diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Una presa di parola nel nome delle differenze

Le questioni centrali da pensare in occasione del mio intervento al seminario di Diotima[1] sono state: nella contemporaneità che cosa sento vivo del pensiero della differenza sessuale in quanto giovane donna? Quali radici condivise con il pensiero della differenza sessuale mi possono orientare in “mare aperto”? Quali sono i conflitti e le alleanze con il maschile?

 

Il dire il mio legame con coloro che hanno agito politicamente nella realtà per trasformarla avendo a cuore la differenza femminile, è stata un’occasione non solo per esprimere riconoscenza (la quale spesso, tristemente, porta il senso di un’eredità fatta e compiuta dalla quale non rimane più niente da imparare) ma anche per non sminuire la questione dell’eredità riducendola ad un fattore “conoscitivo” o ad un semplicistico, formalizzante e inarticolato “passaggio di testimone”: ciò che è più vivo in me del pensiero della differenza sessuale diviene invece stimolo ad un pensiero e ad un’azione che non scindano mai chi sono da cosa faccio.

Importante dire l’eredità, quindi, sì. Ma l’eredità, ancora prima che detta, a mio parere va incarnata, vissuta e mescolata con la propria unicità.

 

Nella mia vita ho preso parola quando ho iniziato a sentire un senso di consistenza in me. Ho sentito che c’è un’autorità che mi viene dall’esperienza. In altre parole, c’è un rapporto sottile fra esperienza, parola, azione e trasformazione che, man mano che vivo ed accumulo esperienza, mi porta a sentire un bacino costitutivo dentro di me. Questo accade se non rinuncio a cercare di stare nella lingua in un rapporto con il senso, se non rinuncio a scovare un legame significativo fra parole, cose e azioni.

Occorre allora avere destrezza e come una sorta di sapere artigianale nel saper costruire, “fare”, fare emergere la differenza nella presa di parola.

Scrive Carla Lonzi all’interno del testo Sputiamo su Hegel: “La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell’esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella fra donna e uomo è la differenza di base dell’umanità.”[2]

Il che per me non significa assumere ad esempio la prima differenza, quella sessuale, come una semplice partizione di genere, perché essa vive sempre in primo luogo nella e della nostra singolarità incarnata. Come dire: ci sono uomini e donne, ma anche donne e donne e uomini e uomini. Ci sono delle differenze nelle forme di vita che sono irriducibili.

 

 

  1. Politica: “Quali radici in mare aperto?”

                                                             

      “Ritirato nel suo cielo, l’ideale è inaccessibile.”

                                                                                         François Jullien

 

La contemporaneità vissuta dalla mia generazione presenta alcune caratteristiche, diciamo così, persistenti: la frammentazione, l’incapacità di avere un orizzonte comune e da questo ricavarne agire pratico e politico.

Per non lasciarmi annichilire da questa situazione mi chiedo spesso: “Che portata trasformativa attua questa frammentazione?” Sul piano più strettamente politico la mia domanda assume i seguenti netti contorni: “Di che rivoluzione necessitiamo ora?”

Mi chiedo dove sia la cesura oggi, dove sia la ferita nel nostro presente, ed anche dove passi la linea di fronte politica. Una volta si aveva un nemico esteriore e definibile, ora non si capisce dove sia il contesto della nostra azione possibile. Di più, non si capisce neanche bene dove è il “noi” e se questo fantomatico “noi” lo si desideri incontrare realmente.

Personalmente mi sono imbevuta di idealismo rivoluzionario da giovane e stranamente ora c’è qualcosa dell’idealismo rivoluzionario che mi indica come nell’ideale si perda una metis concreta e che mi aiuta a sganciarmi in qualche modo dall’idea che qualcosa di assoluto, il “bene assoluto”, la “giustizia assoluta”, possano trovare casa qui.

 

In altre parole credo che stiamo vivendo un processo di cambiamento nel quale questa frammentazione, questa mancanza di un orientamento comune, di condivisione, questo “disincanto del mondo” possano divenire anche un rifiuto del carattere in qualche modo sempre astratto dell’ideale.

