diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 11 - 2012

Ho Letto

A proposito di La politica fuori dalla storia di Wendy Brown – “La politica fuori dalla storia della politica”

Politics out of the History of Politics

 

ABSTRACT

L’approccio di Wendy Brown in La politica fuori dalla storia è caratterizzato dallo sforzo di pensare il peso del passato nel presente. Questo sforzo può essere letto non solo attraverso l’esplicita eredità di Nietzsche, ma anche attraverso un confronto con Hannah Arendt e la sua concezione della lacuna tra il passato e il futuro. Come Arendt, Brown cerca di considerare il presente come il luogo dell’azione politica e della libertà, ma mentre la prima pensa la rottura con la tradizione come un punto di partenza inevitabile, la seconda ritiene che quella rottura non si sia pienamente compiuta, perché non viene riconosciuta. Perciò, essa produce attaccamenti feriti il cui effetto è quello di limitare le possibilità della critica di sinistra. Muovendo da questo parallelo Brown viene letta accanto alla filosofia della differenza sessuale italiana, per mostrare il loro comune interesse a pensare la libertà al di là di un’identità femminile basata su di una presunta comune oppressione.

PAROLE CHIAVE: Brown, Arendt, Libertà, Attaccamenti Feriti, Differenza Sessuale

Wendy Brown’s approach in Politics out of History is characterized by an attempt to analyze the presence of the past which can be read not only under the light of Nietzsche’s legacy, but also through a comparison with Hannah Arendt’s conception of the gap between the past and the future. Like Arendt, Brown aims to look at the present as the site of politics and freedom, even though the former conceives the break with tradition as the unavoidable starting point, while the latter assumes that that break is not fully accomplished because it was not recognized. Rather, it produces Wounded Attachments whose effect is that of limiting the possibility of left criticism. Moving from this parallel, Brown’s analysis is compared to the Italian philosophy of sexual difference, stressing their common interest in thinking freedom beyond a female identity built on a presumed common oppression.

KEYWORDS: Brown, Arendt, Freedom, Wounded Attachments, Sexual Difference.

 

Look back in anger, once more

Rileggere il libro in questa benvenuta traduzione mi ha portata indietro nel tempo doppiamente. Più lontano: a quando leggevo gli scritti di Wendy Brown a partire dai primi anni ‘90, nel mezzo di una vera età d’oro del pensiero femminista in filosofia politica, alla quale il suo Manhood and Politics diede un contributo miliare1. Più vicino: a quando lei venne in Italia nel 2008, ancora poco nota da noi, a un convegno a Roma insieme alla più famosa Judith Butler. Si trattava di un incontro fortemente voluto e organizzato da Ida Dominijanni nella convinzione da un lato che andasse sviluppata l’interlocuzione con Butler da parte del pensiero della differenza italiano, dall’altro che la riflessione di Brown avesse molto da dire alla discussione politica della sinistra del tempo, compresa quella femminista2. In quell’occasione avevo contribuito allo sforzo di Ida, che condividevo pienamente, e di lì partì anche un progetto per tradurre scritti di Brown che poi per circostanze varie non andò a buon fine. Mi sono posta quindi a rileggere questo libro in una strana postura temporale, una specie di strabismo: con un occhio rivolto al passato e uno al presente. Da una parte riguardando ad allora e a quel che mi faceva pensare che far conoscere il suo lavoro fosse importante per il dibattito italiano. Dall’altra con lo sguardo al presente, con il sentimento della distanza maturata, con l’attenzione a che cosa ne è stato, ma anche ne può essere ora, di quell’intento politico che sentivo urgente allora. Immagino che l’intenzione che ha mosso Paola Rudan a curare oggi questa traduzione sia anch’essa politicamente motivata3, che è una prima prova di quanto questa mossa possa essere vantaggiosa.

Quel che dirò avrà quindi un po’ di questo strabismo, ma perché non ne risulti un quadro troppo confuso cercherò di procedere con una specie di alterno guercismo, separando un po’ le cose.

