diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Il Taglio del Conflitto

Una contesa filosofica e politica sul senso delle pratiche

Il fare riferimento alle pratiche è uno dei temi più importanti della cultura nata con il femminismo e poi articolatasi in percorsi diversi. Si è parlato e si parla di prassi e di pratiche anche in altri contesti, come il marxismo e la autoregolazione etica della comunicazione, ma sicuramente per la cultura delle donne il fare riferimento alle pratiche è stato avere chiaro che l’attività simbolica non è soltanto affidata alla parola, ma anche a processi molto più ampi, nei quali la parola prende rilievo all’interno di un agire sensato.

Vorrei mostrare come all’interno della cultura nata a partire dal femminismo europeo e anglosassone degli anni ’70, e che poi si è andata trasformando nei decenni successivi, vi siano modi diversi di intendere le pratiche e che tale differenza segnali una diversità di impostazione. Nella cultura espressa dalla politica delle donne in Italia la pratica è stata vista come processo simbolico di significazione della realtà. Nel femminismo di matrice anglosassone le pratiche sono state lette come processi di produzione della soggettività sessuata e contemporaneamente subordinazione della soggettività al linguaggio, secondo la formula della soggettivazione attraverso l’assoggettamento. C’è di mezzo una certa lettura e uso che il femminismo di matrice anglosassone ha fatto, tra l’altro, dei testi di Michel Foucault.

Per questo vorrei qui dare spazio alla differenza tra le pratiche così come sono state intese nel femminismo italiano da un lato e dall’altro la posizione di Foucault sullo stesso argomento, per poi vedere come Foucault sia stato ripreso in modi diversi da testi di pensatrici soprattutto di area di lingua inglese. Per l’incontro e differenziazione tra Foucault e questa area di pensiero rimando agli articoli di Judith Butler, di Jana Sawicki e di Salvo Vaccaro in Michel Foucault e il divenire donna[1].

 

Cos’è una pratica?

 

Una pratica è un processo a cui si dà inizio per dare una risposta inventiva ad un contesto e facendo così lo si modifica. Produce degli effetti che non sono progettabili né prevedibili, ma che si possono cogliere ed apprezzare nel corso stesso del processo.

Porto subito un esempio che mi coinvolge molto perché riguarda gli inizi di Diotima, la comunità di filosofe che è nata nel 1984. Gli inizi possono essere raccontati in molti modi: fare riferimento alla pratica nuova messa in atto ha qualcosa di poco altisonante, ma preciso, concreto e fortemente simbolico allo stesso tempo[2]. Quando Luisa Muraro ce la suggerì, non sembrò così dirompente come in effetti risultò con l’andare del tempo. Si trattava – questa era l’indicazione pratica – di discutere assieme senza mai citare nessuno dei filosofi e neanche delle filosofe che conoscevamo. Nella discussione il nostro riferimento sarebbe stato il discorso delle altre, lì in presenza. La parola dell’altra appena pronunciata avrebbe rappresentato per noi l’autorità, la misura.

Era, se si vuole, una piccola pratica, un niente di speciale, molto semplice. Però bisogna tener conto del contesto. Venivamo, ognuna di noi, da una precisa formazione filosofica: fenomenologia, marxismo, hegelismo, scuola wittgensteiniana ed altro ancora.

Soprattutto all’università ci era stato insegnato implicitamente che avremmo avuto ascolto nel discorso personale soltanto se ci appoggiavamo all’autorità di testi di filosofi che avevamo in qualche modo fatti nostri. Così, nei primissimi incontri a Diotima, finivamo per parlare in qualche modo per interposta persona. Ognuna era se stessa e contemporaneamente Merleau-Ponty o Hegel, Wittgenstein o il fantasma di altro.

Il suggerimento pratico che ci venne dato ebbe nel tempo diversi effetti. Innanzitutto il fare improvvisamente tabula rasa del sapere della tradizione. Con il risultato immediato di sentirci spaesate e di riuscire solo a balbettare qualcosa. Smozziconi di discorso. Intuizioni a pezzetti. Non avevamo più un discorso bello e concluso a disposizione, che potevamo ridire con forza. Andavamo a tentoni. Solo ora mi rendo conto che questo procedere non concluso, che con il tempo è migliorato parecchio dato che ha avuto più tenuta e circolarità, rappresenta una ricchezza perché apre a parecchi spunti di pensiero, che poi singolarmente ognuna di noi ha potuto riprendere nei propri lavori individuali.