Faccio un piccolo salto sul posto e porto qui l’accezione astronomica di rivoluzione: “moto di rotazione di un sistema attorno al centro in un campo di forze centrali. In particolare, moto compiuto da un astro attorno ad un secondo astro a cui è legato gravitazionalmente (in realtà attorno al baricentro del sistema formato dai due astri ed influenzato dagli altri corpi vicini, secondo le leggi di Keplero…)”

Alla nozione di rivoluzione accosto ora la derivazione della parola desiderio. Desiderare significa spostarsi dalla propria orbita. Capisco allora che la rivoluzione non basta. Le rivoluzioni che conosciamo sono sempre stati stravolgimenti di sistemi istituzionali, politici, ideologici, culturali ma, inevitabilmente, hanno poi riportato ad una nuova ossatura su di un altro campo di sistema. Solo il desiderio dentro noi stesse/i può portare elementi di de-centratura, forze gravitazionali oblique le quali riescano a radicalizzare gli elementi in campo in un momento di mutazione e  cambiamento degli assetti sociali, politici, economici di un paese. In effetti scrivendo “forze gravitazionali oblique” sembrerebbe proprio che io stia considerando un ossimoro come forma di proposizione politica e forse è proprio così: questo ossimoro rende bene il senso dello spostamento di cui abbiamo bisogno, dello spostamento che il desiderio attua nei rapporti di forze, il suo legame con l’impossibile che però ogni giorno ci chiama ad un’aderenza coerente fra pensiero, sentire e azione.

La rivoluzione è stata ampiamente mercificata, penso ad esempio alla “rivoluzione high-tech” propagandata dai giornali. I desideri invece sono sempre vicini ad un nucleo che chiama in causa le ragioni profonde e i moti autentici del nostro essere al mondo. I desideri non vanno disattesi, in qualche modo non accettano finti compromessi, pena un impoverimento dell’esistenza, una sensazione di mancata aderenza al nostro nucleo vitale più intimo.

Tenere vivi i desideri, questo è il più grande problema che viviamo ora, questa è la frattura dentro di noi. Non abbiamo contesto forse anche perché dobbiamo capire che, per crearlo, dobbiamo per prima cosa ripartire dalle nostre interiorità.

 

La sensazione nelle giovani generazioni è che manchi tempo, e che non ci siano spazi già esistenti per la condivisione di un orizzonte possibile. Questo perché le maglie sociali che creavano dei luoghi dove i desideri si rinvigorivano e le azioni avevano effettiva capacità di “fare mondo” non sono ormai più gli stessi di quelli dei nostri padri e delle nostre madri, o almeno così pare.

Metto allora in evidenza che non si hanno possibilità reali di creare spazi comuni quando oggi è difficile riuscire, per una persona giovane, ad avere beni che sono essenziali alla vita: casa, lavoro, creazione di relazioni affettive, indipendenza, autonomia. Questa mi pare la grande frattura che viviamo come generazione (penso qui alle persone che, come me, hanno più o meno dai 25 ai 35-38 anni)  rispetto a quelle che ci hanno preceduto.

 

Diviene allora sempre più chiaro come l’emancipazione simbolica non sia distinta da quella materiale, esse vanno di pari passo.

 

  Ciò che è difficile ora è dare speranza, essere propositivi, e si sa che esiste un limite dove la parola deve passare all’azione per fecondare il mondo. Ma questa azione, se mancano il contesto e, molto più spesso di quanto si pensi,  i mezzi materiali per realizzarla, diventa una sofferta impossibilità.

Il fare esperienza di questa frammentazione può anche portarci a sopravvivere in stati di esistenza di esasperante dispersione, si prolunga sempre di più la data del nostro agire nel mondo ed è facile che il senso di inutilità e di impotenza risultino molto forti. Fino al crearsi di una stasi: una vera e propria paura di vivere.

 

Mi chiedo allora se si possa imparare da questa lacerazione. Mi chiedo come fare di questa condizione una possibilità di crescita e di trasformazione.

Credo innanzitutto che dovremmo smettere di cercare un’autorizzazione da fuori per agire. La contemporaneità e le sue logiche efficientiste ci fanno sentire sempre mancanti di qualcosa o mai preparati. Iniziare allora a darsi da sé l’autorizzazione ad agire e a creare. Iniziare a nominare il limite e la paura come fonte di libertà, riconoscere bisogni che siano diversi da quelli legati al consumo mercantile o alla soddisfazione di un godimento povero che non sa mettere in moto la rivoluzione del desiderio. Sarebbe importante cercare un nuovo ordine di bisogni e dirlo!