Comincio dicendo, però, che a entrambi gli occhi appare chiaro che l’immettere la prospettiva di Wendy Brown nel panorama italiano produce un effetto di focalizzazione per cui esso appare come più limpido e distinto. Il quadro insomma appare meglio illuminato e come messo a fuoco. Strano effetto di congruenza e tempestività, si direbbe, data la distanza, il tempo passato e il mio dichiarato strabismo.

Diverse spiegazioni possono venire in mente, la prima delle quali va a merito della lungimiranza dello sguardo di Brown, capace di una penetrazione che va oltre l’essere a ridosso delle contingenze dell’attualità politica, a conferma che lei riesce a fare ciò che in questo libro (come altrove) raccomanda, ovvero che la riflessione teorica mantenga sempre una distanza e una tensione rispetto alle prese di posizione più immediatamente politiche, sottraendosi alla “trappola dell’evento”. Un’altra andrebbe a demerito della situazione italiana come del suo dibattito, cronicamente in periferico ritardo rispetto a ciò che accade e si pensa altrove, condannata a vivere e discutere ciò che è stato già vissuto e discusso al centro dell’impero. Entrambe valide spiegazioni, che non mi convincono però del tutto, preferisco quindi darmi ragione del bizzarro effetto ottico e di quella strana sincronia in un altro modo: se, nonostante il tempo passato, la visione dal punto di osservazione di Wendy Brown pare così congruente e le sue parole suonano così tempestive forse la questione è che il tempo non è davvero passato e lo sguardo che volgiamo al presente è anch’esso fissato al passato.

Sarebbe presumibilmente questa la spiegazione che Brown sottoscriverebbe, dal momento che è quella che implicitamente avvalorerebbe la questione che il suo testo solleva e la diagnosi che amaramente stila delle patologie che affliggono il nostro presente, ma soprattutto la parte che si vuole di sinistra dei suoi abitatori. Il presente è ammalato, gravato del peso di un passato che lo ingombra, lo riempie di sé chiudendo il varco al futuro, ma ancor più privandosi della dimensione aperta che gli è propria. Le tonalità nietzscheiane non sono casuali, difficile non sentire quasi l’eco dei sassi che tormentano la pancia del suo «secolo ammalato di storia» a far da basso continuo all’argomentazione di Brown, la quale denuncia alla fine del secolo successivo il permanere cronicizzato di quello stesso male. Altrettanto ben decisa, peraltro, a impugnare il coltello della critica in un’impresa che la pone in una postura altrettanto “inattuale”. In effetti ancor più che di “attualità” del suo lavoro si dovrebbe parlare della sua qualità di “inattualità”, un tratto che se ancora segna il suo percorso di una forte carica critica, risultava alla fine degli anni ’90 decisamente provocatorio: dire allora «la politica fuori dalla storia» era alle orecchie di molti dire qualcosa come «c’è vita su Marte!».

Ma se nel suo sforzo di pensare da un presente gravato di passato è vistoso quanto l’eredità di Nietzsche venga raccolta da Brown, sia nello spirito che nella lettera, a me piace piuttosto pensarla nella posizione che fu di Hannah Arendt: nella «lacuna tra passato e futuro». Come lei è consapevole di un presente di “disorientamento”, orfano dei punti di riferimento tradizionali, dove si sono spenti quei fari che erano altrettanti concetti del nostro pensare noi stessi e il nostro vivere comune: sovranità, storia, progresso, diritti, ecc. Come lei, è determinata a fare del presente il luogo del pensiero e dell’agire politico, lo spazio d’azione della libertà, restituendolo alla sua contingenza (parola che le è cara come lo è la centralità della libertà nel pensare la politica). Ma se per Arendt il riconoscimento dell’ormai avvenuta rottura con la tradizione è il punto di partenza ineludibile, per Wendy Brown quella rottura si è data, ma non compiutamente, perché di essa non si è davvero preso atto. Ciò che è morto è morto sì, tuttavia di quelle morti non si è elaborato il lutto. A ciò che abbiamo perso restiamo visceralmente attaccati così che il nostro presente è tormentato da presenze non-morte, come una casa infestata da fantasmi che non hanno pace né ci lasciano in pace.