L’effetto fu anche un certo sgretolarsi del narcisismo personale: come non trovavamo nell’altra che parlava quella completezza di pensiero che eravamo abituate a leggere nei testi scritti della tradizione così anche a specchio non la trovavamo nel nostro personale discorso. Il nostro io perdeva quella forza immaginaria che ci proveniva dall’impossessarci e teatralizzare i temi e le soluzioni delle grandi filosofie del passato. E questo portava ad una modificazione personale nel fare filosofia.

Soprattutto la pratica suggerita rappresentava la condizione necessaria di una filosofia orale, che non c’era stata per niente insegnata, formate come eravamo solo a ripetere in modo intelligente le soluzioni teoriche di testi scritti e a creare a nostra volta testi pieni di citazioni da altri testi. Filosofia orale in presenza le une delle altre significava che il mio discorso aveva bisogno di riallacciarsi al discorso dell’altra, prestandole molta attenzione. Che non si poteva tornare indietro e cancellare gli errori, ma che anche i miei errori potevano servire all’altra per articolare il suo discorso. E che in genere nessuna era l’autrice dell’andamento complessivo del ragionare in comune, che si snodava in modo imprevedibile.

Come si vede da quel che ho raccontato, la pratica suggerita creava un tessuto di pensiero femminile per il solo fatto che lì eravamo donne soltanto invitate a parteciparvi e a prendere parola solo le une in rapporto alle altre. Il contenuto di tale pensiero era guidato dal riflettere a partire dalla differenza sessuale, ma la pratica creava già la condizione per un pensiero femminile.

Si è trattata dell’indicazione di una pratica molto semplice – fai riferimento alle parole di un’altra presente, invece che a testi scritti -, eppure ha trasformato noi, ha prodotto modi di pensiero diversi, ha creato forme di ragionamento orale in cui il controllo soggettivo non è possibile, sostituito dall’ascolto misurante di un’altra. Si è introdotto un modo di pensare parlando e dunque in un certo senso immediatamente fuori di noi. Non traduzione esteriore di una interiorità individuale, perché già tutto presente nelle parole pronunciate, nel suo andare a tastoni, provando, sentendo le reazioni delle altre e allacciandosi ad esse.

Per quello che ho descritto una pratica dunque viene iniziata da qualcuno per modificare il contesto e poi dà effetti che non possono essere pensati in anticipo, e che sono sempre da valutare. Ad esempio chi insegna sa che si possono contrattare diverse pratiche in aula con le studentesse e gli studenti, e che si impara molto dagli effetti che provocano.

Una pratica, una volta iniziata, viene modificata nel suo andamento da chi vi partecipa. Infatti si presentano imprevisti, elementi nuovi che obbligano a trasformazioni. In altre parole si cambiano le regole di una pratica nel processo stesso e in genere implicitamente, senza dirselo. In questo modo una pratica è un processo aperto, e non un gioco le cui regole siano definite esplicitamente e in modo statico[3].

Un gioco regolato esplicitamente può essere la canasta o gli scacchi. Le regole sono fisse e dichiarate. Se tra due giocatori di scacchi si decide di cambiare la mossa del cavallo, occorre stabilirlo sin dall’inizio e poi la regola resta fissata in questo modo per tutto il gioco. Una pratica è invece quel gioco nel quale, una volta iniziato, possono venire cambiate le regole implicitamente senza che ci sia bisogno di dirselo. Ne è un buon esempio una conversazione a tavola. Ci sono delle regole implicite: non sovrapporsi al discorso degli altri, non dividere troppo la conversazione in gruppi separati quando il numero dei partecipanti non è alto. Se queste vengono contraddette, il gioco non si interrompe, piuttosto perde di felicità. Ci possono essere delle modificazioni: una conversazione che si faccia aspra ha bisogno ad un certo punto che qualcuno dia una regola esplicita convenuta. Ma poi si può tornare senza dirselo al libero gioco.