Farlo diventare un momento di rottura nei confronti dell’assetto armato del potere. Trovare da sole/i le parole per dirci. Fare ordine simbolico nei nostri bisogni e nei nostri desideri.

 

Esistono così due crinali dove mi pare si giochi il concetto di necessità: uno che riguarda la struttura della forza, del potere e dei suoi gioghi, l’altro è la necessità di riaprire i giochi, è il cercare quanto più si può di vivere fino in fondo la peculiare necessità dettata dal desiderio di quella forma di vita che sentiamo più consona al nostro essere, alla nostra singolarità incarnata. Scrive Miguel Benasayag: “La base comune è un altro livello dell’esistenza, è fare l’esperienza che siamo tutti sulla stessa barca. […] Solo le pratiche in cui ciascuno sviluppa la sua attività permetteranno la costruzione della base comune. Nel nostro mondo in serie bisogna imparare uno strano radicalismo: agire diversamente in un’estrema singolarità per disegnare una nuova base comune.”[3]

 

 

  1. La questione dell’efficacia, o: “dell’agire tacito”

           

  “ Se manca la leva, invece di trasformare nel senso di  un più grande valore, si cambia allo stesso livello.”

                                                                                               Simone  Weil

 

   Consideriamo incompleta una storia che si è costruita sulle tracce  non deperibili.”

                                                                                               Carla Lonzi

                                                                                                      

 

Ai nostri giorni è in crisi il senso stesso della politica e le donne non sembrano pronte o interessate a dire che c’è una differenza femminile nell’agire politico.

Come mi spiego, in quanto donna, questo silenzio? Penso alla questione dell’efficacia e al senso di un agire che rifiuta l’estenuante regime di rappresentazione di esposizione contemporaneo e che vive e lavora in una maniera più sotterranea.

 

Scrive Simone Weil: “Il grado di probità intellettuale che per me è obbligatorio, in forza della mia stessa vocazione, esige che il mio pensiero sia indifferente a tutte le idee senza eccezione, compreso ad esempio il materialismo o l’ateismo, ugualmente accogliente e ugualmente riservato nei riguardi di tutte. Così l’acqua è indifferente agli oggetti che vi cadono dentro; non li pesa; sono essi a pesarsi da se stessi, dopo un certo tempo di oscillazione.”[4] Condivido di questa affermazione, oltre al pensiero desiderante mosso da quelle idee che portano con sé il senso di un’eccezione, anche il suo rimando all’acqua, alla sua matrice osmotica e capace di un’azione trasformativa indiretta che pone in rilievo la propensione femminile (e dei bambini) all’equanimità e all’accoglienza, una sottrazione che ci parla in maniera molto profonda della differenza femminile.

C’è un rimando a quello spazio del femminile che è fatto della materiale carnalità dell’esperienza vissuta e dei desideri che essa porta con sé. Come dei lunghi silenzi, dei nodi taciti, che nella loro ostinata e sofferta ermeticità spesso vanno a stridere come fossero placche terrestri con gli ambiti dove la nostra personalità, il nostro desiderio e le nostre azioni politiche si fanno più esteriorizzate, “capaci”, all’altezza della formulazione pratica e dell’efficacia nella parola.

 

Ebbene io penso che questa efficacia dell’azione e della parola viva ampiamente e si arricchisca grazie a questa parte porosa, umbratile, contusa e cocciuta che portiamo in noi. E che alle volte proprio “non ne vuol sapere” di rendersi comprensibile e dicibile.

Ascoltare queste zone di noi stesse. Immergerci nel non detto, sostare nella penombra delle nostre stanze interiori, per mettere alla prova le sicurezze agite, nella parola e nelle azioni.

