sentire che nulla deve alla vocazione tassidermica di certa filosofia e filologia.

Scriveva Galeno che il buon medico è sempre filosofo. E aveva ragione, ancorché il suo viatico abbia consentito lo sviluppo di due percorsi concettuali omogenei e paralleli: quello di una scienza medica che nasce dallo studio dei cadaveri, che trova il proprio oggetto nella raggelata fissità dei corpi morti e, nulla intendendo del divenire dei corpi viventi, tende a farsi prescrittiva; quello di una scienza filosofica che si struttura in episteme per negare la radice umana dell’esperienza, organizzando un sapere razionale e cumulativo di cui si fanno zelanti custodi le accademie di ogni tempo. Sicché entrambi, medico e filosofo, condividono la stessa catastale esigenza di ordine, lo stesso mortifero desiderio di sistematizzare il reale.

E tuttavia María Zambrano, suggerisce Annarosa Buttarelli, come accade agli sciamani di certi popoli da noi considerati primitivi crede che la mediazione del linguaggio operi positivamente solo quando si collega a una qualità quasi magica del sentire, e che la scrittura sia il giusto strumento che consente di pensare questo sentire. La scrittura dunque non consiste tanto nell’abilità di dar forma all’informe (per produrre magari il proprio capo-lavoro, irrigidita autonomia di una forma senza divenire), come sostiene un’opinione diffusa, quanto nella possibilità di de-lirare (nel senso etimologico di uscire dal solco) come pratica di una trasformazione che sta più dalla parte dell’informe che della forma: poiché cerca le aree di transizione, le zone di vicinanza e indistinzione e, soprattutto, le possibilità di relazione che ne derivano. Per esempio fra poesia e filosofia, fra visibile e invisibile, magari transitando per la porta del sogno, tema cui María Zambrano ha dedicato parte della sua riflessione ma che non trova ospitalità nelle pagine di Annarosa Buttarelli, poiché la studiosa italiana ritiene di non aver ancora trovato le giuste mediazioni per affrontare il “registro iniziatico e onirico” che caratterizza il pensiero della filosofa andalusa. Rinuncia, ormai lo sappiamo, da leggersi come sincero atto d’amore, quell’amore che sopporta la mancanza e mantiene la differenza affinché il dialogo continui (e prima ancora si instauri) senza tramutarsi in monologo.

Questa scelta ovviamente prolunga la nostra attesa, ma sostiene anche il nostro desiderio. Desiderio di quanti, lettori amici o innamorati, come terzi nella relazione si sentono chiamati a testimoniare del senso (e del valore) di questo libro senza necessariamente con-fondersi con esso.