Il concetto di «wounded attachments» è forse l’idea di Brown più nota e feconda, più volte ripresa (ad esempio massicciamente da Butler e Zizek) da quando la avanzò in States of Injury4, ed è portante anche in questa sua raccolta di saggi del quinquennio successivo. L’acuta percezione di quanto il tempo presente sia abitato da presenze spettrali così che farne pensiero porti l’ontologia del presente prossima a una hantologie, pone l’indagine di Brown anche sulle orme di Derrida, ma il punto di vantaggio che Brown acquisisce rispetto ai nobili suoi predecessori su questa pista è quello di far reagire l’analisi filosofica e politica con l’apporto psicoanalitico, interrogando il meccanismo stesso dell’attaccamento alla perdita e alla ferita e inseguendone i perversi effetti sul terreno della nostra grammatica filosofico-politica. Il suo scandaglio affonda così negli strati profondi delle costruzioni del nostro immaginario politico, rilevandone le traumatiche rotture sismiche, ma anche quelle tenaci permanenze che insieme contribuiscono ai devastanti effetti visibili alla superficie della nostra geografia politica.

La formazione nella tradizione della teoria critica, ma anche il suo porsi nella linea dell’analisi genealogica e decostruzionista, hanno fatto di Brown una delle più attente e radicali smantellatrici dell’urbanistica che ha guidato l’edificazione concettuale della polis nella nostra tradizione, massimamente efficace quando ha assunto il taglio femminista nella lettura del pensiero politico. I suoi contributi in questa opera critica sono stati basilari e il suo impegno sul fronte del tallonamento puntuale di quanto si propina sul mainstream del pensiero politico non è mai venuto meno, al contrario, come testimonia il suo lavoro più recente specie sul neoliberalismo e le derive della democrazia.

Tra il mio occhio al passato e quello al presente si delinea perfettamente visibile una linea di continuità di questa benemerita attività di Brown, che ha saputo portare non poche frecce all’arco della sinistra nel contrastare l’impianto del disegno dominante della politica. E su questa linea si può misurare che effettivamente il tempo è passato proficuamente, quantomeno nel rendere alcuni dei temi anticipatori e inizialmente contrastati della sua critica accettati nel dibattito critico, e persino nel far passare quasi nel senso comune l’idea che certi punti fermi del nostro dizionario concettuale della politica non siano poi così fermi, nemmeno quelli della sinistra stessa. Bisogna infatti riconoscere a Brown di non essersi mai fatta granché riguardi a sferrare colpi vicino a sé, non indulgendo a compassione per i difetti che riconosceva nella sinistra, penso soprattutto a quanto fossero ben piazzate quanto mal recepite le sue sferzate sull’abuso del linguaggio dei diritti, sugli scivoloni identitari e sul prevalente legalismo. Ma penso ancor di più alla posizione polemica con le forme di istituzionalizzazione del femminismo, assunta dalla coscienza di come la rivoluzione femminista non sia affatto equiparabile a una politica di “inclusione” e tantomeno essa debba puntare al risarcimento della ferita dell’ingiuria subita, come gran parte delle politiche e delle teorie sviluppate negli women’s studies continua a ritenere, ora in modo sempre più suicida. Non so immaginare se alimentata più dal rivendicazionismo lamentoso di questa parte del femminismo, o più dall’acredine risentita dell’umore di sinistra o ancora più dagli avvertimenti seminati nelle buone letture che fanno da solida intelaiatura alla sua scrittura, fatto sta che la fiaccola della critica imbracciata da Brown ha finito per illuminare le zone buie, ancor più che della tradizione dominante, proprio della cultura che di quella tradizione si è voluta critica e politicamente alternativa.