Nel caso della pratica di filosofia orale di Diotima si è avuto con il tempo la modificazione della regola di non citare nelle nostre discussioni filosofi e filosofe. Abbiamo incominciato a riferirci anche a loro dopo parecchio tempo, senza pattuire in modo esplicito questo cambiamento. La modificazione è avvenuta evidentemente quando c’era sufficiente autorità circolante della parola dell’altra per potere fare riferimento – tra le altre cose – anche a teorie già scritte. Non intaccava più il valore della parola in presenza. Si era radicato uno spostamento simbolico rispetto alla filosofia tradizionale.

Le tecniche – quelle di comunicazione, di gestione manageriale e formativa e così via – sono esempi di giochi regolati. Nascono sì da un contesto di esperienza, ma, a differenza delle pratiche, si ritiene che possano poi essere applicate a qualsiasi contesto e in questo senso vengono insegnate. Una pratica invece nasce come risposta inventiva ad un preciso contesto e si modifica in rapporto alle trasformazioni che avvengono nella situazione in cui è nata. Può essere sì ripresa da altri, ma come possibile suggerimento per cogliere i germi di trasformazione di un altro contesto.

E poi la differenza tra una tecnica e una pratica è grande soprattutto per questo: le tecniche sono considerate degli strumenti per ottenere dei risultati. Le pratiche sono delle vie di modificazione di sé e della realtà, le due cose intrecciate assieme, dato che siamo coinvolte nel processo che abbiamo avviato.

Inoltre le pratiche hanno il valore di portare a significazione aspetti della realtà che prima non erano visti. In questo senso sono simboliche. Questo è un aspetto che non appartiene alle tecniche, che sono strumenti di gestione della realtà.

 

Il riferimento alle pratiche nella politica delle donne in Italia

 

Nella politica delle donne in Italia il riferimento alle pratiche è stato molto esteso.

Le pratiche vengono qui prese in considerazione in quanto politiche. Perché politiche?  Perché le si intende come processi che modificano la personale relazione che si ha con una situazione, e dunque sono considerate una prassi che trasforma in questo modo il contesto stesso. Inoltre perché sono viste come apertura di uno spazio pubblico sostenuto dalla partecipazione di più donne. Non vengono prese in considerazione pratiche fatte per sé, in solitudine e invisibilità: le relazioni con le altre in questo agire sono fondamentali, anche se ognuna parte da sé nel mettersi in gioco nel processo con le altre.

Un testo che ha descritto la storia di alcune pratiche del movimento politico delle donne è stato Non credere di avere dei diritti della Libreria delle donne di Milano[4].

Un aspetto che vorrei mettere in evidenza attraverso questo libro è il fatto che l’invenzione di pratiche è vista sempre costantemente in rapporto alla situazione storica che in un certo periodo si era venuta a creare tra donne.

Ad esempio la pratica dell’autocoscienza fu la ripresa di una pratica inventata negli Stati Uniti. Consisteva nel separarsi in tutte le situazioni pubbliche dagli uomini per discutere tra donne e ampliare la coscienza e autoconsapevolezza che si aveva sui rapporti con gli uomini e sui legami con la madre e le altre donne[5].  A questa si affiancò, senza sostituirla, la pratica dei rapporti tra donne[6]. Nel libro viene descritto il tramonto molto lento della pratica dell’autocoscienza per lo spegnersi nella ripetizione, il suo esser affiancata dalla pratica del fare, e l’invenzione della pratica dell’inconscio, che visse però solo per pochi anni (1974-’75)[7]. Mi fermo qui. Già quel che ho riportato è sufficiente per mettere in evidenza tre aspetti molto importanti. Il primo aspetto è che una nuova pratica non scaccia l’altra, ma ne possono convivere molte. Anche: una pratica nasce per le esigenze avvertite dalle donne in quel contesto, ma può anche esaurire la sua forza trasformativa e politica. Scompare quando non ce ne sia più la necessità. Infine: nella politica delle donne la misura di una pratica  è la risposta creativa che essa rappresenta rispetto alle esigenze di un contesto.

