diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Tutto cade: come mantenersi in bilico nella contemporaneità

Il 23 novembre 1980 io avevo sei anni. Quella sera ero al mio tavolino che cercavo di familiarizzare con la scrittura, mia madre mi stava parlando della cena. All’improvviso la vedo abbracciare la libreria a scaffali che aveva preso a muoversi e gridare allarmata: «Il terremoto! Il terremoto!». «Ecco – pensai – che bello! una parola nuova», da inserire nel quaderno che avevo davanti. «Che cos’è il terremoto?» domandai allora a mia madre, la quale, cercando di tenere fermo lo scaffale pieno di libri e giocattoli in movimento mi disse: «Questo! Questo è il terremoto!». Nessuna spiegazione mi fu più chiara di quella.

 

Quella notte molto cadde nella mia città, a Napoli. Tutto cadde nell’avellinese. E quel terremoto e la ricostruzione che ne seguì realizzò quello che altrove aveva fatto l’industrializzazione: un radicale stravolgimento degli usi e costumi locali, la rottura di un mondo rurale e contadino che per molto tempo aveva seguito lo stesso corso, lo stesso andamento secolare. Un processo descritto da Giovanni Iozzoli nel romanzo “I terremotati” edito da Manifestolibri: «a un certo punto la libertà dei moderni, col suo enorme carico di sofferenze e nevrosi, aveva fatto irruzione anche sulla scena quotidiana dei semplici, degli umili. E quello che succedeva in quell’angolo sperduto di Campania, stava contemporaneamente accadendo dappertutto – nelle steppe, nelle giungle, negli slums e nelle isole – e nessuno poteva fermare o accelerare questa roba qui, che era come l’acqua e come il vento, si infilava negli interstizi, nei fori anche minuscoli delle consuetudini e degli ordini costituiti, passava sopra, sotto e attraverso, e non era né bene né male, era quello che era e nessuno ci poteva fare niente» (p. 97).

 

Utilizzo la metafora del terremoto per indicare il crollo dell’ordine simbolico, politico, economico patriarcale e per evocare il senso di precarietà estrema che ne deriva. Certo, il crollo dell’ordine delle cose, è evento umano, non naturale, pure sembra anch’esso prescindere dalla volontà dei singoli.

Di questa crisi dei vecchi ordinamenti – che qualcuno ha chiamato progresso – le donne si sono in passato ampiamente avvantaggiate, l’hanno in parte provocata, invadendo la società, la politica, la storia. In Amiche mie isteriche Angela Putino così descrive l’irruzione della popolazione femminile nella scena pubblica e nella storia tra Sette e Ottocento:  «si potrebbe considerare la differenza sessuale come una popolazione che fa incursione in un ambiente e vi si distribuisce, quasi senza una forma prestabilita rispetto alle materie con cui entra in contatto, cosicché lo spazio si suddivide secondo il modo in cui tale molteplicità si spande in esso e questa si moltiplica negli ambienti in cui si muove. Libertà possibile di un divenire molteplice che non scaturisce da un’interiorità – germe – ma da una diversificazione attivata: differenza come scambio prodotto in una zona di movimento tra esterno e interno» (p. 20)

 

Un crollo apre sempre ad un cambiamento radicale, apre spazi nuovi, alla possibilità che mondi nuovi si schiudano, relazioni si intreccino, altri contesti si configurino. Sotto questo aspetto la ‘precarietà’ legata all’esperienza del crollo presenta elementi creativi, positivi: permette alle identità di riformularsi e rimanda alla fragilità del Sé e delle sue relazioni. Non c’è niente di dato una volta per tutte. Le perdite e i lutti costellano le nostre vite esattamente come le gioie e i guadagni.

Questo lo sa bene chi vive in una città alle pendici di un vulcano, costruita su una pietra porosa come il tufo giallo e il nome del cui castello più bello – castel dell’Ovo – deriva da un’antica leggenda secondo la quale il poeta latino Virgilio – che nel medioevo era considerato anche un mago – nascose nelle segrete dell’edificio un uovo che mantenesse in piedi l’intera fortezza. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche il crollo della città di Napoli. Dunque un insieme incredibile di relazioni, un brulichio di vite, di incroci, di rapporti economici, politici, personali, di umori e odori – come la città – si fonda su una cosa così fragile come un uovo.

Qualcosa della precarietà, dell’instabilità sembra di particolare interesse per le donne, che negli squarci dell’ordine simbolico maschile dalla fine del Settecento si sono inserite, causandoli o radicalizzandoli. Un crollo rappresenta dunque sempre un trauma, una ferita. Ma da questo trauma, dalla sventura (Weil) che ne consegue, può darsi un nuovo avvio, qui può accadere l’impersonale (Putino), da questa frattura si apre a un impensato (Muraro).

È qualcosa, il crollo, che si presenta all’improvviso, proponendo una situazione di pericolo estremo: non è detto infatti che si sia capaci di trasformarsi, di ritrovarsi in forme nuove, in relazioni diverse, ci si può anche perdere senza più ritrovarsi. Per ora noi ci troviamo nel momento della caduta, ancora non si capisce cosa ne verrà, ancora non sappiamo se sapremo cogliere questa apertura, se sapremo agire con libertà, se sapremo sostenere questo passaggio dalle molteplici possibilità.