 

La parte tacita chiama direttamente in causa anche quelle parti di noi stesse che, per sofferenze, incapacità, impossibilità, sono rimaste dentro di noi come non elaborate. Faccio qui riferimento alle parole di Lia Cigarini e Luisa Abbà, scritte, in forma anonima, nel Sottosopra rosa del ’76: “L’attenzione, direi la tensione politica, al Collettivo, al suo funzionamento, aveva con violenza negato la parte muta di me, quella che non può e non vuole parlare e che per questo non accetta d’essere descritta, illustrata, difesa da nessuno. Né dal Collettivo né dagli analisti né da quella parte di me che parla. […] Il ritorno del rimosso minaccia ogni mio progetto di lavoro, di ricerca, di politica. Minaccia, o è la cosa realmente politica di me, cui dare sollievo, spazio? […] Il mutismo metteva in scacco, negava quella parte di me che desiderava fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo. C’è stato un cambiamento, ho preso parola, però in questi giorni ho capito che la parte affermativa di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio. Mi sono convinta che la donna muta è l’obiezione più feconda alla nostra politica. Il “non politico” scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra.”[5]

Questo per me significa saper sostare nel vuoto, conoscerne gli spazi, e così lasciarsi vivere tempi e spazi singolarmente umani per articolare questioni, per ascoltare domande e contraddizioni vissute.

Ed ancor più significa che non arriviamo a comprendere la diversità delle altre e degli altri non dando spazio al “nostro” diverso, a ciò che di altro, di non dicibile, di incomprensibile portiamo dentro noi stesse.

 

Ancora una volta entra in campo il concetto di differenza, la differenza dentro di noi rispetto a ciò che di noi stesse/i diamo per scontato. E questo in qualche modo chiama in causa la necessità di un lavoro sul negativo.

 

Si capisce che queste riflessioni sulle zone tacite elaborate dalle femministe negli anni ’60-‘70, e quelle sul negativo proposte dalle filosofe di Diotima[6] sono un piccolo lumicino anche per pensare l’azione politica oggi e le sue zone di rifrangenza con quelle parti di noi che vengono toccate ed intaccate da quel “deteriorarsi del negativo” che, come scrive Luisa Muraro nell’introduzione a La magica forza del negativo è tristemente lo “spettacolo all’ordine del giorno.” Due sono le possibilità secondo Muraro: rimanerne schiacciati o sviluppare la capacità di far decantare il negativo che portiamo in noi per renderlo parte della forza che poi andiamo a porre nelle relazioni e nelle azioni con gli altri.

 

Ma rimane la questione: può essere efficace questa azione se si tace la differenza femminile? Certo esiste il rischio dell’appropriazione al neutro di ciò che le donne fanno e dicono, ed esiste anche quello tanto sottolineato dell’oblatività femminile.

Ma io penso che l’azione femminile possa ricavare in efficacia solo se sa sostare nei territori dell’informe e del tacito. Per quanto questo possa significare anche il soffrirlo come una vera e propria incapacità o impossibilità.

Nel nostro pensiero e nelle nostre azioni il nucleo tacito in qualche modo segnala un sapere che è molto più grande di quello codificabile in parole. La nostra configurazione umana è più ampia, più estesa, dei significati esposti dalla e nella parola, dei tempi stretti e dei significati poveri dettati dalla logica performativa ed “espositiva”delle relazioni di potere. Meglio, la nostra parola assumerà una portata maggiore di senso quanto più essa saprà porsi in ascolto e in risonanza con zone tacite di noi stesse che, di sicuro, sono segno di un intoppo, o di una necessità  di decantazione, o di sonno anche, prima che trovino la spinta per tradursi come fiamma centrale in azioni e idee agite.

 

 

  1. Altropiano. Non c’è divisione nella differenza: conflitti e alleanze con il maschile

 

Quando pensiamo politicamente, il desiderio maschile e femminile sono diversi? Sì e no. Per l’uomo è sempre più facile ricadere o assestarsi inconsapevolmente fra le maglie delle istituzioni, della politica rappresentativa, di quella gestione partitocratrica del bene pubblico (gli uomini più giovani stentano a perdere i loro privilegi, non sembrano mettersi troppo in discussione rispetto ai loro privilegi); mentre per la donna la politica è profondamente congiunta ad elementi che le derivano dalla sfera del personale, proprio per questo sembra che la sua domanda e il suo desiderio di politica risultino poco leggibili. Perché richiedono un altro ordine, un’altra metafisica che ci richiami al senso che diamo alle nostre parole e alle nostre azioni in campo politico. Ma c’è sì un bisogno di confronto, di scambio consapevole.

Sempre di più c’è bisogno di assunzione cosciente della propria singolarità, dei propri bisogni e desideri, di una presa di coscienza singolare nella propria unicità e nella differenza con l’altro/a.