È infatti stranamente da quella parte che, al posto di canti festosi per la morte di odiati storici nemici, si sentono levarsi i più alti lai, ancor più lancinanti di quanto lo siano quelli dalla parte degli amici dei defunti. La spiegazione di tale controintuitivo fenomeno è al cuore del lavoro di Brown che aiuta a discernere meglio, nella bruma spettrale generata da quelle morti, da quali reazioni al trauma siano evocati i fantasmi e di quali lutti o mancati lutti stia soffrendo il nostro tempo. A venirle in aiuto è certo la chiave psicoanalitica freudiana, ma ancor più lo sono intuizioni sulla genealogia della morale di Nietzsche: è a partire da qui che Brown riesce a coniugare attorno all’idea di «wounded attachment» l’esplicazione di quella stranezza con la diagnosi del blocco di azione politica trasformatrice di una sinistra la cui congenita e ambigua identità reattiva si manifesta nel momento della perdita dell’oggetto odiato-amato della sua affezione. Quella perdita provoca tanto disorientamento quanto l’oggetto perduto era orientante, quanto essa era costitutiva di un’identità che si era soggettivata precisamente sulla ferita di un assoggettamento, al punto che essa diviene una perdita che fa vacillare l’identità stessa. Quando un soggetto si è definito tale in rapporto alla ferita subita, questa si fissa come cardine su cui ruota ogni suo movimento anche quando muove per prenderne le distanze e a maggior ragione quando la nega e la contesta. Un soggetto che si politicizza in quanto umiliato e offeso lega la propria azione alla rivendicazione risentita di un risarcimento per l’ingiuria patita, si autorappresenta come ingiuriato tendendo a perpetuare lamentosamente il trauma come propria ragion d’essere e ancor peggio qualora l’offesa venga meno vi rimane visceralmente attaccato e, incapace di separarsene, cerca di rivitalizzarla immaginariamente.

È una prospettiva che ben illumina la strana scena di cui sopra: al funerale delle potenti figure della tradizione a rammaricarsi di più non son tanto congiunti, amici e parenti, quanto i creditori. Gli eredi del gran vecchio, forse conoscendolo da presso senza idealizzazioni, mettono in scena le belle parole del commiato, litigano per i quattrini e stanno già pensando al futuro preoccupati giusto del buon nome dell’impresa di famiglia se ancora fa vendere, se sarà un buon logo, ma quel che conta è andare avanti, si sa. I creditori, quelli che proprio da lui si aspettavano il pagamento di un debito, loro sì che non sanno ora che fare.

Ma la scena, per quanto cupa e amara, non rende ancora abbastanza l’incastro tragico del meccanismo dell’attaccamento alla ferita, autentica trappola paradossale sia esistenziale sia politica. Su quanto essa sia politicamente nefasta ha avvertito quel pensiero femminista (ritengo vicino allo spirito di Wendy Brown) che ha contestato la postura emancipazionista e rivendicazionista nella politica delle donne, ben vedendo i rischi dell’identificazione in chiave di oppressione femminile. Un rischio insidioso anche dal punto di vista della vita singolare femminile, per dirlo con parole che molto risuonarono nel femminismo italiano della differenza: tolta l’oppressione una donna non diventa libera, ma superflua. La libertà viene prima della liberazione dall’oppressione. Certo, ma detto ciò si tratta di pensare la libertà e una politica della libertà. È stato questo rivolgimento a improntare il pensiero e la pratica politica della differenza in Italia nell’ultimo quarto di secolo, nominando la libertà femminile come suo cuore: non mi stupisce che Brown abbia dichiarato di non aver mai fatto altro nel suo percorso, in fondo, che pensare alla libertà. O che le ultime parole di questo libro indichino il punto d’approdo del suo percorso: «Si tratta, forse, di una consapevolezza politica che offre nuove, modeste possibilità alla pratica della libertà»5. Non è infatti affatto automatico, una volta riconosciuto il dispositivo perverso dell’attaccamento alla ferita che vincola il soggetto al trauma della sua soggezione e all’identificazione come oppresso o ingiuriato, e anche una volta riconosciuto come un’azione politicamente o individualmente volta a liberarsi di quell’oppressione rischi di essere confinata alla reattività, trovare il punto di leva della fonte attiva di una soggettività libera. Problema annoso e tenace, praticamente il problema per eccellenza in cui ci si imbatte venuta meno la plausibilità di affidarsi al sorgivo soggetto sovrano che nella tradizione fa da contraltare alla soggezione. È improponibile ripercorrere qui le vicende degli sforzi, peraltro all’ordine del giorno del dibattito corrente, per disincastrare la questione. Wendy Brown affronta quello che forse è stato il punto d’appiglio più invocato, ovvero il desiderio, in un saggio memorabile presente in questa raccolta: Il desiderio di essere puniti: “Un bambino viene picchiato” di Sigmund Freud6.

