diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 10 – 2011

Grande Seminario

Tra Bianconigli e lupi affamati

 

Quando il desiderio fa giocare liberamente il bisogno

 

“Per me il disorientamento vuol dire essere disperse in qualche posto dove non sai orientarti e cerchi di trovare un metodo, come ad esempio le stelle, la bussola, i meridiani ed i paralleli. Il pensiero che hai quando sei disorientata è – ma dove sono, ci saranno i lupi affamati?-”

Martina, Prima Media, Kiskanu

 

 

Questo intervento non è per me una lezione, ma un’occasione di ragionare assieme su un terreno scivoloso ed inclinato, ma anche gravido di opportunità, quale quello del disorientamento e dell’attuale momento storico che stiamo attraversando.

Ho scelto di citare il meno possibile e di ancorare questo mio contributo alla concretezza dell’esperienza e dell’agire politico.

Ho scelto anche di utilizzare un linguaggio semplice, consapevole che una filosofia che non parli la lingua corrente è sradicata dal mondo, e quindi di nessuna utilità ed efficacia; rimane fuori dal simbolico condiviso e perciò non ha alcuna presa sul reale.

 

Inizialmente volevo lavorare su desiderio e bisogno cercando di rimetterli in circolo; due parole, due mondi preziosi, su cui psicoanalisi e femminismo hanno lavorato a lungo, spesso separandoli.

Il senso di questo tentativo era nato in me grazie ad un conflitto relazionale dove, in un orizzonte di desiderio e di passione politica, nominare il bisogno giocandolo liberamente, cioè da una posizione libera di autorità, mi aveva permesso di salvarmi dalla distruzione e dal crollo.

 

Ma in seguito ad una più attenta riflessione mi sono resa conto che il titolo di questo seminario mi segnalava di salpare verso orizzonti meno certi, di perdermi e mettermi nella predisposizione politica di andare ad incontrare i lupi affamati.

Sentivo di dover lavorare profondamente sul disorientamento, perché lo percepivo, e tuttora lo sento, risuonare e lavorare, facendosi spazio, dentro e fuori di me.

 

La parola dis-orientamento porta in sé l’Oriente e nomina la perdita e l’allontamento da quel punto che rappresenta il Sole, (in Giappone Amateratsu, la dea prima) l’origine in cui troviamo nascita e madre convivere insieme, contemporaneamente. Come ha spiegato Chiara Furnari nel suo intervento, orientare custodisce la stessa radice di origine (orīriorīgo). Principio, causa, nascita.

Inizio in relazione, luogo di partenza invaso da una luce che fa chiarezza, che dà la possibilità di una visione certa per intraprendere il cammino.

Il “dis” è un prefisso di separazione che indica l’opposizione negativa; questa piccola particella è fondamentale nel segnalarci l’allontanamento dall’origine, da quella luce che illumina l’orizzonte e la terra dove approdare; e quindi quello a cui assistiamo è un’inversione di rotta o un movimento non previsto né prevedibile, in altre direzioni sconosciute, incerte e buie.

Il passaggio nel buio ha in me come richiamo immediato il lavoro del negativo, magica forza trasformativa a cui è necessario fare spazio, stando in una dimensione di accoglienza, e non difensiva, affinché l’impensato possa accadere, ed il reale possa irrompere nelle nostre vite, gravido di tutte le sue potenzialià imprevedibili.

Nei testi di Diotima, La magica forza del negativo e L’ombra della madre, abbiamo a lungo lavorato su come stare in questa dimensione di accoglienza e di vuoto, cercando di non far andare a male il negativo, ossia di coglierne le possibilità di modificazione schivandone la portata annientante.

In farmacologia l’effetto del disorientamento è costantemente associato e messo in relazione con la depressione ed il delirio.

Perciò l’accoglimento e l’assunzione del negativo quale cifra del mondo, quindi la perdita dell’Oriente e della luce, ci prospetta un affondare oscuro nell’abisso; come Alice che cade nella tana del Bianconiglio o come quell’attrazione femminile, di cui ci ha parlato dettagliatamente Wanda Tommasi nella sua relazione sulla malinconia, dello scivolare nei pozzi, dove si è toccate sia dal delirio che dalla depressione.