 

Domande consequenziali: in “mare aperto” cosa della differenza maschile porto con me? E dove e quando il mio relazionarmi con gli uomini mi porta ad aprire il conflitto?

Porto con me la capacità sensibile ancora prima che razionale che il maschile ha di porre attenzione al mondo in quanto orizzonte comune. E, in questo senso, unisco al loro il mio desiderio di autonomia e della libertà che ne deriva, che non si riduce a parola o contenitore vuoto quando significa per le une e per gli altri il cercare di trovare un senso e una direzione costruttiva alle proprie parole, al proprio rapporto con le altre e gli altri e con il mondo. Nominando le proprie inesauribili differenze e confliggendo perché così vuole la relazione quando è viva ed è capace di nuova significanza simbolica per situarci e trasformarci all’interno delle relazioni che viviamo.

 

Credo soprattutto che sia necessario lavorare sulle modalità attraverso le quali confliggiamo perché, spesso, la paura del conflitto deriva da queste più che dai contenuti differenti che si possono proporre. Porto un esempio: sembra non siamo più capaci di separarci, di far sì che al dolore o alla sofferenza di una separazione in una relazione affettiva non si aggiungano anche l’incapacità di saper gestire in maniera “umana” il conflitto che necessariamente il momento di crisi porta con sé.

 

Si trovano ora uomini che riescono ad andare al di là dei pregiudizi sulla parola femminismo che, inevitabilmente, hanno e che svelano anche le loro paure (la donna divorante, la madre divorante, la donna che si vuole separata e in contestazione e rivendicazione continua con gli uomini.)

Ma è anche vero che non sempre gli uomini con i quali vivo ritengono necessario parlare della differenza. O meglio, non pensano di ricavare un guadagno relazionale, di consapevolezza e di azione approfondendo le differenti consistenze che il maschile e il femminile comportano.

Mentre io mi rendo conto che, se vivo fino in fondo la relazione con l’altro, non posso fare a meno di portare alla relazione anche tutto quello spazio significante che mi deriva dal mio essere donna. Che non è certo il tutto di me. Non lo è. Ma che è certo un di più della mia singolarità fatta di carne ed esperienza che io porto nelle mie relazioni. E spesso questo non viene riconosciuto nella sua importanza. Questo è frustrante e motivo di dolorosi bacini di incomprensione e contusioni che mi ammutoliscono alle volte o che mi portano allo scontro e al conflitto altre. Dove spesso qualcosa si salva e si trasforma. Altre volte no. Ma questo vuole la posta in gioco dettata dalla chiamata all’autenticità che mi sento di vivere nei rapporti con gli uomini.

 

Ultima questione: oggi non c’è bisogno di separatismo come atto politico. Credo che le giovani donne ricerchino e conoscano la ricchezza insita nello “stare fra donne” in alcune occasioni. Ma la prospettiva politica è mista, è quella di un’azione politica comune.

E’ vero invece che alle volte ci manca il coraggio di separare, di fare ordine simbolico, che può anche significare il perdere qualche cosa, il lasciare andare qualcuno o qualcosa. In un mondo dove tutto cade è molto difficile perdere anche quel poco che si ha, per quanto non soddisfacente.

 

La paura degli uomini va superata aiutandoli, facendo loro vedere che la questione della differenza non ha a che fare con alcuna rivendicazione, contrapposizione o dialettica. Ma indica un filo di relazioni politiche che è necessario trovare, e mettere in atto attraverso pratiche condivise. Per costruire un orizzonte comune movendosi su un altro piano, diverso da quello dei rapporti legati alla forza e al potere. Un piano che è altro dalle gerarchie, dalle disquisizioni e rivendicazioni paritarie, dallo schema semplicistico e immiserente del fine e dell’utile che caratterizza i contatti umani vissuti nella nostra epoca di mercificazione oggettiva e affettiva, con l’impoverimento esistenziale che ne consegue. Questo altropiano ci chiama ed è affare di donne e uomini. Non c’è divisione nella differenza. Nella migliore delle ipotesi ciò che può accadere, dato le nostre irriducibili molteplicità e singolarità, che sono sempre anche al di là del genere, è proprio una agognata e insperata condivisione.