Qui, sfidando l’apparente maggiore attualità di un desiderio di punire che dilagando rivela (anche in questo caso) la perdita del senso civico democratico, è messo a tema il desiderio di venir puniti che vi si accompagna come una imperscrutabile ombra. Imperscrutabile sia per la concezione dell’individuo narcisista volto al proprio soddisfacimento di marca liberale, sia per quella visione di un soggetto desiderante come agente di trasformazione emancipatoria tanto tipica del femminismo degli anni ’70 come pure di un certo filone della sinistra, specie di ispirazione deleuziana. Entrambe queste prospettive sarebbero turbate da quel che Freud chiamò significativamente «il problema economico del masochismo» ed effettivamente ripercorrere puntigliosamente quest’altro testo freudiano consente a Brown di far emergere l’ambiguità del desiderio nel suo strutturarsi in soggetti che hanno subito il trauma di una violenza o di un’offesa, prendendo una piega masochistica in relazione all’attaccamento deluso all’oggetto amato. Brown avanza un parallelismo tra la narrazione della costituzione dell’identità e del desiderio nella vicenda della fantasia del bambino che viene picchiato, da un lato, e la costituzione dell’identità politica in soggetti che hanno subito una ingiuria sociale, dall’altro. Privilegiando, rispetto all’interpretazione in chiave di risentimento che fu di Nietzsche, il suggerimento freudiano di scorgere l’amore dietro l’odio, Brown rileva come l’atteggiamento litigioso, rivendicativo e moralistico di tali soggetti nei confronti di ciò da cui hanno subito ingiuria nasconda un attaccamento amoroso e dipendente dall’oggetto denigrato.

Difficile fidare, quindi, del potenziale liberatorio del desiderio quando quest’ultimo si alimenta alla stessa fonte che denuncia avvelenata. Tuttavia il saggio si conclude con alcune frasi speranzose sebbene piuttosto sibilline: finalmente Brown inserisce nella narrazione freudiana la circostanza che la fantasia del bambino picchiato è quella di una bambina, cosa che Freud teneva in secondo piano salvo poi spiegare che i bambini picchiati fantasticati sono stati «cambiati di sesso». Ciò fa sorgere a Brown una serie di domande incalzanti: e se in questo si celasse qualcosa non riconducibile al masochismo? Se quella scena non fosse di punizione/amore da parte del padre ma «un’irata replica della psiche femminile umiliata di fronte alla posizione privilegiata dell’uomo?». Ciò non

«potrebbe produrre qualche apertura nell’economia relativamente chiusa del senso di colpa e della punizione che Freud schematizza? Non potrebbe persino offrire, attraverso la “politicizzazione”, una sospensione della delusione che provoca la fase masochistica, nella quale il tanto desiderato oggetto d’amore è sostituito dalla punizione?».

Brown si obietta da sola che una risposta alternativa sarebbe quella vendicativa di Nietzsche, nel qual caso da quell’economia di desiderio di punire e desiderio di essere puniti non si uscirebbe «mentre la libertà non si trova in nessuno di questi luoghi»7.

Mi sono soffermata su questo passaggio perché credo sia forse il punto del libro dove la ricerca di Brown dà al nodo che la impegna la sua forma più stringente e insieme giunge ad un possibile snodo, che però qui non dipana pur afferrando il filo della differenza sessuale che le ha consentito di alludere al luogo di quella libertà la quale, come dice, non si trova in nessuno dei luoghi che ha pazientemente transitato.