Tutte le volte che nella nostra vita accade qualcosa che assomigli solo un po’a quello di cui sto parlando, immediatamente, come scrive molto semplicemente Martina, cerchiamo un metodo per recuperare il nostro Oriente ed illuminare l’orizzonte.

Ma il semplice atto di rimanere disorientate e di non poter ripristinare immediatamente la nostra rotta, ci costringe a ripensare al senso di ogni cosa e ci mette nella condizione di inventare e creare tutta una serie di strategie, ci spinge ad escogitare pratiche inedite, che ci aprono a nuovi percorsi, all’attraversamento di nuovi mondi, in cui il piano del reale e quello dell’immaginario si mescolano, trasformando così le nostre esistenze.

In questo viaggio ai confini del delirio e della depressione ho individuato tre passaggi concatenati che declinano l’attraversamento nel buio tra passività e movimento desiderante.

 

 

 

Il disorientamento subito

 

 

Come sottolineavo precedentemente, ci troviamo in un momento storico in cui il disorientamento spesso attraversa le nostre vite in modo dirompente. Ricordo molto bene la relazione al penultimo Grande Seminario(2009) di Tristana Dini e Stefania Tarantino che affrontava questo crollo strutturale che avvolge e dilania il presente.

Due sono gli ambiti in cui nella mia esperienza quotidiana vedo un crollo a cascata:

 

La condizione di precarietà che sembra ormai l’unica possibilità di lavoro per molte generazioni, ci costringe ad uno schiacciamento sul presente con un alto livello di discontinuità, il desiderio è bloccato dall’impossibilità di proiezioni sul futuro, sembra impossibile fare dei progetti, pensarsi nel futuro anche più prossimo, i predicati verbali dominanti sono incatenati al presente.

 

La condizione di precarietà e di crollo invade anche le relazioni eterosessuali, che sono state radicalmente messe in crisi dalla rivoluzione femminista e dalla conseguente fine del patriarcato: saltano i ruoli, saltano le coppie, lo scambio con il maschile è gravemente sbilanciato; è ormai evidente che quest’ultimo non essendo passato attraverso l’autocoscienza non regge la nuova economia relazionale in cui protagonista è la libertà femminile.

Di fronte a tutto ciò ed alla costante ondata di violenza sui corpi delle donne, la domanda necessaria è come sia possibile finire una relazione senza che il negativo si sfasci e annienti le persone.

 

La risposta delle due amiche filosofe, rispetto a queste forme spesso durissime di disorientamento subito, che scompagina qualunque orizzonte di senso previsto, viene da un suggerimento di Nietzsche in Zarathustra:tutto ciò che è dell’oggi necessariamente decadrà, e di fronte al crollo non deve emergere il desiderio di trattenere ed aggrapparsi alle antiche vestigia di ciò che già più non è, di accumulare necrofilicamente feticci nel bel mezzo di una frana mimando le politiche capitaliste, sconfitte dal delirio di un’onnipotenza che tutto vuole con sé; bensì trovare la forza di dare una spinta.

Aiutare il crollo di un mondo ormai morto con cui eravamo in relazione, permette di fare spazio ad un nuovo mondo e ad uscire dalla litania del lamento, che ci tiene legate a doppio filo con il cadavere del vecchio che ci vuole rinchiuse come vittime passive e non agenti e quindi incapaci di trasformare e di rescindere, di compiere il taglio e di rinascere.

Tornare ad essere protagoniste, anche nel disorientamento del crollo, partecipare alla caduta libera nel vuoto, ci riporta alla vita, disfa l’ordine precostituito e ci espone a ciò che non è immediatamente riconoscibile, ci apre all’impensato.

Come sottolineavano Tristana e Stefania per volare occorre precipitare in fretta, e nel cadere accade qualcosa, l’irruzione del reale e dell’imprevedibile, che non dipende da me e di cui non sono proprietaria.

Questo è stato il femminismo, e per questo Carla Lonzi prevedeva che il disorientamento sarebbe stato la nostra prova, prova che rappresenta per me la forza del saper dare una spinta, dell’essere complici del crollo degli ordini precostituiti facendone tabula rasa per un’apertura a nuovi orizzonti, dove l’impensato e la libertà del desiderio si rendano possibili.