 

Michel Foucault tra tecnica e pratica

 

Per descrivere in che senso Foucault parli di tecniche come pratiche regolate  ripetibili che perseguono uno scopo preciso, mi rifaccio in particolare a Tecnologie del sé. Si tratta di un testo che raccoglie alcuni suoi articoli del 1982, nei quali, pur proseguendo la sua ricerca sulle pratiche come dispositivi di potere e sapere già iniziata nei testi degli anni ’70, sposta l’accento sul processo di soggettivazione che emerge dal sottoporsi a pratiche regolate.

Un esempio sul quale lavora sono le tecniche stoiche di cura di se stessi, di scrittura di sé, che rappresentano una vera e propria costruzione della soggettività, attraverso l’assoggettarsi a regole prescritte.

Riporta a questo proposito una lettera di Marco Aurelio al maestro Frontone del 144 dopo Cristo, nella quale Marco Aurelio descrive la sua giornata in modo minuzioso e soprattutto dichiara che alla fine della giornata ha controllato tutto l’agire del giorno alla luce delle regole che il suo maestro gli aveva dato. Regole precise e fisse. La stessa lettera al maestro è una forma di resoconto di fedeltà alla pratica[8].

Si tratta dunque non tanto di un processo che inizia in rapporto ad un contesto, per rispondere alle sue esigenze, modificandosi con il tempo, quanto di tecniche da ripetere sempre identiche, che rappresentano modelli di comportamento, a cui la soggettività si sottopone liberamente per ottenere un certo tipo di stile di vita, che è ritenuto di valore.

Tecniche sono qui “regole e pratiche necessarie perché un’azione raggiunga il suo scopo”[9]. Sono identiche in situazioni diverse ed infatti si ritrovano con una impostazione simile nelle lettere di Seneca a Lucilio: medesimo lo scopo, ripetute fino alla noia le strategie.

Il cristianesimo monastico ne proporrà di nuove e di altre, ma con lo stesso stile di controllo regolato sulla vita da precetti ripetibili per ottenere un certo tipo di soggettività attraverso l’ascesi, ovvero il rinunciare a certi aspetti di sé per modellarsi secondo, ad esempio, il precetto dell’ora et labora almeno nell’ordine benedettino.

L’idea che solo attraverso l’interiorizzazione dei precetti vi sia costruzione della soggettività era presente anche nei suoi primi lavori sulle pratiche discorsive e di potere, scritti negli anni ’70, soltanto che nei lavori precedenti l’insistenza era sull’assoggettamento.

Penso ad esempio ad un testo come L’ordine del discorso (1970) nel quale descrive le grandi procedure di assoggettamento del discorso come l’insegnamento, il sistema giudiziario, l’istituzione della medicina. In ognuno di questi sistemi «la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli»[10]. Parlare in queste istituzioni significa sottomettersi a tali procedure, pena l’esclusione o il cadere nella partizione tra sanità e follia.

Lavorando in modo archeologico, cioè ricostruendo la genesi storica delle pratiche di assoggettamento-soggettivazione, un aspetto originale del pensiero di Foucault è stato di ridefinire il potere non come un bene che si può possedere, distribuire e cedere, né come una funzione repressiva. Al contrario: non si può parlare di potere in astratto, ma di dispositivo di potere che qualsiasi pratica rappresenta, per cui c’è un proliferare di pratiche che costituiscono una molteplicità puntiforme e orizzontale di assoggettamenti. Le molteplici e proliferanti pratiche di potere producono comportamenti, stili di vita, costruendo soggettività.

Lo si vede bene in due testi chiave di Foucault: Sorvegliare e punire e La volontà di sapere. Nel primo viene detto che la disposizione dei corpi nelle carceri – e nelle grandi scuole dell’’800 che assomigliavano a penitenziari – avevano come effetto una modificazione dell’anima. Ovvero il segregare il corpo, l’isolarlo, il dargli una posizione fissa aveva lo scopo di formare un certo tipo di soggettività. In questo senso le pratiche punitive non erano repressive ma produttive di soggettività[11].

In La volontà di sapere mette a fuoco in particolare la pratica della confessione. Viene formalizzata con il Concilio Laterano nel 1215. Sostituisce le pratiche legate al giudizio di Dio. È fondamentalmente una pratica discorsiva che, sul presupposto di stare in un rapporto introspettivo con la verità della coscienza, finisce per produrre discorsi molteplici, in particolare legati alla sessualità[12].