Il nodo è quello che il passato da cui veniamo, come ciò che ci assoggetta, stringe attorno al presente come attorno alla nostra libertà. Per scioglierlo Brown fa via via ricorso a tutti gli ottimi strumenti che una lunga tradizione ben assimilata le mette a disposizione: il coltello della critica per tagliarlo, innanzitutto, ma l’arma della critica (oltre che abbisognare della critica delle armi come un suo maestro aggiungerebbe) arriva solo fino ad un certo punto. Brown è troppo buona lettrice di Nietzsche per non sapere che la forza del leone è quella di dire «un sacro No» al peso prima portato dall’ubbidiente cammello, di distruggere i vecchi valori alla negazione dei quali resta però legato non sapendo dire un «Sì». La critica ha la forza e la rabbia del leone, e non rischia minor attaccamento alla ferita di quella che Brown ha insegnato a riconoscere, o minore esposizione al lutto e alla “malinconia di sinistra” una volta morti i suoi oggetti amati/odiati. Quanto alla risposta freudiana alla domanda su come si possa uscire dal lutto e dalla malinconia, niente di più laconico e sconfortante: al termine del saggio omonimo Freud se lo chiede e più o meno la risposta è «Non si sa», sarà quando l’oggetto introiettato ha finito di scaricare sadicamente la sua energia, allora l’ombra che l’oggetto ha stagliato sull’io si dissolve non si sa bene come.

Valido aiuto le viene da Derrida e soprattutto da Benjamin, a loro è dedicato l’ultimo saggio, ai loro spettri e ai loro angeli8. La Hantologie di Derrida è ovviamente il riferimento principale per lo sforzo di far spazio nella proliferazione spettrale di un presente dominato da un economia del debito e del risarcimento. Da questa Brown mutua l’idea che sia necessaria una pratica di «commercio con i fantasmi»: imparare a conviverci e a sfruttarne la virtù, accogliendo un presente sempre abitato da un “altrove” che ci impedisce di averne piena disponibilità. La lezione di Benjamin è fatta propria da Brown in grandissima misura, come da lui le viene la diagnosi della «malinconia di sinistra», così dal suo «strano e incompleto materialismo dialettico» le deriva il secondo «punto di avvistamento» per una pratica del presente che sappia mobilitare il passato redimendolo e non sottomettendosi alla storia così come ce la consegna. Sono questi i due viatici per restituire al presente la sua qualità di spazio aperto all’agire della libertà con i quali Brown conclude questo libro, per affrontare quella che, con espressione sintomaticamente arendtiana, chiama la crisi di «amore del mondo». Arendtiana è anche la parola che ripetutamente torna in queste pagine come in altre di Brown: «contingenza». Il presente, la realtà stessa direi, va restituito alla sua contingenza, è l’unica posizione compatibile con la libertà, e questa sta a cuore a Wendy Brown non meno che a Hannah Arendt. Ma Arendt era disposta ad affidare tutto alla libertà, alla facoltà della natalità come capacità umana di portare qualcosa di assolutamente nuovo al mondo, e ci fidava al punto di accogliere una visione della politica talmente esposta alla fragilità che i più non hanno saputo riconoscerla come politica. Nemmeno Wendy Brown, immagino, dal momento che a volte pare pensare che una politica fuori dall’economia del risentimento sia qualcosa che assomiglia all’assunzione di un pragmatismo volto alla lotta per il potere. Arendt, inoltre, fidava talmente nella facoltà umana sorgiva della libertà da potersi permettere di ignorare totalmente ciò di cui è viceversa ben consapevole Brown: cioè il peso che il passato, come di ciò che dolorosamente abbiamo alle spalle, ci fa gravare addosso non come un mero fardello su quelle spalle, ma come qualcosa che ci costituisce interiormente e in profondità facendo di noi non solo i protagonisti di una vita activa, ma anche di un’ineludibile vita passiva. Per questo motivo l’evocazione di Arendt è nella stessa pagina di Brown seguita dalla domanda: «a quale sorgente possiamo attingere per affermare il nostro tempo, sfidare i nostri dilemmi, definire i nostri imperativi?»9.
Francamente non ritengo che la risposta in questo libro sia quella che le