 

 

  1. Estatica: essere viva nella consapevolezza delle mie radici

 

“Agganciare il proprio desiderio all’asse dei poli.”

                                                                                 Simone Weil

 

“Ciò che è più grande nell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo:

ciò che si può amare nell’uomo è il suo essere un passaggio e un tramonto.”

                                                                       Friedrich Nietzsche

 

Fissare in qualche modo il mio desiderio nel nocciolo più vitale nascosto in me, fissarlo in tal modo che gli urti che mi potranno portare in varie direzioni non mi disorienteranno completamente anche se saranno forti. Anche nel naufragio, anche se quel nocciolo alle volte non so dov’è, non lo sento o penso di non averlo o di averlo perso man mano che la vita mi ha segnata. Questo è ciò che Simone Weil mi chiede di fare con la sua perentoria dichiarazione.

 

In questo testo ho parlato molto di frammentazione, di lavoro sul vuoto e sul negativo, di conflitto, crisi. Ma è la stessa finitezza umana, il nostro essere destinati ad un tramonto che mi parla nella frase di Nietzsche. C’è qualcosa in questo che, ad un certo punto, ha orientato la mia vita e credo che il senso del divenire umano ci possa aiutare ora. Noi non viviamo per rimanere fermi sul posto. Ma per non finire, per non deperire, abbiamo bisogno di aprirci a qualcosa d’altro. Per alcuni è dio, per altri la musica o la danza, per altri le relazioni o la politica, oppure un po’ tutto questo messo assieme.

 

E’ così che il senso del mio divenire umano, la mia possibilità creatrice e trasformatrice, di me e di ciò che ho attorno, è ciò che mi porta a vivere nel punto di indistinzione di ogni soglia, anche quella che limita l’illimitato (gli antichi dicevano che il mondo è un tessuto formato dal limite e dall’illimitato….): questo è ciò che muove il mio desiderio, il mio pensiero, questo senza parole, e solo con una metafora che non sa dire, è il mio nocciolo intatto.

 

C’è nella frase di Nietzsche anche il concetto di ponte, di passaggio che sottolinea il nostro essere esseri indissolubilmente relazionali: siamo toccati da tutto, anche se spesso non sembra.

Allora sempre più mi pare ci sia bisogno di costruire un’arte intima, personale e politica allo stesso tempo, di questi confini, di questi passaggi.

 

Porto un esempio: ricordo quando da adolescente smisi di torturarmi l’anima anelando a qualcosa che non vedevo e non sentivo attorno a me e incisi con forza in un taccuino le seguenti righe: “Il paradiso dovrebbe essere in terra, sulla nostra terra.”

Questo, pur non togliendomi un certo disincanto del mondo, mi diede però un senso di “essere parte” e di poter anche “prendere parte”, essere in grado o quantomeno nella condizione di possedere le chiavi per uscire ed entrare dal e nel mio “giardino segreto.”

Il quale non era certo niente di idealistico o di eccessivamente romantico. Anzi, era un luogo bello e buono, tanto arcano quanto reale per me, che fungeva da bacino dove trovare intimità con me stessa e consonanza con il mondo. Respiro anche, e desiderio quanto meno di non far sì che quel luogo rimanesse solo in me. Quel luogo non era solo in me. Non era nemmeno solo un luogo di sogno, per quanto la mia immaginazione si divertisse a giocarci. Quel luogo era tanto reale quanto tutto ciò che era fuori di me. Era come una porta, un passaggio che non mi schiacciava sulle cose, non mi lasciava più persa o in balia di una ricerca di senso che non trovava attorno a me niente che la sapesse soddisfare, placare, tranquillizzare.

Il giardino segreto era mio ma allo stesso tempo non era mio. Il giardino segreto aveva una porta di legno che era chiusa ma anche aperta. Aveva buchi e fessure fra trave e trave. Da poter pregustare da fuori la sua bellezza e, da dentro, tale da far sì che io mi potessi sincerare che niente da fuori, uscendo, mi potesse inaspettatamente travolgere o impaurire.