 

Si fa un gran parlare del sentimento della precarietà come di un sentimento diffuso, comune soprattutto alla mia generazione (ho trentacinque anni). La precarietà viene spesso ricondotta ad un fattore economico da cui deriverebbe il senso di incertezza che pervade tutte le altre sfere dell’esistenza. Durante la scuola della differenza a Lecce, ha parlato una donna di 35 anni: questa donna aveva la voce affannata mentre raccontava di sé, di come anche dopo aver ottenuto l’ambito “posto fisso” nella scuola lei continui a sentirsi ‘precaria’, quasi che l’essere precaria fosse divenuta una condizione dell’anima e non più un sentimento legato a condizioni materiali e lavorative. Lei vedeva in questo un’esperienza profondamente negativa che accomuna tutta una generazione di persone.

Forse conviene analizzare più a fondo cosa si intende per precarietà dal momento che si tratta di un concetto assai ampio. La parola viene da prex, preghiera, e vuol dire ottenuto per concessione altrui, che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente. Per estensione indica dunque ciò che ha poca durata, è instabile, temporaneo.

La precarietà (riferita spesso all’esistenza, si parla di precarietà, fragilità dell’esistenza) è un concetto di lunga tradizione filosofica ma anche religiosa, ed è stato utilizzato spesso per caratterizzare la dimensione fragile ed impermanente dell’umanità, la sua dipendenza da una dimensione ulteriore – spiegabile o inspiegabile che fosse, definibile o indefinibile che fosse. Com’è che questo concetto ci è divenuto oggi insostenibile? E com’è che il significato di questa parola, così ampio, è stato appiattito solo sull’ordine economico?

In realtà l’ordine simbolico serviva proprio a dare struttura alle paure e alle ansie di un’umanità precaria, appunto, a dare forme e contenimenti alla infinita possibilità di cambiamento che investe noi umani, uomini e donne. Da questo punto di vista, potremo gioire della caduta di queste barriere consolidate solo se saremo capaci di definire nuovi confini, nuove forme, non precedentemente date, ma da noi oggi stabilite. Dobbiamo divenire capaci di un’arte della libertà, di dare nuove forme alla libertà, di forare l’unico simbolico rimasto – quello dell’economia neo-liberale – ma senza precipitare in un abisso.

 

Credo sia chiaro che il mio discorso di approfondimento del tema della precarietà si distingue dalla retorica della flessibilità proposta da alcuni economisti liberali che esaltano la possibilità di non legarsi tutta la vita ad un’unica attività lavorativa, ad un unico luogo, ad un’unica identità. Spesso chi sostiene questi argomenti – nella migliore tradizione dell’ideologia liberale – ha le spalle ben coperte e cerca di spacciare per naturale o necessario un ordine (o disordine) che è invece frutto di determinate condizioni storiche.

Pure questa retorica coglie qualcosa del desiderio e della libertà, del godimento che c’è nell’essere precari, ma solo per nascondere quanto di tragico e rischioso c’è dentro la precarietà lavorativa, per alimentare un’ideologia dell’imprenditoria di sé che ottunde ogni capacità critica e non permette di distinguere la libertà autentica dalla parvenza di libertà. Bisogna infatti distinguere tra libertà e libertà, tra desideri e desideri. In un regime di imprenditoria di sé si viene in contatto solo con una parvenza di libertà che fa presa soprattutto sulle donne: si ha l’impressione avendo acquisito degli oggetti desiderati, partecipando ad una eterna formazione, rinunciando a distinguere tra tempo di lavoro e tempo per sé, di aver guadagnato in libertà, si ha l’impressione di far parte di qualcosa, di ‘valere’, solo perché si ha un ruolo dentro il nuovo simbolico dell’imprenditoria di sé. Ma quanto si perde sulla strada della imprenditoria di sé! E infatti, quando tutto sembra funzionare, si avverte un senso profondissimo di vuoto, come un meccanismo che funziona in automatico, senza una sorgente da cui alimentarsi. C’è un desiderio senza oggetto, un desiderio puro, un desiderio di Sé, un desiderio dell’impossibile che nasce da una passione per il reale e poi c’è un desiderio su cui fa presa il neoliberismo, che è una proliferazione di desideri oggettuali, di adesione ad infiniti attaccamenti, modelli stereotipati, che finisce col produrre un senso di svuotamento e di mancanza.

 

Il neo-liberismo favorisce ovunque l’inclusione delle donne nella società. Le competenze femminili, soprattutto riguardo alla riproduzione e alla cura del vivente, vengono valorizzate sempre più. Viene premiato un funzionare, un adattarsi ad ogni situazione, una valorizzazione a tutto campo di sé, del proprio corpo, delle esperienze, delle relazioni, viene assorbita la capacità femminile di tenere insieme gli elementi più disparati del quotidiano, un certo dono per la concretezza e per l’’oikonomia’. Più che una stanza tutta per sé, sembra mancare oggi un tempo tutto per sé, dove per sé non s’intende il piccolo ego individuale, ma quello spazio della singolarità che può venire attraversato dall’impersonale. Sembra di non averne più di tempo, ch’esso si consumi, nel vortice ininterrotto della consunzione di sé e delle relazioni. Anche queste ultime sembrano prese nella stretta neoliberista: l’amicizia è messa a lavoro, le relazioni tra donne sono messe a lavoro.

Speriamo allora di partire dal vuoto, dalla mancanza, dal dolore che questa situazione produce, dal senso di spaesatezza che si prova davanti a una vita non avvertita come propria, come vera, dall’assenza di mondi, di contesti. Occorre avere la capacità di fermarsi, interrompere la corsa, partire dalla posizione temibile delle donne nel neoliberismo e nel biopotere, per riattivare desideri interrotti, rigiocare libertà femminile. Da qui nasce il desiderio di una nuova ondata di femminismo (un’ondata che coinvolga donne e uomini), di una ricerca comune, esplosiva, gioiosa, di tempo per sé e per le relazioni, per desiderare, ancora una volta, l’impossibile.