diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 1 - 2003

Visibile e invisibile

Tra visibile e invisibile

Parlo dell’ultimo libro di Diotima intitolato Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione (Liguori, Napoli 2002). Mi piacerebbe che qualcuno riprendesse i temi del libro a partire da queste riflessioni. So che scrivendo queste note ho dialogato tra me e me con donne e uomini che il libro l’hanno letto e hanno trovato il modo di parlarcene in modo attento. Per me questo è stato un orientamento prezioso.

Accettando la provocazione di Carla Lonzi ad approfittare della assenza delle donne da duemila anni di storia, ci siamo trovate a fare i conti con la storia e con la tradizione a partire dalla esperienza femminile. Nostra e di altre.

Tradizione: le generazioni passate hanno creato saperi e comportamenti. La tradizione è ciò che ci viene trasmesso di questi saperi e pratiche.

Nel nostro libro la questione della tradizione è affrontata in particolare in due testi. Uno è Tabula rasa di Annarosa Buttarelli. Fare tabula rasa significa sospendere il riferimento a testi e pratiche del passato, che ci vengono invece presentati come vincolanti per quel che vogliamo dire e fare nel presente. Il valore della tradizione ci obbligherebbe a confrontarci necessariamente con essi se vogliamo che quel che diciamo e facciamo venga considerato degno di attenzione. Fare vuoto dentro di sé rispetto a questa autorità della tradizione: questa è una pratica che Annarosa suggerisce, riprendendola dalla mistica.

Allora, fatto il vuoto dentro di sé, ci fa da guida non più la voce autorevole del passato ma il grande libro dell’esperienza. Questo è un passaggio simbolico che è presente non solo nel nostro libro ma anche in molti scritti, testi, ragionamenti di donne che si sono mosse con molta autorità, fondando questa loro libertà nella fedeltà all’esperienza, che si incerniera nel presente.

Il secondo testo sulla tradizione è di Anna Maria Piussi. Lei osserva giustamente che dopo il femminismo ci troviamo nella necessità di sottrarci non solo alla cultura maschile, che ha costruito canoni volendo imporre tradizioni, ma anche a quell’accumulo di sapere, che dal femminismo in poi molte hanno prodotto, e che ora alcune indicano come un dato inaggirabile. Tuttavia trincerarsi dietro la tradizione femminista è più che altro un segnale che molte hanno perso la capacità di stare in un rapporto sorgivo con il sapere, che si nutre del senso di quel che ci capita nel presente.

L’instaurarsi di una tradizione femminista mi mette in contraddizione perché ciò che è diventato sapere accumulato è il prodotto di un percorso esistenziale e politico a cui io stessa ho partecipato ed  ora mi viene proposto dall’esterno come oggettivo. È una contraddizione nuova, segnata dall’evento del femminismo. Cosa ben diversa dal radicamento che ognuna di noi ritrova in una genealogia femminile – come scrive Ida Dominijanni -, che è legame vivo con donne che ci hanno preceduto, ben lontano da una tradizione imposta.

Ambiguità della tradizione dunque. Eppure noi tutte siamo – e siamo state – lettrici appassionate di alcuni grandi libri del passato. Hanno inciso e sono stati ripresi dalla tradizione – è vero -, ma possiamo avere un rapporto con loro che metta da parte gli imperativi della tradizione e averne una lettura misurata da altro: il rimando all’esperienza, il senso di una rivelazione. Allora si tratta di saper dire quale sia stato il legame forte per cui ci hanno parlato in una lettura diretta, a partire dal nostro presente e dal nostro contesto.

Ho in mente come facevano le beghine della Francia del nord, delle Fiandre e della Germania nel Duecento: leggevano con altre l’antico e il nuovo Testamento lasciando che parlasse direttamente alla loro anima, senza tener conto di quel che gli ecclesiastici del tempo ne dicevano. Non volevano criticare la chiesa, anzi, ma semplicemente indicavano nella risonanza che aveva in loro la parola scritta dei testi sacri la mediazione essenziale più importante ancora della guida dei padri spirituali e dei confessori. Solo così le parole del testo erano vissute come parole di verità. E non è forse vero che ci capita di leggere romanzi, racconti, pagine di filosofia che ci illuminano come una rivelazione? E che ne parliamo allora con passione alle amiche e amici?