L’idea di Foucault è che il potere non sia repressivo nei confronti della sessualità, bensì provochi la produzione di discorso che la riguarda. È la confessione la pratica discorsiva più significativa nel creare la sessualità come questione.

Si vede come in entrambi i testi si tratti di tecniche di potere. Ed effettivamente di tecniche di potere Foucault ha continuato ad occuparsi per tutti gli anni ’70. Di questo è stato criticato, anche da diverse pensatrici. La sua risposta a questa critica è stata di due tipi.

La prima risposta punta sul fatto che con il suo lavoro intellettuale dà alle persone la possibilità di sapere in quali processi siano coinvolte e permette nel discorso stesso di operare una resistenza attiva al potere: «Il mio ruolo (..) è quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino vero ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determinato momento della storia, sicché quella presunta evidenza può essere sottoposta a critica e distrutta. Produrre un qualche mutamento nella mente delle persone: questo è il compito dell’intellettuale»[13]. Si tratta comunque di resistenza locale, cioè che nasce dall’interno e contro precisi dispositivi. In questo senso Foucault stesso ha preso parte a lotte in Francia contro l’istituzione delle prigioni.

La seconda risposta la si trova in una bella intervista intitolata L’etica della cura di sé come pratica della libertà (1984), dove ricostruisce il suo lavoro che è stato di mettere a fuoco pratiche di dominio, di coercizione, come le prigioni, la clinica etc., e poi, in un momento successivo, pratiche di cura di sé, di libertà come abbiamo visto in Tecnologie del sé  quando parla delle pratiche stoiche e cristiane[14].

E tuttavia anche in questo secondo caso l’osservazione che gli si può fare è che le pratiche stoiche e cristiane, se pure scelte liberamente, tuttavia – nella descrizione che egli ne dà –  rispondevano allo stesso processo di assoggettamento per la costruzione della soggettività. E dunque anch’esse pratiche discorsive di potere, se pure volute da chi vi si assoggettava.

 

Intrecci con il pensiero di matrice femminista angloamericano

 

Gli intrecci del pensiero di Foucault con le teorie di matrice femminista ci sono e sono state mostrate in diversi testi[15].

Uno dei punti più importanti di scambio con Foucault è stato proprio il concetto di genere così come è stato elaborato e interpretato in area anglosassone da parte delle pensatrici femministe. Per mettere in chiaro questo mi rifaccio al testo di Judith Butler Scambi di genere del 1990 che dà conto di tale intreccio e allo stesso tempo prende una posizione personale che è una rielaborazione di alcuni aspetti delle teorie femministe statunitensi e del pensiero di Foucault. Gli autori a cui Butler si rifà espressamente sono oltre a Foucault, Derrida per gli aspetti performativi del linguaggio, Kristeva, Witting[16].

Butler riprende da Foucault il fatto che le pratiche discorsive, quelle che Foucault descriveva in  L’ordine del discorso e negli altri testi successivi, sono pratiche di sapere e potere al medesimo tempo. La teoria femminista del genere ha sostenuto che essere donna o uomo è effetto di tali pratiche discorsive. Di conseguenza l’identità di genere è risultato di una costruzione linguistica di potere per la quale si assume un certo sapere dell’essere donna.

Butler dimostra, sulla scia di Foucault, che la distinzione tra sesso e genere, cioè tra dato naturale e costruzione culturale, è un effetto stesso della pratica discorsiva. Il sesso è prodotto dalla pratica discorsiva tanto quanto il genere, soltanto che le cose sono descritte in modo tale che il sesso appaia come naturale[17]. Mentre tutto in un certo senso è linguistico.

Butler marca una differenziazione da Foucault nella strategia politica. A me pare solo parzialmente. Vediamo. Foucault distingue, nello scritto del 1984 citato, le pratiche di dominio dalle  pratiche di libertà come quelle della cura di sé. Affida l’agire politico nei confronti delle pratiche di dominio alle lotte locali, alla resistenza – ad esempio nelle carceri – rispetto alle pratiche istituzionale. Mentre le pratiche di libertà hanno già in sé un elemento di volontà libera (Marco Aurelio si sottomette liberamente ai precetti di Frontone). In realtà la critica che si può portare a Foucault è che i precetti sono ripetitivi ed egli non dà la possibilità interna di modificarli. Mantengono in questo senso la fissità delle tecniche, e sono ben lontani dall’essere un processo aperto.

