1986 e dintorni. La doppia assenza di femminismo e scienza in Italia, un’eredità che dura ancora oggi
Premessa
La doppia assenza è uno dei tratti peculiari ed originari che ha configurato la relazione tra scienza e femminismo in Italia. Con questa espressione si intende: lontane sono state le scienziate dal femminismo, ma lontano, distante, è stato anche il femminismo dalla scienza.
Non si tratta di una mia osservazione, ma di una questione introdotta, discussa e approfondita a più riprese durante i primi anni di vita del Coordinamento Nazionale “Donne di Scienza”. Per circa un decennio, tra il 1986 e il 1998, il “Coordinamento” è stato uno degli ambiti di riferimento più significativi nel dibattito femminista sulla scienza e la tecnologia in Italia, contesto di incontro, scambio e raccordo di circa un centinaio di donne provenienti da diverse città d’Italia, tra cui alcuni gruppi locali “Donne e scienza” – quello di Torino, quello di Bologna, il cosiddetto “piccolo gruppo romano” e, per un periodo iniziale, la Comunità scientifica femminile Ipazia di Milano.
In una ricerca in cui, per studiarne la storia, ho dovuto prima di tutto fare ordine tra moltissimi materiali inediti resi disponibili da una parte delle sue protagoniste – testi, appunti, verbali di riunioni, relazioni manoscritte e dattiloscritte – cercando, in un secondo momento, di ricostruire e restituire queste vicende attraverso il coinvolgimento di alcune di loro – con incontri, scambi, riunioni periodiche e interviste – 1 mi sono soffermata a lungo sulla doppia assenza, la cui rilevanza teorico-politica emerge attorno all’anno 1986, andando oltre i confini della storia del “Coordinamento” e diventando, in senso più ampio, un aspetto distintivo del modo in cui lo stesso dibattito femminile italiano è andato strutturandosi, almeno fino ai primi anni novanta, attorno ai termini femminismo e scienza.
Anche se dovrò necessariamente trascurare molte vicende ed elaborazioni a favore di alcune, vorrei qui cercare di ripercorrere il filo storico-teorico di tale questione, mostrandone dunque l’originarietà e l’essenzialità, non tanto per ragioni di tipo storico-archivistico, ma perché ritengo che questa operazione, che guarda al passato, alle orgini della relazione tra donne, femminismo e scienza, possa aiutare a far luce su elementi che riguardano questa stessa relazione nello scenario italiano del presente. Ci sono questioni che, private come sono oggi della loro origine storico-concettuale, rimangono oscure, o solo non propriamente dette – tra queste, la divaricazione e il nesso tra gli universi discorsivi del genere e della differenza sessuale in relazione alle tematiche scientifiche/tecnologiche in Italia, un aspetto che mi pare arrivi ad informare in modo sostanziale i termini del dibattito su scienza e tecnoscienza nel presente, così fortemente ancorati al gender e distanti dall’ordine discorsivo della differenza sessuale.
Su un altro versante, quello delle azioni istituzionali, le politiche di genere e scienza sono diventate una priorità da diversi anni ormai, almeno a partire dagli interventi strutturali dell’Unione Europea, sempre più diffusi fin dai primi anni novanta anche in Italia. In questi contesti si tende a privilegiare un’ottica, non esattamente di gender, ma di pari opportunità e di uguaglianza delle donne con gli uomini nella scienza, dalla quale si interroga lo stato della presenza femminile nel mondo della scienza, si denunciano e fronteggiano i diversi fenomeni discriminatori che le donne in esso incontrano, in particolare e più recentemente nelle cosiddette “discipline STEM”, soprattutto in quelle ad alto contenuto tecnologico, e anche nei termini di uno “spreco di talenti”, da una prospettiva di sviluppo scientifico-economico.
Non intendo ora, ne’ nelle prossime pagine, cercare di pensare e districare aspetti di cultura e pratica politica tra gender, genere, pari opportunità e uguaglianza, cosa che necessiterebbe di un ampio spazio di approfondimento, ma penso sia possibile almeno suggerire che il superamento del cosiddetto gender gap in STEM – che è tra gli ultimi obiettivi delle politiche di ricerca e azione dell’Unione Europea in materia di gender & science – si situa oggi in un orizzonte teorico che lega, piuttosto che separare, i termini concettuali gender – pari opportunità – uguaglianza.
In ogni caso – ed è questo che qui mi preme sottolineare – è che esito principale della doppia assenza è il fatto che di un vasto e articolato patrimonio di sapere femminista su scienza e tecnologia, in una certa parte e per un certo periodo confluito nel Coordinamento Nazionale “Donne di Scienza”, oggi rimane poca traccia e memoria, non solo nei contesti femministi e, viceversa, nei contesti scientifici, ma anche ad un livello accademico, istituzionale e sociale diffuso. In altre parole, la simultanea assenza di femminismo e scienza ha radici nel passato – esattamente tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta – ma si rinnova nel presente, per quanto, nel suo insieme, la storia di questa rete nazionale di donne, ha costituito un complesso e ramificato tentativo di colmare questa reciproca distanza, attraverso approcci alla scienza e alla tecnologia che non sono riconducibili alle teorie del gender di matrice anglosassone, ma nemmeno alle pratiche di uguaglianza e pari opportunità di donne e uomini nella scienza, quanto alla differenza di cui le donne sono o possono essere portatrici.