È in questo senso che in Approfittare dell’assenza abbiamo cercato di mostrare come siamo entrate in risonanza con alcuni libri e testi e come a partire da lì sia stato possibile indicare delle mediazioni nuove, diverse da quelle della tradizione.

Ci sono vie privilegiate per fare questo? Non ci sono strade a senso unico. Wanda Tommasi parla di un amore per il testo, che lo stravolge, lo incorpora, lo fa proprio, senza più tenere i confini tra sé e quel che si è letto.

Luisa Muraro si fa guidare da una domanda nel leggere il Simposio di Platone: chi è Diotima, a mezzo tra l’esistenza storica e la non esistenza? La domanda guida la lettura e questa la conduce là dove la domanda stessa viene superata. Si tratta di un processo.

Leggendo il vangelo di Matteo con Francesca Doria mi ha guidato l’ascolto di come l’anima si orientava, quali erano i punti sui quali insisteva. E con Francesca ritornavamo poi al giudizio, alle mediazioni, ma a partire da quel primo orientamento inconscio e a suo modo passivo.

Vita Cosentino cerca di comprendere il fascino esercitato su di lei dagli scritti di don Milani e la distanza maturata a causa della propria attenzione alla soggettività femminile. Diana Sartori si fa guidare nel leggere La dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 dalla logica del dono. Se quel testo ha donato molto, ciò impegna ad una restituzione e ad un rilancio, che non è però quello previsto interno al diritto. Al dono dei diritti lei restituisce il dono – non equivalente, perché più ampio – dell’obbligo.

Come si vede è una costellazione di modi di lettura che rendono vivo un testo, opponendosi proprio perciò a farne un classico, un caposaldo della tradizione come vorrebbe il canone.

Il nostro libro parte dal presente cercando un gioco simbolico nei confronti della tradizione, perciò direi che sono le relazioni nel presente il nostro inizio. E questo è un inizio che raccoglie e lega, e dunque in un certo senso religioso – nel senso etimologico del termine -, ma per avere libertà dalla tradizione, piuttosto che iniziarne un’altra.

Diversa è la questione della storia e del legame con cui stare in rapporto ad essa. Punto di vista del libro: per le donne la storia non è tutto. Riferimento: l’invito di Carla Lonzi ad approfittare della nostra assenza da essa. In che senso?

“A mezza strada fra l’esistenza storica documentata e l’inesistenza, in mezzo a date incerte, professioni senza nome, leggende oscure, ci sono molte donne che mi interessano, una è mia madre” scrive Luisa Muraro. Di fronte a questa condizione tra esistenza storica documentata e la vita nella sua imprecisione di fatti sfumati quale posizione simbolica prendere?

Negli anni ’70 le storiche, di fronte a questo dilemma, hanno scelto di portare a visibilità storica l’esistenza delle donne. Partendo dal presupposto che l’assenza fosse un difetto, una mancanza di attenzione. Questo ha prodotto una grande quantità di lavori, guidati dal desiderio di dimostrare la presenza delle donne nella storia. Questa onda lunga, che ha moltiplicato le ricerche, si è però ritirata, quanto ad invenzione di pensiero. Questo per il fatto che non c’è stato un rilancio: non c’è stata una presa in carico di trasformazione di sguardo su che cosa significhi fare storia a partire dalla differenza femminile oggi.

Vorrei valorizzare però le storiche che hanno rifiutato la mossa di includere le donne nella storia degli uomini. Penso a certi studi pubblicati sulla rivista “Memoria” -, che, volendo sottrarsi all’idea di una inclusione simmetrica all’esclusione, hanno messo in primo piano il vivere quotidiano, la cultura materiale, in cui le donne sono state protagoniste. Altre, come Luisa Passerini, hanno messo al centro la storia orale, costruita su narrazioni personali, criticando il concetto di storia unica e sottolineando la molteplicità di storie, che si incernierano con la memoria. Altre hanno elaborato l’idea di un andamento carsico della storia delle donne, che ora affiora e ora si inabissa.

Il nostro libro si inserisce in questo dibattito.

Siamo partite dal fatto che il legame delle donne con la storia è fatto di intermittenze, senza continuità né prevedibilità.