Butler riprende le pratiche discorsive come pratiche di potere, ma segnala la differenza da Foucault sul fatto che esse producono effetti linguistici di potere sì, ma non in modo deterministico. Essere costituita dal discorso come donna, come lesbica, come qualsiasi cosa,  non equivale ad essere determinata dal discorso[18]. Da qui la strategia politica di Butler consiste nell’allargare le possibilità del linguaggio come hanno fatto le minoranze gay e lesbiche parodiando in una specie di pastiche il linguaggio etero, gay e quant’altro. Per sottrarre così il linguaggio alla sua normazione sessuata. Mostrando giocosamente l’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato[19]. In questo modo «il soggetto impantanato culturalmente negozia le proprie costruzioni [identitarie], anche quando queste ultime sono i predicati stessi della sua identità»[20]. Lo stesso genere viene così decostruito e reso ridicolo. La lotta interna al linguaggio era invece detta da Foucault così in L’ordine del discorso: «Il discorso non è ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui e attraverso cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi»[21]

La strategia politica di Butler in realtà è analoga a molti testi femministi sul genere, che, partendo dalle pratiche discorsive di potere che costituiscono le identità sessuate, rivendicano la possibilità di negoziare il significato stesso di tali identità in senso storico e processuale. Di allargare in altri termini la potenzialità del linguaggio. Se pure senza arrivare ad una disseminazione semantica così radicale come quella di Butler. In questo contesto Butler è importante perché si confronta con più lucidità con il concetto di pratiche discorsive di Foucault, Che pure sono ampiamente riprese e fatte proprie all’interno del dibattito sul genere.

 

Un confronto

 

Come si vede le pensatrici americane hanno portato proprio al centro del loro dibattito le pratiche discorsive. Esse costituiscono il segno dell’oppressione: essere dette donne in modo che non corrisponde alla singolarità. Il conflitto e la negoziazione sono interni al linguaggio.

Una parte della cultura femminile statunitense si è spostata dalla attenzione al genere a quella sulle tante identità che costituiscono una donna, tanto che il termine generico “donna” non è più il nome adeguato per darne conto. Un percorso e uno spostamento emblematico in questa direzione è quella di Adrienne Rich da Segreti, silenzi, bugie e il mondo comune delle donne a Lo spaccato alla radice, nel quale la sua identità lesbica, ebrea, yankee convivono malamente e con fatica e non possono essere semplificate nell’identità femminile[22]. Questo slittamento dal genere al proliferare delle identità in realtà ha come passaggio di pensiero fondante sempre lo stesso: chi io sia è fondato da pratiche discorsive con le quali mi trovo a fare i conti. Ma le identità che Rich si riconosce sono molte e non sintetizzabili nel linguaggio.

Dunque il punto di partenza sono le pratiche discorsive già date che si ripetono e che formano culturalmente un mondo. Abbiamo visto la via politica proposta da Butler in Scambi di genere: quella di far proliferare ancora di più il linguaggio, ampliandone ironicamente i nomi, le potenzialità fino a farne vedere il fatto che è solo linguaggio arbitrario, convenzionale, che non c’è realtà fuori di esso. E che nel linguaggio si può contrattare, mentre si ironizza sui nomi già dati.

Se devo confrontare questa centralità data alle pratiche e il modo di intenderla con la centralità data alle pratiche nel movimento politico delle donne in Italia, la differenza è profonda[23].

Il presupposto culturale che ha fatto da sfondo al dibattito politico in Italia è che si vive a partire da consuetudini non scritte che sono sì linguistiche, ma anche soprattutto non linguistiche. Esse rappresentano un habitus di pratiche consuetudinarie che abbiamo ereditato e che in genere finiamo per non vedere[24].

Su questo sfondo l’atto politico è di introdurre un gesto imprevisto, che ha il doppio effetto di portare a visibilità le pratiche abituali, in forma critica, e contemporaneamente dare spazio ad un agire nuovo in sintonia con l’orientamento del contesto.