Snodo di dibattito e confronto tra le diverse partecipanti al Coordinamento, la questione della differenza femminile e femminista in relazione alla scienza è stata in realtà carica di una molteplicità di significati teorici, culturali e politici, talvolta conflittuali, più ampiamente riconducibili allo scenario storico-teorico del femminismo italiano tra gli anni settanta e gli anni ottanta, per quanto con connotati specifici in relazione alla scienza e alla tecnologia. In sede di Coordinamento essa ha dato luogo a diversi orientamenti: è stata all’origine del desiderio, per alcune, di dare voce a “una scienza al femminile”2, per altre, alla volontà di rendere la differenza operatrice di alternative teoriche e pratiche nella scienza contemporanea3, per altre ancora, alla costruzione di reti relazionali femminili e vere e proprie comunità scientifiche, volte a riconoscere ed affermare autorità femminile nella scienza4
Alle origini, 1978-1986
La prima enunciazione della doppia assenza risale agli inizi degli anni ottanta, quando il Collettivo donna e scienza dell’Università di Torino, il primo gruppo “donna e scienza” a formarsi in Italia già nel 1978 sulla scia dei gruppi di autocoscienza femminista, intendeva questo concetto prevalentemente come distanza delle donne dalla scienza. Nel 1982, nella postfazione alla lettera indirizzata alla rivista Noi Donne dove il collettivo desiderava pubblicare i risultati dell’indagine sulla relazione tra le donne e la scienza condotta all’università di Torino nel 1979, la chimica e femminista Bice Fubini, iniziatrice del Collettivo, scriveva: “quanto il metodo scientifico e le elementari nozioni di scienza vengono usati dalle donne? (…) Accanto al fiorire di pratiche per certi aspetti a-scientifiche e magari un po’ di moda come l’astrologia, la macrobiotica, l’agricoltura alternativa, l’erboristeria, si registrano nella società grandi richieste di nozioni scientifiche…. Da che parte stanno le donne? Stanno ancora a farsi incantare dal bianco più bianco?” (Collettivo Donna e scienza, 1982, senza pagina)
Questa percezione di lontananza delle donne dalla scienza, in particolare dai suoi aspetti distintivi, oggettività e metodo scientifico, di lì a poco veniva ripresa nel contesto dell’Associazione di donne “Orlando” di Bologna – del cui primo nucleo informale, dal 1979, facevano parte le biologhe Rita Alicchio e Cristina Pezzoli che dall’anno 1986 fino al 1992 hanno coordinato le attività del Coordinamento (organizzandone le riunioni e redigendone i verbali, curandone le relazioni interne, gestendo e facendo circolare i numerosi scambi epistolari tra le partecipanti), e a partire dalla cui relazione (oltre a loro, la medica Franca Serafini) si è formato il gruppo donne e scienza di Bologna (dal 1986). L’indagine bolognese Donne scienziate nei laboratori degli uomini, prima indagine realizzata su scala nazionale sulla relazione tra le donne, il femminismo e la scienza, condotta tra il 1983 e il 1985 da Alicchio e Pezzoli attraverso una rielaborazione del questionario impiegato nell’indagine torinese, confermava soprattutto l’altra faccia della medaglia: l’assenza di donne scienziate nel movimento femminista, riferendo che solo 2 su 194 partecipavano a gruppi femministi (Alicchio e Pezzoli, 1987; 1988).
È però solo nell’anno 1986, nel corso del seminario conclusivo di quella ricerca, i cui interventi sono stati poi raccolti, rielaborati e pubblicati nel 1988 nel libro Donne di scienza: esperienze e riflessioni, che le ragioni della doppia assenza sono state messe a fuoco in quanto ostacolo sostanziale nella relazione tra femminismo e scienza. In quel seminario, momento inauguarle del Coordinamento perché è stato in quella sede che ne è stato proposto l’avvio, su un versante della lontananza, si è insistito con forza sull’allarmante disinteresse da parte delle donne, le femministe in particolare, nei confronti della cultura tecnico-scientifica. Una complessiva lontananza che dal punto di vista di alcune relatrici tendeva a configurarsi come “paurosa oscillazione tra negazione e mitizzazione della scienza” (Frontali, 1988, p. 59). Alle femministe veniva soprattutto imputata la tendenza ad utilizzare la scienza a scopi ideologici, come testimoniava la loro propensione ad identificare scienza e tecnologia, il cui impatto negativo sulla vita delle donne veniva ricorrentemente esemplificato attraverso le tecniche artificiali di intervento sul corpo femminile (Frontali, 1986; 1986b; 1988; Alicchio e Pezzoli, 1988b; Fubini, 1988).
L’altro versante della frattura, la distanza delle donne impegnate nella ricerca scientifica dal femminismo, si spiegava soprattutto alla luce del fatto che la stessa scelta di un percorso scientifico veniva considerata una strada per l’emancipazione, soprattutto in virtù dell’idea di libertà connessa all’ideale epistemico universale di oggettività, intesa come neutralità o assenza di valori esterni alla scienza. Una scelta che tendeva ad esaurire ogni altra spinta verso un percorso di liberazione e trasformazione in chiave femminista (Donini, 1987, 1987b, 1988).
L’appartenenza a una comunità scientifica, veniva sottolineato, era prioritaria rispetto al desiderio di fare parte di una comunità femminile, un aspetto questo che si poteva comprendere solo cogliendo gli aspetti distintivi e strutturanti il funzionamento di una comunità scientifica, le cui regole interne richiedevano adesione totale, non facilmente aggirabile senza perdere identificazione con quella comunità. Come allora argomentava la filosofa della scienza Elena Gagliasso – tra le fondatrici nel 1988 del “piccolo gruppo romano donne e scienza”, e partecipante dagli inizi al Coordiamento – nella comunità scientifica ciò che conta sono le sue regole interne – metodo, processo di verificazione e falsificazione nelle indagini, consenso della comunità scientifica di appartenenza. In questo contesto, ogni presa di distanza critica, anche femminista, dalle regole interne alla scienza, veniva avvertita come un allontanamento complessivo dalla scienza, oltre che come una restrizione alla stessa libertà della ricerca scientifica (Gagliasso, 1986b, 1987, 1988). Come alcune suggerivano, mentre le donne in ambiti di lavoro umanistico potevano identificarsi con i contenuti di studio, o metterli in crisi a partire da una prospettiva femminista, le donne nella scienza dovevano necessariamente “separare il loro lavoro dalla loro identità sessuata”, così mantenendo una certa distanza dal femminismo (Frontali, 1988, pp. 59-60).
Negli anni successivi, non solo nel Coordinamento e nei gruppi locali ad esso afferenti ma in diversi luoghi di pratica politica delle donne sulla e nella scienza, la tensione tra la duplice appartenenza alla comunità di donne e alla comunità scientifica veniva frequentemente identificata come nodo centrale della relazione tra le donne – la differenza femminile messa all’opera nel femminismo – e la scienza, senza però trovare un punto di condivisione, tanto meno di soluzione. Se per alcune, tra esse la fisica e storica della scienza Elisabetta Donini, questo conflitto poteva essere risolto in maniera definitiva solo con l’abbandono dell’ideale scientifico tradizionale dell’oggettività come imparzialità, che proprio nella ricerca scientifica è promessa di libertà, e di lì iniziare una ricerca di alternative teoriche e pratiche nella scienza, secondo altri ideali di oggettività, altre, come per esempio il gruppo “donne e scienza” di Torino – e vorrei ricordare Amalia Bosia in particolare – ritenevano che si dovessero trovare modi di coniugare oggettività – di cui garante il metodo scientifico universale – e l’essere una donna scienziata, in ragione del fatto, come spesso veniva sottolineato, che l’attaccamento e il piacere per il proprio lavoro, e soprattutto l’aderenza al metodo scientifico, era prova evidente del forte legame delle ricercatrici con la propria professionalità (Gruppo Donne e Scienza di Torino, 1988; Frontali, 1986; 1986b; 1988).