Dove desiderare l’impossibile accada nutrendo il futuro.

Questa azione, che mi ricolloca come soggetto agente del mondo, permette di non cadere nel lato invischiante del disorientamento, nella dimensione paralizzante depressiva, ci aiuta a non farsi trascinare nel fondo del pozzo dove il negativo diventa trappola e diventa male.

 

 

 

Il disorientamento agito

 

 

 

Uscire dalla paralisi ci rende protagoniste e capaci di praticare il disorientamento in tutta la sua portata dirompente e trasformativa.

Ne ho potuto sperimentare personalmente l’efficacia grazie al percorso lavorativo che ho intrapreso nell’ultimo  anno: dopo aver concluso l’esperienza della gestione dello spazio associativo femminista di Esposta, sono diventata maestra di classe nella scuola anarchico-libertaria Kiskanu.

Grazie a questa nuova esperienza, radicalmente metamorfica, ho potuto agire e fare leva sul disorientamento verificandone quotidianamente la smisurata portata pedagogica.

Luisa Muraro, nel suo intervento a questo seminario, criticando le “prime della classe”, colpevoli di ripetere, fin troppo bene, la lezione del maestro, ha concluso esortando all’insegnamento dell’irriverenza.

Queste parole hanno risuonato in me profondamente, poiché, per l’intero anno, ho lavorato fortemente sull’irriverenza quale strumento primo per distruggere le forme di un’autorità legata al potere, contro l’investitura dall’alto dell’essere maestra e le forme coatte di obbedienza.

Mettere in campo questa strategia, stimolare l’irriverenza verso la mimesi e l’obbedienza cieca, provoca disorientamento perché apre alla libertà dell’esserci e dell’individuo, e fa spazio ad una figura altra dell’autorità che nasce dalla relazione, nel qui ed ora in continua trasformazione e contrattazione, richiamando l’autorevolezza materna e la figura dell’affidamento.

Oltre al lavoro sull’irriverenza un’altra pratica, che è quella artistica, mi è venuta in soccorso, non solo in quest’ultimo anno, per rendere vitale il disorientamento.

L’arte ed ancor più quella contemporanea, basti pensare alla Body Art, sono un chiaro esempio fertile di azione consapevole di disorientamento.

Infiniti potrebbero essere gli esempi ma alcuni credo possano chiarire in modo evidente quanto l’arte si sia appropriata di questa pratica politica dirompente: Gustav Metzger e la sua installazione Flailing Trees, Franko B nella performance alla Tate Modern“I miss you”, Doris Salcedo in  ogni sua opera evoca e provoca disorientamento(basti pensare alla Casa Viuda od a Atrabiliarios), Soo-Ja Kim e il suo farsi donna-ago(indimenticabile la performance di 11 giorni Cities on the Move), Ana Mendieta in Rape Scene. Davvero ci troviamo di fronte ad una moltitudine di contributi.

Vorrei approfondire uno dei più esemplari ed interessanti approcci artistici al disorientamento caratterizzato dall’opera performativa del gruppo maschile di teatro-azione Fura dels Baus, in particolar modo sto facendo riferimento al loro primo vero spettacolo di azione-totale del 1984 dal titolo Accions.

La prima cosa evidente nell’estetica furera è la costante ricerca della provocazione attraverso lo shock, spesso strettamente connesso alla violenza delle azioni e delle immagini, segnale di un chiaro percorso artistico di differenza maschile

Però a mio avviso un elemento fondamentale che fa leva sul creare volontariamente una situazione di disorientamento nel pubblico è l’esecuzione delle performance a raso terra fra gli spettatori e le spettatrici.

L’assenza di un palcoscenico, quindi di un preciso spazio d’azione esclusivo degli attori è sicuramente un’eredità che la Fura si porta dagli anni di teatro di strada.

Le conseguenze di questa scelta strutturale e strutturante l’opera sono molteplici: la prima che riguarda gli attori è l’impossibilità di fingere essendo accanto al pubblico.

Lo spettatore cessa di essere passivo e diviene parte integrante della performance che ogni volta muta in base al tipo di interazione che ha il pubblico.