Porto un esempio che mi sembra molto efficace per questo doppio aspetto, anche se non proposto da donne. Nel penultimo anno del suo pontificato Giovanni Paolo II aveva invitato i cattolici a spartire con i mussulmani almeno l’ultimo giorno della pratica del ramadàn, che in quel periodo cadeva a fine novembre, digiunando. Con l’invito a questa pratica venivano significati alcuni aspetti della realtà: l’ecumenismo, la possibilità di spartire il divino a partire da religioni diverse, la disposizione del corpo – in questo caso il digiuno – come partecipazione allo spirituale. Era una pratica conflittuale nei confronti delle consuetudini date, per le quali ogni religione ha i propri i riti e ogni gruppo di fedeli si riconosce solo nei suoi. C’era questo aspetto di critica sì, ma  anche contemporaneamente una vera e propria invenzione che apriva un altro modo inaspettato di stare in rapporto al divino: vi si può accedere anche attraverso pratiche di altre religioni. Ed inoltre mostrava quel punto essenziale di una pratica, per la quale la disposizione dei corpi ha effetto d’anima. Lo sapeva bene Simone Weil quando descriveva l’effetto d’anima diverso della musica ascoltata al concerto, se la si sentiva in piedi, scomoda, o seduta e rilassata. A seconda di come è disposto il corpo, l’anima si trasforma.

Le pratiche politiche delle donne in Italia sono nate come risposta alla necessità del reale, del quale si partecipa. Quanto più sanno dare espressione a tale contesto, tanto più sono creative. E – non a caso – con la modificazione di un contesto, si stemperano e perdono mordente. In questo senso le ho chiamate simboliche: con esse significhiamo il reale. La politica delle pratiche discorsive considerano invece che tutto avvenga nel linguaggio.

E questo è un altro punto che differenzia profondamente le pratiche politiche in area italiana e quelle in area anglosassone: il rapporto con il reale. Da Butler e da altre pensatrici del genere e della decostruzione dei generi di area anglosassone tutto avviene nel linguaggio. Una realtà prediscorsiva è messa in dubbio, la differenza tra sesso e genere sfuma. Inoltre è accolta senza residui la dimensione convenzionalista del linguaggio.

Naturalmente anche in area di riflessione italiana tutto avviene nel simbolico, tuttavia rimane aperta la questione del reale, come ciò che sposta i limiti del linguaggio, come ciò che ne è eccedenza, come quel che si impone come perturbante nel movimento di trasformazione stessa del simbolico e nei conflitti, che esso apre. Si tratta di un altro modo di intendere il rapporto tra linguaggio e reale, senza assumere una posizione realista dei fatti. Non si tratta di positivismo, ma di aprire la questione del reale, come qualcosa per il quale non ne va solo del linguaggio.

Le pratiche sono allora il punto di emergenza di tale rapporto. L’elemento imprevisto del reale è accolto dalle pratiche per il fatto che esse sono un processo aperto. Si tratta di azioni intese come praxis  e non come poiesis, dove poiesis indica un fare che risolve completamente le proprie potenzialità nell’atto. La pratica invece è un agire nel quale l’elemento di potenzialità, di latenza, di non risolto in opera finita, è presente e ne permette la capacità dinamica. La dimensione trasformativa, che il reale agisce, è affidata dunque al potenziale d’azione – la latenza – in rapporto dialettico con l’azione in atto. Agire non è mai qualcosa che si conclude definitivamente, perché altrimenti non sarebbe più processo e il reale ne sarebbe effettivamente escluso invece di costituire la leva di modificazione.

Altra grande differenza rispetto alle pratiche politiche in area anglosassone è che non viene preso come misura dell’agire soltanto il potere ma anche l’autorità. In questo senso penso che l’influenza di Foucault su gran parte della letteratura femminista di area anglosassone sia stato deleterio: avendo parlato di pratiche di potere, la misura del potere è rimasta segno indelebile nel dibattito sulle pratiche che si rifaccia ai sui testi.

Nel dibattito italiano è stato introdotta, se pure accompagnato da discussioni anche aspre, l’idea della figura simbolica dell’autorità accanto a quella del potere[25]. Autorità come capacità di far crescere una situazione accompagnandola nelle sue potenzialità. Le pratiche non sono più misurate soltanto sul potere. Ciò ha come conseguenza che la posizione politica delle donne non è sempre e solo una risposta conflittuale e di negoziazione all’interno di codici dati, ma può essere anche creativa di situazioni nuove.