Sviluppare un linguaggio e strumenti concettuali coerenti con la professionalità scientifica, come per esempio condurre indagini in prospettiva femminista ma secondo un metodo scientifico-sperimentale, oppure ricorre alla divulgazione scientifica ad opera di donne e a favore delle donne, erano tra le possibilità più spesso suggerite non solo per avvicinare le scienziate al femminismo, ma anche per avviare uno scambio tra addette e non addette.
Anche nel contesto di Ipazia (Comunità scientifica femminile fondata presso la Libreria delle Donne di Milano nel 1987), la cui strada percorsa si è presto allontanata da quella del Coordinamento con la fuoriuscita già nel 1988 della filosofa Diana Sartori, la matematica Angela Alioli, la fisica Enrichetta Susi, la scrittrice Cristiana Fischer– e non entrerò qui nel merito dei motivi, ne’ nelle pagine che seguono, non avendone lo spazio necessario – la tensione tra queste due appartenenze veniva analogamente sollevata, ma nei termini del rapporto tra autorità femminile e autorità scientifica la cui posta in gioco, più che nell’alternativa di emancipazione/liberazione scientifica o femminista, era individuata nella possibilità o meno, per una donna scienziata, di dire la verità universale sul mondo. Come osservava la fisica Enrichetta Susi in uno dei testi fondamentali di Ipazia Autorità scientifica, autorità femminile (1992): “Non si tratta quindi solo di regole cui attenersi nell’attività conoscitiva; entra in gioco qui l’appartenenza a una comunità che appare in grado di garantire verità ed autorevolezza ai risultati del lavoro di chi se ne guadagna il riconoscimento” (Susi, 1992, p. 7). Nello stesso libro, la filosofa Diana Sartori riteneva “il problema dell’autorità femminile nella scienza insolubile a meno di operare un mutamento di riferimento di ordine simbolico, ovvero una riconfigurazione dell’orizzonte di senso nella quale la qualificazione “femminile” diventi da accessoria a costitutiva, in grado di riformulare i criteri stessi dell’autorità scientifica”. Il percorso da seguire, suggeriva Sartori, stava tutto nella capacità trasformativa del rapporto tra verità e senso che la pratica di relazioni tra donne era in grado di innescare, oltre la loro separatezza operata nella scienza dalla stessa scienza (Sartori, 1992, pp. 76-77)5.
Cernobyl, aprile 1986
Fino alla metà degli anni ottanta in Italia ci sono state solo alcune, inizialmente isolate, esperienze di donne che, dall’interno della scienza, hanno cercato strade diverse per coniugare il loro essere scienziate e il loro essere femministe. Riepilogando quelle già menzionate: l’esperienza del collettivo universitario torinese “Donna e scienza” (a partire dal 1978)6, il percorso di ricerca di Rita Alicchio e Cristina Pezzoli nel contesto dell’Associazione “Orlando” (a partire dagli anni 1979-1983)7, l’avvio di una critica femminista alla scienza di Elisabetta Donini (dal 1983)8, l’inizio dell’elaborazione sulla scienza, fin da subito fortemente in dialogo con le scienziate, della filosofa della scienza Elena Gagliasso (dal 1982)9.
Solo successivamente, dall’anno 1986, queste esperienze inaugurali hanno ricevuto sollecitazioni dall’esterno della scienza, grazie a una maggiore attenzione da parte del movimento delle donne italiano verso le questioni scientifiche e tecnologiche. Un evento, in particolare, si considera all’origine del crescente interesse femminista nei confronti di scienza e tecnologia: la tragedia di Cernobyl dell’aprile 1986.
Il rapido succedersi di eventi, iniziative pubbliche, manifestazioni, seminari e dibattiti organizzati da gruppi, associazioni, istituzioni femminili e femministe in diversi luoghi della società politica e civile in Italia, a partire da pochi mesi dopo quell’incidente, lascia intendere con chiarezza, anche a chi a quegli eventi non ha partecipato, quanto nel movimento delle donne si sentisse a quei tempi l’esigenza e l’urgenza di avviare un confronto tra donne fuori e dentro la scienza. “Scienziate e non scienziate”, in diverse occasioni, si sono chiamate reciprocamente a dialogare e confrontarsi, alla ricerca di un linguaggio in comune, prima ancora che di approcci e pratiche condivise attorno alla scienza, cercando di favorire una interlocuzione ampia e plurale tra donne dentro e fuori la scienza, tra chi fa scienza e chi riflette sulla scienza, come si diceva allora, ben al di là, dunque, di una discussione strettamente interna alle scienziate.
Nel documento che ha fornito la base di discussione per il seminario Scienza, potere, coscienza del limite, che si è tenuto a Roma il 20 giugno 1986, queste, per esempio, sono le parole di alcune donne fuori la scienza: “Sappiamo bene che quanto possiamo dire e pensare soffre di un limite di genericità e di approssimazione, ma crediamo non si debba avere paura di osare, avanzare idee e dubbi su questioni così essenziali, anche se non si è “esperti”. Chiarire il senso dei nostri pensieri è preliminare anche a un reale e necessario confronto con le scienziate. E poiché parlare con loro, chiamarle a una comunicazione tra donne è, tra i nostri scopi, forse il principale, il più urgente, abbiamo voluto misurarci con la difficoltà di districare dalla confusione e dall’incertezza le questioni per noi essenziali” (Boccia, Buffo, Carloni, Chiaromonte, Ferrara, Leonardi, Rossanda, Valagussa, 1986, p. 188)
Questo desiderio di scambio e confronto tra donne di diversa competenza e provenienza in quegli anni si comprende sullo sfondo di uno scenario più ampio, quello del femminismo italiano degli anni ottanta, in cui il nodo del rapporto tra differenza femminile e differenze tra donne ha acquistato rilevanza e centralità in una larga parte dei luoghi delle donne, e si è riflesso anche nella diffusione di elaborazioni teoriche che tendevano a spostare l’attenzione dall’unicità della differenza sessuale alla pluralità delle differenze – anche interne alle donne – e alle pratiche di confronto tra esse (Guerra, 2008, pp. 67-78).
Nello specifico contesto del dibattito su scienza e tecnologia, mi sembra di poter cogliere il senso di tali pratiche di confronto tra differenze nell’intervento di Maria Luisa Boccia al seminario del 1986: “Questa scelta di riferirsi privilegiatamene a donne deve poggiare sulla volontà di creare comunicazione lì dove c’è separatezza: tra economia, scienza e politica. Una separatezza che è funzionale, certo, ad una relazione di sistema, ad un intreccio di interdipendenze, che tuttavia, per funzionare, necessitano di istituzioni, di codici e linguaggi distinti e, appunto “separati”, apparentemente autocentrati (…). La scelta è quella di individuare e rendere visibili a tutte come e su cosa, riferirsi l’una all’altra, consente a ciascuna, e al nostro sesso, di meglio individuare e risolvere i problemi della nostra esistenza sociale, del riconoscimento e dell’affermazione di sé, come della capacità di determinare e orientare le scelte complessive, ad esempio nel proprio settore di lavoro, o nella politica, o nella cultura” (Boccia, 1986, pp. 19-20).