 

Nel giardino segreto ero spesso sola ma non ero quasi mai completamente sola. Ero dentro di me in una maniera così intima e selvatica tanto quanto ero fuori di me in maniera curiosa e creativa e selvatica. Quel luogo non era un luogo più di quanto non fosse un passaggio, più di quanto non fosse una porta. Ma era un passaggio che mi rendeva ora caro il mondo. E mi faceva come posto. Quando prima l’anelito e la sofferenza della mia anima non avevano che pochi strumenti per salvarmi dal deserto del senso dell’essere adolescente. E di esserlo senza scampo, ogni giorno, ora per ora, minuto per minuto, con la sensazione che la mia pelle bruciasse la mia stessa pelle, come se “il fuori” mi tirasse così tanto l’anima da procurarmi il senso di essere un piccolo grande goffo strano albatros o spaventapasseri arso dal sole.

 

Così, come esistono passaggi, esistono anche urti continui, fra cose, fra persone, fra animali, fra persone e cose, fra sensazioni, fra bisogni, fra il dentro e il fuori di noi, fra l’ambito pubblico e privato ed anche fra il personale ed il politico e la lista che potrei fare qui sarebbe infinita e diverrebbe il simbolo del motore del mondo.

E quando mi sembra che, a causa degli urti, attorno a me tutto vada in rovina, o che, per il deserto del non senso, non accada niente, quando questo sembra fagocitare anche il mio sentimento personale di un’azione possibile, allora ricordo a me stessa che è una falsa apparenza (dovuta ad una lente di visione sul mondo eccessivamente graduata sui registri dell’assoluto, del più grande, del fantasmagorico, dell’eccezionale….) che il generale viva senza il particolare. Non è così: in ogni momento piccole cose si trasformano, altre nascono e altre deperiscono, e io ho imparato che è importante porre attenzione a questi luoghi, perché è solo così che io so che cosa tenere vivo e che cosa lasciare andare, è solo così che non resto schiacciata dal mio “sentimento del mondo”.

 

Il che per me può anche voler dire che il “fare la differenza” non sia un processo così facilmente e subitaneamente esteriorizzabile. La differenza per diventare significante ha bisogno di consapevolezza e di passaggi profondi dentro noi stesse/i.

Ed ancora prima del grande mediatore che è il linguaggio io penso che sia il nostro sentire, il nostro saperci accostare a quelle zone di indistinzione che ci parlano del sonno, dei mondi infiniti dell’immaginazione, dell’irrazionale, del corporeo, delle vibrazioni che ci fanno risuonare con ciò che è fuori di noi, e allo stesso tempo con tutto ciò che del fuori vive dentro noi stesse/i, a “fare” realmente la differenza.

 

Allora, nel “fare” la differenza: non prendere niente alla lettera, nemmeno me stessa. Non costruirmi secondo un’immagine di me. Nemmeno rispetto a ciò che riguarda la mia differenza femminile. Provare a non proiettare sulle altre e sugli altri ciò che dovrebbe parlarmi di me, delle mie paure e dei miei limiti. Anche se alle volte, per mangiare la mela dell’albero della conoscenza questo è inevitabile. Combattere giorno per giorno la mia paura di vivere. Tenermi dentro nel nocciolo intatto, proteggerlo. Uscire da me. Andare, per quanto posso, sempre incontro agli altri e alle altre e al mondo. Sostare nella linea degli orizzonti possibili e con essi conoscere i limiti e i passaggi trasformativi. Con questo sognarmi, sperarmi. E sognare e sperare in mezzo ai cari e alle care vicini e lontani. Giocare con le mie forze al di là di me stessa e come bambina. Restare nel coraggio di essere vita creaturale sempre.

 

 

 

[1]              Conferenza tenuta insieme ad Alessandra Pantano, durante il Seminario di Diotima di quest’anno: 2009/2010, presso l’Università di Verona.

[2]              Lonzi Carla, (1974), Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, p. 20, 21.

[3]              Benasayag M., Aubenas F., (2004) Resistere è creare, tr. It., MC Movimenti Cambiamenti, Milano.

[4]              Weil S., (1954), Attesa di Dio, traduzione italiana di N. D’avanzo Puoti della prima edizione, Roma, Casini; traduzione di O. Nemi della terza edizione, Introduzione di P.B. d’Angelo, Milano, Rusconi, 1972, p.54.

[5]              Cigarini Lia, (1995), L’obiezione della donna muta, in Ead., La politica del desiderio, Pratiche, Parma, pp. 59-60.

[6]              Diotima, (2005), La magica forza del negativo, Liguori, Napoli.