 

 

 

 

[1]              Cfr. Salvo Vaccaro e Mario Coglitore (a cura di), Michel Foucalt e il divenire donna, Mimesis, Milano 1997.

[2]              Sui primi inizi di Diotima si legga Luisa Muraro e Chiara Zamboni, Cronaca dei fatti principali di “Diotima”, in Aa.Vv., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, pp. 175 – 184.

[3]              Sui giochi le cui regole sono implicite e in trasformazione e quelli le cui regole siano esplicite e fisse si veda anche Ludwig Wittgenstein, Ricerche filsofiche, trad. it. di Renzo Piovesan e Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1967, pp. 48 – 49. E Gregory Bateson, Una teoria del gioco e della fantasia in Id., Verso un’ecologia della mente, trad. it. di Giuseppe Longo e Giuseppe Trautteur, Adelphi, Milano 2003, pp. 218 – 235.

[4]              Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

[5]              Cfr. ivi, pag. 32.

[6]              Cfr. ivi, pag. 46.

[7]              Cfr. ivi, pag. 48.

[8]              Cfr. Michel Foucault, Tecnologie del sé, trad. it. di Saverio Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 24 – 26.

[9]              Michel Foucault, La cura di sé, trad. it. di Laura Guarino, Feltrinelli, Milano 1985, pag. 21.

[10]            Michel Foucault, L’ordine del discorso, trad. it. di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1972, pag. 8.

[11]            Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, trad. it. di Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino 1993, pp. 26 – 27.

[12]            Cfr. Michel Foucault, La volontà di sapere, trad. it. di Pasquale Pasquino e Giovanni Procacci, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 54 – 70.

[13]            Cfr. M. Foucault, Tecnologie del sé, cit., pag. 4.

[14]            Cfr. Michel Foucault, Archivio Foucault n. 3, trad. it. di Sabina Loriga, pp. 276 – 277.

[15]            Si veda anche Rosi Braidotti, Dissonanze, trad. it. di Elvira Roncalli, La Tartaruga, Milano 1994, pp. 41 – 58, e Susan Hekman (a cura di), Feminist interpretations of Michel Foucault, The Pennsylvania State University, Pennsylvania 1996, in particolare gli articoli di Nancy Fraser e di Nancy C.M. Hartsock.

[16]            Queste sono le fonti che lei riconosce espressamente nella nuova introduzione del 1999, accostandole a Lévi-Strauss, Lacan, Irigaray e pensatrici statunitensi come Gayle Rubin e Esther Newton. Cfr. Judith Butler, Scambi di genere, trad. it. di Roberta Zuppet, Sansoni, Milano 2004, pag. XIV. Su Butler e su questo testo si può leggere Jean Grimshaw, Politica, parodia e identità, in Paola Bono (a cura di), Questioni di teoria femminista, La Tartaruga, Milano 1993, pp. 200 – 208.

[17]            Cfr. J. Butler, Scambi di genere, cit., pp. 9 – 11.

[18]            Cfr. ivi, pag. 206.

[19]            Cfr. ivi, pp. 209 – 211.

[20]            Cfr. ivi, pag. 206.

[21]            M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., pag. 10.

[22]            Cfr. Adrienne Rich, Segreti, silenzi, bugie. Il mondo comune delle donne, trad. it. di Roberta Mazzoni, La Tartaruga, Milano 1982, in particolare pp. 143 – 158 e Adrienne Rich, Lo spacco alla radice. Sources, a cura di Liana Borghi, Estro, Firenze 1985, pp. 7 – 28.

[23]            Su una ricostruzione della posizione italiana, francese e statunitense nel femminismo si legga Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in Franco Restaino e Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999, pp. 138 – 157.

[24]            Si tratta di habitus, insieme di abitudini, consuetudini nel senso in cui ne parla Pierre Bourdieu in Pierre Bourdieu, Per una teoria della pratica, trad. it. di Irene Maffi, Cortina, Milano 2003, pp. 206 – 233.

[25]            Cfr. Aa.Vv., Diotima. Oltre l’ugauglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995.