Dal punto di vista fin qui considerato, e cioè quello prevalente tra le donne, femministe, fuori la scienza, l’incidente di Cernobyl dell’aprile 1986 in Italia ha avuto senza dubbio un vero e proprio significato di passaggio, di svolta, nel rapporto tra femminismo e scienza, tra donne fuori e dentro la scienza, tra chi pensa e chi fa scienza, iniziando in questo modo a ridurre la storica distanza tra scienza e femminismo.
Ma da un altro punto di vista, per una grande parte di donne, femministe, interne alla scienza, lo stesso evento, ha tuttalpiù svelato nuovamente, e forse con ancora maggiore vigore, la distanza tra se’ stesse in quanto scienziate e il movimento delle donne. Dal loro punto di vista Cernobyl non ha prodotto una presa di coscienza femminile o femminista sulla scienza, quanto piuttosto un suo utilizzo ideologico, mettendo in evidenza la tendenza ad unire, piuttosto che distinguere, scienza/tecnologia agli orientamenti e le scelte di carattere politico relative ai suoi impieghi, rivelando in questo modo, ancora una volta, la distanza delle donne, le femministe in particolare, dalla scienza e dalle categorie – oggettività e metodo scientifico – su cui essa si fonda. Questo orientamento emerge, per esempio, negli interventi di alcune partecipanti del gruppo “donne e scienza” torinese alla tavola rotonda Dopo Cernobyl, organizzata nel 1986 a Torino dalla redazione donne di Ex Machina. Bice Fubini: “Non mi sembra che si tratti di accusare la scienza e neanche la tecnologia, che possono essere usate in un senso o in un altro (…). Se c’è una regressione economica siamo le prime ad essere licenziate” (Fubini, 1986, p. 17); Anita Calcatelli: “Forse sono influenzata dal mio lavoro e quindi non ho remore rispetto al nucleare per usi pacifici. Intanto non l’ho sentito come un problema particolare in quanto donna, al massimo ho sentito che ero esclusa da questa come da tante altre scelte di tipo politico e che non mi portano a dire no alla tecnologia, no alla scienza, mi portano a dire no a un determinato uso (Calcatelli, 1986, p. 18).
Altre posizioni, per esempio quelle di Enrichetta Susi e Elena Gagliasso10 tra altre, tendevano a rimarcare, se pur con intenzioni e finalità diverse, più che l’utilizzo di tipo ideologico della scienza, la complessiva inefficacia di stabilire limiti ad essa esterni, sia che si trattasse di altri utilizzi, diverse applicazioni, valori e ideali differenti, nuovi orientamenti nella ricerca, inclusi quelli derivanti dall’assunzione di una prospettiva femminista della differenza. Riporto qui un’osservazione di Enrichetta Susi: “(…) essendo la scienza un sistema essenzialmente autoreferenziale, limiti esterni non sono efficaci, e, d’altra parte, parlare di libertà di ricerca senza avere in mente le relazioni che sostengono i comportamenti e le scelte personali rende ogni discorso evanescente” (Susi, 1992, p. 8).
La questione dei rapporti tra scienza e sue applicazioni/utilizzi/orientamenti era in quegli anni a tal punto cruciale che uno dei termini-chiave che il dibattito attorno a Cernobyl ha introdotto è quello di coscienza del limite11. Ad un primo sguardo questa espressione intendeva complessivamente esprimere proprio quello che una parte delle scienziate imputava alle femministe: il tentativo, per alcune infondato, per altre inefficace, di porre limitazioni, teoriche e pratiche, all’idea di un progresso tecno-scientifico illimitato, informante il modello di scienza e tecnologia dominante. Ad una analisi più attenta, ci si accorge che in realtà, fin dal suo primo impiego, il termine ha acquisito almeno due connotazioni.
Secondo una prima accezione del termine, porre un limite alla scienza significava avanzare sì una questione etica al di là e dal di fuori della scienza, come forma di controllo da parte della società civile sui suoi utilizzi di tipo tecnologico, in contesti politici, economici e militari. Il presupposto è quello di un’idea di scienza come “pura e separata” da interessi, utilizzi, finalità, contesti extra-scientifici. In altre parole, la questione del limite poneva interrogativi sul modo in cui la scienza diventa scienza applicata (tecnologia), senza mettere in questione la scienza stessa, ma stimolando un processo di controllo sociale degli utilizzi del sapere scientifico a scopo economico, industriale o militare.
Secondo un’altra accezione dello stesso termine, la categoria del limite veniva considerata nella sua possibilità di essere resa operativa già dall’interno della prassi scientifica stessa, attraverso il riconoscimento dell’interdipendenza tra contesti umani e naturali, premessa da cui si riteneva possibile sviluppare un’altra scienza, a partire da altre teorie scientifiche, come per esempio quelle della complessità in ambito biologico-evolutivo. In questo caso, il limite nella scienza chiamava in causa un’assunzione di responsabilità dall’interno della scienza, che derivava da un’intenzionalità etica coerente con altre teorie scientifiche.
Per quanto sarebbe importante, non ho qui lo spazio per esemplificare questa distinzione, e soprattutto per specificare come, alla luce e nel contesto di essa, si diversificassero anche le posizioni femministe sul modo in cui dovesse o potesse intervenire la differenza femminile e femminista, come valore orientante e trasformativo della scienza, dall’esterno, o come limite interno, tra natura e cultura, tra sesso e genere.
Torno dunque a riprendere il filo del mio discorso sulla doppia assenza per dire che è comprendendo nel quadro complessivo del dibattito attorno a Cernobyl anche queste ultime prospettive che dovremmo riformulare il giudizio espresso inizialmente in merito. Dovremmo cioè limitarci a concludere che nelle vicende dei rapporti storico-teorici tra scienza e femminismo, l’evento di Cernobyl è stato quell’evento spartiacque che ha contribuito a svelare tutta la problematicità della relazione tra donne, femminismo e scienza, alla luce delle differenti interpretazioni che scienziate impegnate nel femminismo, e femministe impegnate nella riflessione sulla scienza, hanno offerto in merito alle implicazioni della ricerca tecno-scientifica nella vita quotidiana di uomini e donne.
E da questo punto di vista, quello più corretto da cui valutare, ancora una volta, la doppia assenza ha ribadito la sua presa sul femminismo e la scienza.