Ogni azione ha effetti sul pubblico e ogni azione del pubblico ha effetti sullo svolgimento dello spettacolo; le azioni degli attori prendono quindi forma e significato in base alla reazione dello spettatore che può essere dallo choc, alla trance o al semplice movimento spaziale.

L’altra conseguenza assolutamente fondamentale è quella di rendere impossibile una percezione totale dell’opera da parte di chi guarda.

Non vi è possibilità per il pubblico di riuscire a dominare lo spettacolo con lo sguardo.

Perdita dell’orizzonte nella confusione dei corpi che oscurano la visuale di ciò che accade attorno a sè contemporaneamente ad una moltiplicazione di azioni convulsive non prevedibili, legate alla contingenza e quindi in continua trasformazione.

Nulla è certo, niente orienta in una esperienza così incredibilmente al limite: lo spettatore viene completamente abbandonato ad una situazione di impotenza, di non lucidità, di perdita di controllo sulla realtà che sta vivendo.

Gli stessi spazi ricercati, molto ampi(nella trilogia mai inferiori ai 600 m²), tipicamente navi industriali abbandonate, fabbriche in disuso, mattatoi, dovevano creare una sensazione di stordimento, soffocamento e di disorientamento, opprimenti e allo stesso tempo alienanti.

Il gruppo catalano in questo modo è riuscito a provocare volontariamente degli stati di disorientamento, paura e confusione su chiunque abbia partecipato ad Accions.

Il rendere impossibile qualunque forma di controllo anche solo visivo su ciò che lo spettatore vive come una forma di distruzione del delirio di onnipotenza dell’uomo industriale in favore di un accadere eccedente, pura irruzione di un reale gravido di impensato, in cui nessuna strategia preconfezionata è applicabile, con il risultato di una irruenta apertura a nuove azioni e reazioni.

 

 

 

Il disorientamento desiderato

 

 

 

Il terzo passaggio in questo attraversamento nel buio accade mettendosi volontariamente nella condizione di essere disorientate; quindi non più in una posizione di vittima bensì in una posizione agente, desiderante. Questo movimento è in circolo e strettamente connesso alla tappa precedente, poiché creare disorientamento significa anche viverlo profondamente mettendosi nella condizione di essere disorientate.

Infatti nel momento in cui si è agenti disorientanti ci si abbandona fiduciose ad una dimensione di non raggiungimento di un orizzonte sicuro e chiaro, poiché non ci sono previsioni possibili.

Sento di affermare che questa condizione magica e contingente è la situazione in cui ci si trova quando si lascia agire dentro di sè il fuoco della passione politica.

La passione politica ci mette in una condizione di disorientamento dove la fiducia nella relazione e l’affidamento reggono l’urto del non aver chiaro l’orizzonte; la relazione politica come radice da afferrare per muovere nuovi passi verso i lupi affamati mantenendo un equilibrio rispetto ciò che non si vuole venga divorato.

Riconosco questo passaggio in quella che è stata la forza sorgiva di dare vita ad Esposta, associazione culturale che ha dato forma ai desideri di creare uno spazio pubblico che fosse dimora per l’arte contemporanea e luogo di cura delle relazioni.

Esposta è stato uno spazio collettivo di crescita, apertura e scambio dove il disorientamento prima di tutto fisico era un elemento fondamentale e dove l’unico nutrimento per desiderare l’impossibile erano le relazioni.

Esposta mi ha insegnato che, nello spazio pubblico, i conflitti relazionali non devono scivolare sul personale per amore del mondo.

Interrompere lo scambio nella relazione, far andare a male il negativo, distrugge la possibilità di fare ancora qualcosa insieme e fa tornare l’io nel fondo del pozzo.

Per salvare l’orizzonte di desiderio politico che viene prima di ogni individualismo, aldilà di progetti divenuti origine di conflitti relazionali, nominare il bisogno dell’altro/a e la sua insostituibilità può essere una mossa efficace.

Il guadagno del disorientamento in questo caso si trasforma nel riconoscimento del bisogno di relazione dove, lontano da una logica emancipazionista, la libertà e l’indipendenza non mai state la stessa cosa.