parole che lo concludono indicano. Sono altri due i punti mi sembrano più promettenti. Il primo è quello su cui mi sono soffermata sopra: laddove Brown nel discutere il saggio di Freud intuisce come la letale logica dell’economia tra desiderio di punire e desiderio di essere puniti possa venir scardinata una volta che in quella narrazione si immetta la differenza sessuale. Qui Brown nel misurarsi con lo scoglio che il masochismo erge all’economia del desiderio (e alla visione del soggetto che comporta) vede come l’introduzione della variabile sessuale scombini l’inesorabilità dell’economia del desiderio di punire o di essere puniti. Dal far rientrare la bambina sulla scena prende a raccontarsi tutta un’altra storia. Brown non percorre la via che di qui si apre: da un masochismo “inspiegabile” per un soggetto maschile (e peraltro “normativo” per un soggetto femminile) verso una ricerca che indaghi la matrice di una costituzione soggettiva radicata nella passività non della soggezione al “discorso” del passato e delle sue ingiurie (sono certa che Brown accetterebbe di dar loro la qualifica di maschili), ma in quella della prima relazione con la madre. È la via che il pensiero della differenza ha battuto in Italia, ma sulla quale altre si sono spinte anche nel dibattito più vicino a Brown. Tra queste, ad esempio, anche Judith Butler che, partendo credo da problemi analoghi, nel suo La vita psichica del potere10 sposta significativamente il fuoco dell’analisi dai dispositivi simbolici e sociali di soggettivazione, alla matrice materna della costituzione dell’identità, non riducibili a quelli. Non dico di condividere l’esito di questo lavoro di Butler, che peraltro elabora anch’esso il tema di una congenita malinconia di quei soggetti che non si ritrovano nel disegno dominante del desiderio, ma trovo che quello spostamento rappresenti un salutare scarto da un impianto, lo stesso che riempie il presente di passato, che preclude ogni possibilità di movimento, occludendo ogni spazio.

Il secondo punto che sento più fecondo nel discorso di Brown ha a che fare con questo e sta tutto in una parola alla quale spesso ricorre: «porosità». Nello sforzo di far spazio alla libertà di contro a un passato che grava pesantemente sul presente, lei insiste a più riprese sulla porosità del tempo presente: il presente non è tutto chiuso, occluso, pieno, ma poroso. Ci sono spazi, interstizi nel presente, lacune che consentono che l’aria circoli, che permettono di muoversi, che danno spazio all’azione e alla politica oltre quel che è stato, che è dato, che è scritto. È questo l’aspetto del pensiero di Brown che preferisco, con tutta la riconoscenza possibile per il suo sguardo così lucido nell’analisi del portato del passato e così tagliente nel giudicare i mali del presente. Preziosa la prospettiva che ci offre, tanto più oggi che la situazione pare ancor più luttuosa e che alle morti che registrava (peraltro prima dell’11 settembre che portò il tema del lutto in primo piano) si aggiungono quelle del patriarcato e, ritengo, del capitalismo. Nuovo lavoro del lutto si prospetta e il disorientamento è ancora più spaesante. È un buon consiglio quello di pensare che il presente è uno spazio poroso e aperto alla libertà e a una politica differente da quella che ci ha portato fin qui, che c’è politica fuori dalla storia, che la storia del passato non determina fatalmente né il presente né il futuro.

Ma forse conviene aggiungere che forse nemmeno il passato stesso è così monolitico, chiuso e univoco, determinato dalla storia che ce lo consegna. C’era altro, anche nel passato, fuori dalla storia. Quella sorgente cui attingere per affermare il nostro tempo che Brown ricerca la si vede zampillare ora nel presente della libertà avvertendo quanto gorgogliasse scorrendo da lontano. Promemoria per ricordare quanta politica c’è stata e ci può essere fuori dalla storia della politica.

 

1 W. BROWN, Manhood and politics: a feminist reading in political theory, Totowa 1988.

2 [Si tratta della giornata di studi su Sovranità, diritti, vulnerabilità, organizzata il 27 marzo 2008 presso l’Aula Magna della Facoltà di Lettere e filosofia di dell’Università di Roma Tre, alla quale parteciparono Wendy Brown e Judith Butler, N.d.R.].

3 W. BROWN, La politica fuori dalla storia, introduzione e cura di P. RUDAN, traduzione di A. MINERVINI, Roma-Bari 2012.

4 W. BROWN, States of Injuries. Power and Freedom in Late Modernity, Princeton 1995.

5 W. BROWN, La politica fuori dalla storia, p. 182.

6 Ibid., pp. 47-64.

7 Ibid., p. 64.

8 Ibid. pp. 145-182.

9 Ibid., p. 150.

10 J. BUTLER, La vita psichica del potere: teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Roma 2005.