Genere e differenza sessuale
All’origine del crescente interesse femminista verso la scienza e la tecnologia in Italia non vi è stato solo l’evento di Cernobyl ma anche un altro accadimento: la ricezione del dibattito femminista anglosassone che su questi temi, già dalla metà degli anni settanta, aveva iniziato a sviluppare una vasta letteratura critica. Sotto la spinta delle numerose pubblicazioni in lingua inglese, parte delle quali tradotte in italiano, già nel biennio 1984-1985, il dibattito teorico femminista sulla scienza era inziato a crescere anche Italia, fino ad arrivare ad una certa complessità tra il 1986 e il 1988. A cominciare con il libro del Brighton Women and Science Group Alice throught the microscope (1980) e gli articoli di Hilary Rose (“Dominio e esclusione: le donne e la scienza”) e Donna Haraway (“Sociologia animale e fisiologia politica”) tradotti nel 1981 sulla rivista Nuova DWF, fino ad arrivare alle traduzioni di testi divenuti classici dell’epistemologia femminista oltreoceano nell’anno 1987 (tra cui Sul genere e la scienza e In sintonia con l’organismo di Evelyn Fox Keller)… queste e molte altre pubblicazioni hanno alimentato un dibattito che è giunto all’attenzione di riviste culturali – da segnalare il dossier che nel settembre 1986 la rivista SE Scienza Esperienza ha dedicato al tema “donne e scienza”, includendo interventi di Elisabetta Donini, Evelyn Fox Keller, Laura Frontali, Marina Frontali, Elena Gagliasso, Margherita Hack, Paola Manacorda, Paola Melchiori, Luisa Muraro, Silvia Vegetti Finzi, ma anche giornali della stampa italiana come Il corriere della sera (“La voce femminile nel sapere scientifico”, nel 1985). L’elenco sarebbe lunghissimo, ma anche inutile visto che oggi le bibliografie – in particolare quelle dei testi inglesi, tradotti o meno in italiano – costituiscono interi campi di ricerca di facile consultazione. Non è comunque questo l’aspetto su cui voglio soffermarmi.
Rimanendo sulla questione centrale del mio articolo – la doppia assenza di femminismo e scienza in Italia – vorrei piuttosto suggerire che essa potrebbe essere stata ulteriormente favorita dalla prevalenza nel contesto internazionale del dibattitto anglosassone su questi temi. Cercherò ora di spiegare in che modo.
Tra la fine degli anni settanta e per tutti gli anni ottanta, il lessico teorico-politico prevalente nei diversi luoghi di elaborazione culturale e politica del femminismo italiano ruotava attorno alla categoria della differenza sessuale, non attorno a quella di genere.
Gender – che in italiano traduciamo con genere – si considera infatti quel termine originariamente impiegato nel pensiero femminista angloamericano per evidenziare la sua distinzione dal dato biologico del sesso (sex), una distinzione che ha informato interi ambiti di teoria femminista almeno fino alla riformulazione di sex/gender da parte della filosofa americana Judith Butler negli anni novanta (Butler, 1993). Questa territorialità non ha avuto ovviamente solo una valenza geografica, ma ha rimandato a un modo di pensare le categorie di ‘maschile’ e ‘femminile’ – appunto in base alla distinzione tra ordine biologico-naturale del sesso e ordine sociale-culturale del genere -, e per molti anni ha segnalato una particolare attenzione verso l’analisi critica delle strutture socio-economiche che configurano il sistema di genere. Il significato di gender – in modo evidente fino alla prima metà degli anni novanta – non ha coinciso con quello di differenza sessuale in cui invece si sono intrecciati “dato biologico, ordine simbolico, morfologia corporea, lavoro dell’immaginario”, e nella quale corpo e inconscio hanno acquisito importanza fondamentale, marginale invece nelle questioni e studi del gender (Cavarero, 2002, p. 78).
Come è noto, la centralità assunta dalla differenza sessuale nell’elaborazione femminista italiana si riscontra già dalla prima metà degli anni settanta, all’origine nel pensiero di Carla Lonzi, e si è da subito accompagnata con una radicale presa di distanza da ogni forma di discorso incentrato su emancipazione e omologazione al maschile. In quegli anni, il confronto con il femminismo francese, in particolare con il gruppo “Psycanlayse et Politique”, nato alla fine degli sessanta attorno a Antoniette Fouque, è stato fondamentale anche nel contribuire a dare nuovo slancio all’esperienza di autocoscienza della prima metà degli anni settanta, attraverso la psicanalisi e la pratica dell’inconscio. Nel 1975 è stato tradotto in italiano dalla filosofa Luisa Muraro Speculum della filosofa e psicanalista francese Luce Irigaray, e la diffusione di quel testo in Italia ha rafforzato ulteriormente la centralità del pensiero della differenza sessuale, che nel corso degli anni ottanta si è articolata in teorie e pratiche che hanno messo in campo un soggetto femminile radicalmente altro rispetto al soggetto neutro-universale maschile. È in questo contesto che nello stesso anno, il 1975, viene fondata la Liberia delle Donne di Milano, luogo di indubbio riferimento nell’ambito dell’elaborazione della differenza sessuale nel femminismo italiano12.
Quello che forse è meno noto è che sempre tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, è diventato marginale quel percorso di gruppi di elaborazione attorno al corpo e alla salute femminile focalizzato su una contrapposizione tra esperienza del corpo vissuta in prima persona dalle donne e le istituzioni della scienza medica, che in diversi casi, nella prima metà degli anni settanta, aveva condotto all’esperienza di autogestione di consultori. Negli stessi anni è prevalsa una maggiore attenzione alla violenza sulle donne (Guerra, 2008, pp. 73-74). Come è stato segnalato da alcune delle protagoniste della storia del Coordinamento, in particolare Elisabetta Donini e Diana Sartori, nel dibattito italiano degli anni ottanta attorno a “donne e scienza” è piuttosto vistosa l’assenza di riferimento a questo pregresso, così anche all’esperienza, centrale nel movimento delle donne di quegli anni, del “Boston Women’s Health Book Collective” che nel 1971 aveva pubblicato Our Bodies, Ourselves, tradotto in italiano da Angela Miglietti con il titolo Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne nel 1974.
Tutti questi diversi fattori potrebbero aver contribuito a quello che per molti versi appare come un’anomalia nel contesto italiano: un approccio alla scienza che dal primo momento ha privilegiato l’utilizzo della terminologia del genere nel contesto di un pressoché unico riferimento al dibattito anglosassone su questi temi, per quanto si dovrebbe precisare che – come emerge dall’analisi dei documenti del Coordinamento e altri testi della prima metà degli anni ottanta – i significati di genere e gender non sempre sono coincisi, slittando in alcuni casi verso la categoria di identità di genere, o convivendo con quelle di sesso e sessualità. I primi lavori delle biologhe dell’Associazione “Orlando” sull’“identità femminile conoscente” (1983) mostrano questa tendenza, rintracciabile anche in quelle argomentazioni di Elena Gagliasso che intendevano valorizzare sia il genere, “ambito della costruzione sociale della donna” che il sesso, la “realtà naturale delle cose (…), ambito della precodizione biologica del nostro appartenere alla metà femminile della specie sessutata” (Gagliasso, 1988, p. 99 e p. 104).