Quando parlo di intermittenza non faccio tanto riferimento ad una presenza più o meno forte delle donne nelle narrazioni storiche, nelle cronache e nei documenti, quanto ad un certo legame con l’invisibile che corre attraverso l’esperienza femminile e spinge sullo sfondo il bisogno di visibilità a tutti i costi. Nel nostro libro questo legame con l’invisibile è letto in modi diversi. È esso ad essere discontinuo.

Sicuramente è ancora una volta questo legame con l’invisibile a rendere simbolici quei momenti in cui le donne creano luoghi tra privato e pubblico: periodi che sono innovativi e fedeli all’esperienza, e che allo stesso tempo si sottraggono a quella divisione tra privato e pubblico, che risulta invece così fondamentale nel modo maschile di fare storia. Sono momenti che hanno avuto nell’invisibile la loro sorgente.

Di questa inclinazione maschile a separare pubblico da privato fecero le spese le beghine. Avevano creato una nuova pratica religiosa costituita da piccole comunità aperte alla città, in uno spazio simbolico  diverso dai recinti visibili di un ordine monastico e d’altra parte con uno scambio attivo con la città molto diverso da un vivere privato. Vivevano della tessitura, aiutavano i malati, la loro casa era frequentata da chi voleva venirci. È interessante come la chiesa reagì: dapprima le invitò ad entrare in ordini monastici femminili, creati quasi appositamente, perché in questo modo la loro esperienza religiosa fosse regolata in modo esplicito, pubblico, lasciando al solo recinto dell’intimità più segreta la loro vita spirituale. La dichiarazione di eresia fu per chi non accettò tale invito. L’autonomia creatrice affidata al desiderio e ai legami liberi tra donne era troppo provocatoria.

Certo l’idea di intermittenza può suggerire un senso di frammentarietà: si tratterebbe di brevi periodi senza legame tra loro. Non ci sarebbe più perciò un filo conduttore nella modificazione storica e dunque verrebbe meno anche la possibilità di pensare una storicità “altra”, a partire dalla differenza femminile.

Io vedo un senso “aurorale”, sorgivo della storia proprio a partire da quei momenti intermittenti. Si tratta di pensare ad un senso della storia che ponga al centro le singole pratiche nelle quali le donne abbiamo avuto immaginazione, autorità, capacità di reggere nel tempo lo stile di vita assunto. Momenti che si sono simbolicamente sottratti alla spartizione tra ordinamenti visibili da un lato e dall’altro a esperienze solo intime. E questo con delle risonanze con la sessualità femminile schiusa come un fiore tra interno ed esterno.

Di un momento intermittente c’è un esempio molto bello, nel libro, portato da Luisa Muraro. Si tratta delle Madres de Plaza de Majo, a Buenos Aires. Da ventiquattro anni ogni giovedì suonano i campanelli di coloro che ritengono gli assassini dei loro figli. Ciò ha avuto efficacia politica in Argentina, e lo si vede dalla decisione del governo di affrontare finalmente questa questione. Del futuro di questa pratica non si preoccupano, né vogliono insegnarla, trasmetterla ad altri. Essa vive, finché esse sentono il desiderio e la forza per compierla. Sono loro ad esserne mediazione vivente. Poi ci sarà altro, Di questo non si preoccupano.

Si tratta dunque di cercare un senso nella storia ragionando su pratiche, che non sono affidate ad ordinamenti visibili, ma al desiderio di chi se ne fa mediazione viva e cerca l’invisibile nel mondo, di cui c’è già traccia, dandogli spazio simbolico nel mondo stesso e la sua necessità. E che terminano quando viene meno desiderio e forza. Un’opera, una pratica: la maggior parte delle donne sanno che non è qualcosa di compiuto e del tutto oggettivabile ed esprimibile in una historia rerum gestarum, ovvero nelle narrazioni di azioni e fatti compiuti, sulla quale molti uomini hanno scommesso. Ciò che è esterno a sé è forse per loro più riconoscibile proprio come la loro sessualità? Io so che le pratiche sono visibili e al medesimo tempo mai veramente concluse, oggettivabili: sono percorsi sempre aperti, di cui nessuno è l’autore singolo perché in esse valgono le relazioni e il processo. Tra visibile e invisibile.