Fatte queste precisazioni, qui necessariamente molto sintetiche, è a uno sguardo d’insieme che è possibile osservare che nell’arena femminista internazionale le prime riflessioni sulla relazione tra donne e scienza da un’ottica femminista si sono sviluppate originariamente nei paesi anglosassoni, diventando da subito un imprescindibile riferimento di confronto teorico anche in Italia, in questo modo favorendo l’impiego della categoria di genere il cui utilizzo rivela lo specifico legame tra questioni di scienza e questioni di genere in un contesto, come quello italiano, che in quegli anni tendeva preferibilmente a impiegare la categoria della differenza sessuale. Contemporaneamente, si dovrebbe osservare, l’assenza di un dibattito su scienza e tecnologia dal punto di vista della differenza sessuale può essere considerato come uno degli elementi contestuali significativi che ha rafforzato questo legame tra questioni di genere e questioni di scienza.
In sede di Coordinamento, la questione differenza sessuale Vs genere non è stata esplicitamente affrontata. D’altra parte, l’allontanamento di Diana Sartori, Enrichetta Susi, Angela Alioli e Cristiana Fischer, tra le iniziatrici, dal 1987, di Ipazia13, – è interpretabile sullo sfondo di un conflitto teorico-politico che eccede una semplice questione terminologica. Non solo riflette teorie e pratiche differenti nei diversi luoghi del femminismo italiano14, ma potrebbe essere anche considerata come una presa di distanza dalla predominanza di riferimenti concettuali anglosassoni sui temi di genere e scienza in Italia.
Come riannodare i fili, oltre la doppia assenza?
Tornare alle origini del rapporto tra scienza e femminismo significa accorgersi di una problematicità di relazioni che nella doppia assenza trovano, io credo, piena dicidibilità. Come ho cercato di mostrare in questo articolo, la rilevanza teorico-politica di tale questione emerge attorno all’anno 1986 diventando un aspetto distintivo del modo in cui lo stesso dibattito femminile italiano è andato strutturandosi, almeno fino ai primi anni novanta, attorno ai termini femminismo e scienza.
Per quanto, come ho già detto, questo problema ha radici nel passato, esso si rinnova nel presente, anche se nel suo insieme la storia del Coordinamento Nazionale “Donne di Scienza”, fatta delle relazioni tra un centinaio di singole partecipanti – insieme ad alcuni gruppi locali “donne e scienza”, ha costituito un complesso e ramificato tentativo di colmare la reciproca distanza di femminismo e scienza. E lo ha fatto attraverso approcci alla scienza che se anche hanno indubbiamente privilegiato l’interlocuzione con il diabattito angloassone, unico riferimento sul piano internazionale, non sono comunque riconducibili agli approcci oggi prevalenti in materia di genere e scienza: ne’ alle teorie del gender di matrice anglosassone, ma nemmeno alle pratiche di uguaglianza e pari opportunità di donne e uomini nella scienza, quanto alla differenza di cui le donne sono o possono essere portatrici.
La doppia assenza di femminismo e scienza ha insomma tessuto la trama di una eredità storica e concettuale paradossale: tanto ingombrante per quanto riguarda le due declinazioni maggioritarie che oggi alimentano il dibattito sulla scienza e tecnologia (gender, da una parte, uguaglianza/pari opportunità, dall’altra), quanto vistosamente assente se le stesse questioni sono affrontate dalla prospettiva del femminismo della differenza. È in questa prospettiva che ritengo importante cercare di riannodare i fili con il passato, portare alla luce questa ed altre storie di femminismo e scienza in Italia: non dunque esercizio fine a se stesso, ma una messa a fuoco delle premesse storico-concettuali a partire dalle quali è forse possibile dare voce a un altro ordine di discorso, che rimetta al centro la differenza.
L’urgenza politica di un simile intervento si comprende a pieno alla luce della pervasività che l’ordine tecnoscientifico – così dovremmo chiamarlo oggi, piuttosto che scientifico – ha assunto nel presente in cui viviamo: quest’ultimo è uno degli aspetti costitutivi dell’ordine capitalista del neoliberismo contemporaneo, forse l’aspetto originario. È proprio questo discorso, dominante sia a livello materiale che simbolico, che oggi mi pare tende ad essere coestensivo a quello, altrettanto emergente, che l’approccio gender – più precisamente la sua più recente transizione al post-gender/queer – articola, soprattutto se guardiamo al tipo di relazioni che questa prospettiva instaura con la cosiddetta “liberazione degli aspetti non riproduttivi della vita”, oltre dunque la differenza sessuata al femminile, un superamento che la stessa tecnoscienza rende possibile. Un approccio, questo, che tende quantomeno ad oscurare le differenze, storico-incarnate che, se anche in termini conflittuali e non assimilabili, hanno comunque animato il femminismo italiano della differenza, almeno nel suo primo apparire nella scena pubblica.
Tutto questo, mi auguro, possa diventare l’inizio di un’altra storia15.
Note
1 Ricerca realizzata negli anni 2008-2009, promossa dall’Associazione Donne e Scienza, di cui una parte con un finanziamento della Fondazione G. Brodolini. Ho inizialmente realizzato una strutturazione ragionata dei documenti raccolti (circa 4000 pagine), alcuni messi a disposizione dall’Archivio di Storia delle Donne di Bologna, presso il Centro di Documentazione Ricerca e Iniziativa delle Donne, sede storica del “Coordinamento”, altri dal Comitato Scientifico della ricerca (composto da Elena Del Grosso, Anna Garbesi, Annamaria Tagliavini, Diana Sartori, Enrichetta Susi, Elena Gagliasso, Daniela Minerva, Flavia Zucco, Anita Calcatelli, Elisabetta Donini, Margherita Plassa), altri ancora da otto fondatrici storiche che ho intervistato (Bice Fubini e Elisabetta Donini, Rita Alicchio e Elena del Grosso, Flavia Zucco e Francesca Molfino, Diana Sartori e Enrichetta Susi). Fasi e metodologie di ricerca sono meglio precisate nel saggio 1978-1986: All’origine del Coordinamento Nazionale Donne di Scienza, F. Brodolini Ed., 2013, in cui ho descritto il contesto di nascita del Coordinamento (dal 1978 al 1986), premessa non prescindibile per comprenderne sviluppi e snodi successivi. Consultabile anche on line nel sito della fondazione G. Brodolini
(http://www.fondazionebrodolini.it/sites/default/files/fgb_allegrini_pdf.pdf).
2 Come nel caso del gruppo “Donne e Scienza” di Bologna.
3 Come la fisica e storica della scienza torinese Elisabetta Donini.
4 Come la comunità scientifica femminile Ipazia.
5 Fin dalle origini la riflessione di Ipazia è informata da alcuni dei termini-chiave del pensiero della differenza sessuale, così come declinato nella Liberia delle Donne di Milano. Alcuni dei riferimenti concettuali della sua pratica di relazione tra donne, e pensiero che essa sviluppa, sono contenuti nel testo qui citato, Autorità scientifica, autorità femminile (1992), che potremmo chiamare il “manifesto” delle sue idee teorico-politiche. Segnalo qui le sue altre pubblicazioni: Diana Sartori, “Diana per Hypatia: dar fiato alla voce femminile”, Luisa Muraro “ È in corso una rivoluzione scientifica”, in Libreria delle Donne di Milano, “Sulla rappresentazione politica femminile, sull’arte di polemizzare tra donne e sulla rivoluzione scientifica in corso”, fascicolo speciale di Sottosopra, giugno 1987; Ipazia, “Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia”, collana Via Dogana della Libreria delle donne, Milano, marzo 1988; La misura del vivente. Atti del convegno, Bologna, 21 maggio 1994; “Due per sapere, due per guarire”, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano, ottobre 1997. Ricordo qui anche l’articolo di Luisa Muraro, apparso su SE Scienza Esperienza pochi mesi dopo la fondazione di Ipazia: “Sulla luna sì… ma non in treno”, SE Scienza Esperienza, Marzo 1987, pp. 24-26.
6 Oltre all’indagine sulla relazione tra le donne e la scienza, i cui risultati sono stati infine pubblicati nel dicembre 1983 sulla rivista SE Scienza Esperienza (“Come vivono la scienza le donne?”), un’altra iniziativa del Collettivo è stata una mostra La scienza è maschile?, allestita nel 1981 in occasione della Festa Nazionale dell’Unità. Il Collettivo si è riunito fino al 1983, anno che segna il suo esaurimento e contemporaneamente l’avvio di una fase di passaggio, dal collettivo universitario al gruppo “Donne e scienza”, partecipante dal 1986 al Coordinamento Nazionale “Donne di Scienza”.
7 Parte della prima progettualità culturale triennale dell’Associazione “Orlando”/Centro delle Donne di Bologna I percorsi dell’identità femminile (1983) l’indagine realizzata da Alicchio e Pezzoli, insieme a Cocchi, Graziani, Rubies, Donne scienziate nei laboratori degli uomini (1983-1985) è stata preceduta da una proposta tematica sulla biologia (1983). Si veda: Centro di documentazione, ricerca e iniziativa delle donne, I percorsi dell’identità femminile. Proposte bibliografiche, Quaderno n. 2 a cura di Rita Alicchio, Claudia Antonini, Marilena Buscarini, Cristina Cacciari, Mira Fischetti, Vita Fortunati, Giovanna Franci, Tiziana Marchi, Mirella Monti, Cristina Pezzoli. Comune di Bologna – Assessorato alla Cultura, 1983.
8 Fisica di formazione, dopo alcuni anni spesi nella ricerca nell’ambito della fisica delle particelle, dai primi anni settanta Elisabetta Donini ha abbandonato la ricerca scientifica per iniziare un percorso di critica storica della non neutralità della scienza, nel contesto di quel filone di pensiero di matrice marxiana sulla scienza, nel quale una delle figure di riferimento più note in Italia è Marcello Cini. È a partire da questo percorso, che si focalizza primariamente sulla dimensione storica della scienza, che la fisica torinese ha effettuato quello che lei stessa considera essere stato il suo punto di svolta femminista. L’articolo pubblicato nel 1983 su SE Scienza Esperienza (“Il sesso della scienza”) che tra altre questioni ha proposto una rilettura del testo della storica della scienza statunitense Carolyn Merchant (The death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution (1979) è segnale di questo passaggio: da una critica alla neutralità della scienza a una critica femminista della scienza.
9 Uno dei primi articoli di Elena Gagliasso sul tema “donne e scienza” risale al 1982: Elena Gagliasso, “Coinvolte ed estranee: le donne e le regole della conoscenza”, L’orsaminore, maggio 1982. Un altro suo articolo, dal titolo “Pensieri sulle donne e la conoscenza”, è pubblicato nel dossier che la rivista SE Scienza Esperienza ha dedicato al tema “Donne e Scienza” nel settembre 1986. Insieme Daniela Minerva, Francesca Molfino, Elisa Molinari, Flavia Zucco, nel novembre 1988 ha dato vita al “piccolo gruppo romano donne e scienza”, partecipante al Coordinamento fino alle sue ultime riunioni.
10 Come già sottolineato anche a pagina 4.
11 Come nel seminario già ricordato Scienza potere coscienza del limite. Segnalo anche il dossier di SE Scienza Esperienza dal titolo “Ripensando Cernobyl. La parola alle donne” che nel maggio 1987 ha raccolto articoli di: Luciana Percovich, Elisabetta Donini, Laura Conti, Anna Maria Rosei, Anna Corciulo, Mercedes Bresso. Numerosi inoltre gli interventi di Elisabetta Donini su questo tema, oltre che nei testi appena menzionati: “Andar per scienza. Il sapere itinerante delle donne dopo Cernobyl”, Reti. Pratiche e saperi di donne, Editori Riuniti Riviste, settembre-ottobre 1987, pp. 19-22; “La scienza al di qua del bene e del male”, Nuova Ecologia, ottobre 1987, pp. 71-73; La Nube e il limite. Donne, scienza, percorsi nel tempo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990.
12 Come è noto, il pensiero e la pratica della differenza sessuale della Liberia delle Donne di Milano non sono assimilabili al pensiero della differenza sessuale di ambito francese. Questo aspetto necessiterebbe di un ampio approfondimento, non certo riassumibile in poche righe a piè di pagina. In questa sede mi limito a rinviare ad un testo recente: Chiara Martucci, Liberia delle donne di Milano. Un laboratorio di pratica politica, Milano, Fondazione Badaracco Franco Angeli, 2008.
13 Enrichetta Susi è entrata in Ipazia dal 1988.
14 Mi limito qui ad accennare al fatto la pratica di relazione incentrata sul confronto tra differenze, tra donne femministe dentro e fuori la scienza, ha complessivamente caratterizzato il contesto plurale ed eterogeneo del “Coordinamento”, anche se proprio in esso è stata discussa e in alcuni casi contestata. Questa pratica è stata il riflesso della preferenza della maggioranza delle sue partecipanti per l’informalità del gruppo ed ha espesso una specifica intenzione, richiamata da Cristina Pezzoli nell’introduzione agli atti di un’iniziativa del “Coordinamento” del 1992, il seminario Bioetica si, no: perché?: quella di sottolineare “la funzione di legame tra esperienze diverse piuttosto che il progredire di un’unica esperienza” (Pezzoli, 1992, p. VI). All’assenza di una forte visione comune della funzione e del significato del “Coordinamento”, a sua volta ostacolo all’individuazione di una pratica comune, è stata invece ricondotta la sensazione, in alcuni casi dominante, di dispersività, frammentazione, irrilevanza complessiva di questa esperienza. Sono state soprattutto le partecipanti di Ipazia a farsi portavoce della necessità di individuare una pratica di relazione tra donne in grado di condurre all’assunzione di un ruolo autorevole del “Coordinamento”, attraverso uno specifico approfondimento di alcune delle questioni-chiave elaborate nella Libreria delle Donne di Milano: autorità, affidamento, competenza, rapporto tra donne di scienza e tra queste e le altre. L’assenza di questa pratica è stata considerata un limite di natura politica del percorso del “Coordinamento”.
15 Sono consapevole del fatto che questi temi, qui ridotti a un cenno poco comprensible, sono così importanti che meriterebbero di essere spiegati e approfonditi. D’altra parte, al momento, non sono altro che l’inizio di un nuovo percorso di riflessione e ricerca.
Testi e documenti citati
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Alicchio, Rita, Pezzoli, Cristina (a cura di), Donne di scienza: esperienze e riflessioni, Centro Documentazione Donne di Bologna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988.
– “Introduzione”, in Alicchio, Rita, Pezzoli, Cristina (a cura di), Donne di scienza: esperienze e riflessioni, Centro Documentazione Donne di Bologna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 8-16.
Alicchio, Rita, Cocchi, Daniela, Graziani, Laura, Pezzoli, Cristina, Rubies, Conception, “La ricerca”, in Alicchio, Rita, Pezzoli, Cristina (a cura di), Donne di scienza: esperienze e riflessioni, Centro Documentazione Donne di Bologna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 38-39.
Allegrini, Alessandra, 1978-1986: All’origine del Coordinamento Nazionale Donne di Scienza, F. Brodolini Ed., 2013.
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Boccia, Maria Luisa, Buffo, Gloria, Carloni, Anna Maria, Chiaromonte, Franca, Ferrara, Marcella, Leonardi, Grazia, Rossanda, Marina, Valagussa, Marisa, “Vivere l’estraneità come forza politica”, Leonardi, Grazia (a cura di), Scienza potere coscienza del limite. Dopo Cernobyl: oltre l’estraneità, Quaderni di Donne e politica, supplemento al n.5, settembre-ottobre 1986, Roma, Editori Riuniti Riviste, pp. 181-189.
Brighton Women and Science Group, Alice Through the Microscope: Power of Science Over Women’s Lives, Virago Press, London, 1980; trad. it. di Redaelli, Adriana, Percovich, Lucian, Alice Attraverso il microscopio: il potere della scienza sulla vita delle donne, Milano, La Salamandra, 1985.
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Centro di Documentazione, Ricerca e Iniziativa delle Donne, I percorsi dell’identità femminile. Proposte bibliografiche, Quaderno n. 2 a cura di Rita Alicchio, Claudia Antonini, Marilena Buscarini, Cristina Cacciari, Mira Fischetti, Vita Fortunati, Giovanna Franci, Tiziana Marchi, Mirella Monti, Cristina Pezzoli. Comune di Bologna – Assessorato alla Cultura, 1983.
Collettivo Donna e scienza, Mostra del Collettivo “Donna e scienza” di Torino, Festival nazionale de l’unità, Torino, 5/20 settembre 1981, documento dattiloscritto ciclostilato.
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– “Postfazione”, allegato alla lettera alla redazione della rivista Noi Donne, Torino, 1982, documento dattiloscritto.
– “Come vivono la scienza le donne?”, SE Scienza Esperienza, Dicembre 1983, pp. 29-30.
Donini, Elisabetta, “Il sesso della scienza”, SE Scienza Esperienza, Giugno 1983, pp. 8-11.
– “Andar per scienza. Il sapere itinerante delle donne dopo Cernobyl”, Reti. Pratiche e saperi di donne, Editori Riuniti Riviste, settembre-ottobre 1987, pp. 19-22.
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– “Soggetto donna/oggetto scienza: gli interrogativi dell’identità di genere”, in Alicchio, Rita, Pezzoli, Cristina (a cura di), Donne di scienza: esperienze e riflessioni, Centro Documentazione Donne di Bologna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 69-86.
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Dopo Cernobyl, Tavola rotonda promossa dalla redazione donne di Ex Machina, con Nicoletta Giorda, Silvana Marchionni, Elisabetta Donini, Bice Fubini, Margherita Plassa, Alida Calcatelli, Interventi e dibattiti, Torino, 1986.
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The Boston Women’s Health Book Collective, Our Bodies, Ourselves, New York, 1971; ed. it. Miglietti, Angela, Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne, Feltrinelli, Milano, 1974.
1 Ricerca realizzata negli anni 2008-2009, promossa dall’Associazione Donne e Scienza, di cui una parte con un finanziamento della Fondazione G. Brodolini. Ho inizialmente realizzato una strutturazione ragionata dei documenti raccolti (circa 4000 pagine), alcuni messi a disposizione dall’Archivio di Storia delle Donne di Bologna, presso il Centro di Documentazione Ricerca e Iniziativa delle Donne, sede storica del “Coordinamento”, altri dal Comitato Scientifico della ricerca (composto da Elena Del Grosso, Anna Garbesi, Annamaria Tagliavini, Diana Sartori, Enrichetta Susi, Elena Gagliasso, Daniela Minerva, Flavia Zucco, Anita Calcatelli, Elisabetta Donini, Margherita Plassa), altri ancora da otto fondatrici storiche che ho intervistato (Bice Fubini e Elisabetta Donini, Rita Alicchio e Elena del Grosso, Flavia Zucco e Francesca Molfino, Diana Sartori e Enrichetta Susi). Fasi e metodologie di ricerca sono meglio precisate nel saggio 1978-1986: All’origine del Coordinamento Nazionale Donne di Scienza, F. Brodolini Ed., 2013, in cui ho descritto il contesto di nascita del Coordinamento (dal 1978 al 1986), premessa non prescindibile per comprenderne sviluppi e snodi successivi. Consultabile anche on line nel sito della fondazione G. Brodolini