diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 13 - 2015

A partire dal seminario

Sul nodo tra libertà e sessuazione. In dialogo con il Pensiero della differenza

  1. Il Pensiero della differenza sessuale come sfida…

Nell’autunno del 2014, l’annuale seminario pubblico organizzato dalla comunità filosofica femminile di Diotima portava un titolo che implicitamente riconosceva un fatto importante: anche le formule guadagnate da un pensiero che nasce dalle pratiche e dalle relazioni devono essere reinterrogate per non divenire vuote astrazioni e continuare invece a portare luce e ordine nell’esperienza. La formula in questione in quel titolo era: “il senso libero della differenza sessuale”, una formula originariamente introdotta per esprimere una delle idee portanti del Pensiero della differenza italiano e, prima ancora, del femminismo radicale degli anni ’70 del XX secolo. La necessità di tornare a interrogare quella formula era espressa nella seconda parte del titolo: “Il senso è libero, la differenza?”.

Questa domanda chiedeva che si tornasse a riflettere sul nodo che lega libertà e sessuazione, per sviluppare, all’altezza del dibattito politico e filosofico attuale, la prospettiva elaborata dal Pensiero della differenza. In effetti, su questi temi il dibattito teorico-politico si dispone oggi intorno alla posizione secondo cui la sessuazione, nella misura in cui non è scelta, allora contraddice la libertà ed è assimilabile a un veicolo di dominio. Il fatto che, nel dibattito, si tenda a disporsi intorno a questa posizione comporta che anche coloro che non la condividono e vi si oppongono accettino tacitamente alcuni dei suoi assunti direttivi, in particolare l’idea che la libertà finisca dove comincia la sessuazione (idea che i critici della posizione dominante sviluppano poi affermando l’importanza di porre questo limite alla libertà). Ebbene, facendo leva sui suoi principi ispiratori, il Pensiero della differenza costituisce una sfida per questo dibattito perché può scompaginarne le carte e, così, consentire a noi, uomini e donne, di non farci imbrigliare in una impostazione del problema che tradisce tanto la comune esperienza, quanto le nuove urgenze che invocano nuovi pensieri.

Una domanda, però, si affaccia a questo punto: restando fedele ai suoi principi ispiratori, cioè poi alle idee che, nel tempo, hanno dato prova di fecondità e capacità di fare ordine nel pensiero e nell’azione, il Pensiero della differenza sessuale ha innanzi a sé una sola possibile via per approfondire e sviluppare la sua concezione del nodo tra libertà e sessuazione (e, più in generale, tra libertà e passività) al fine di renderla, non semplicemente all’altezza del dibattito attuale, ma persino capace di reimpostarlo e renderlo più proficuo, oppure lo sviluppo di quella concezione può prendere direzioni diverse?

Qualche mese prima che cominciasse il seminario di Diotima, mi è capitato di essere invitato a un incontro a Roma tra vari studiosi e studiose, prevalentemente di area cattolica, ma non solo, che intendevano discutere i fondamenti della cosiddetta “Gender Theory”, quel grappolo di prospettive accomunate dall’idea che la libertà di ogni singolarità richiede un qualche tipo di superamento della determinazione di genere (superamento che può andare dalla decostruzione dell’idea stessa di identità di genere alla manipolazione tecnica dei tratti sessuali che ci si trova ad avere). Ciò che in quel contesto mi è stato chiesto era di illustrare il modo del tutto originale in cui il Pensiero della differenza italiano imposta quella stessa problematica. Si noti come questa richiesta dimostrasse acume: in effetti, là dove ci si vuole opporre al discorso che pensa in termini di gender, facendo leva sulla nozione di differenza sessuale, occorre fare poi attenzione ai diversi modi in cui tale nozione viene elaborata e sviluppata: il cosiddetto “Pensiero della differenza” rappresenta uno di questi modi ed è importante riconoscerne la specificità. Salvo che, come accennavo poc’anzi, lo stesso Pensiero della differenza non è una dottrina ben delimitata da una serie di definizioni che aspirano a tal punto alla stabilità da essere pronte a pagarla divenendo astratte. La dinamicità di quel Pensiero fa sì che ogni presunta esplicitazione non scolastica delle sue posizioni sia piuttosto da intendere come uno sviluppo della sua articolazione interna, uno sviluppo di cui occorre assumersi la responsabilità e che si scontra con altri possibili sviluppi.

Più avanti riprenderò l’articolazione della posizione del Pensiero della differenza a proposito del nodo tra libertà e sessuazione, che ho offerto in quella tavola rotonda a Roma, ma prima vorrei perlomeno evocare un’altra articolazione di quel nodo, un’articolazione di cui sono venuto a conoscenza più recentemente e che non è poi così lontana dall’ispirazione originale del Pensiero della differenza italiano, da cui infatti è influenzata. Gli assunti più generali di quest’altra articolazione, che sta sviluppando Stefania Ferrando1, mi hanno fatto capire che almeno alcune delle tesi che davo per scontate pensando che non avessero alternative richiedono invece una più sottile introduzione critica. Sebbene non tenterò di fornire qui tale introduzione, vorrei perlomeno evitare di far sembrare che il modo in cui riprendo il Pensiero della differenza sessuale sia un modo che va da sé: ecco la prima ragione per cui richiamerò anche alcuni dei tratti di quell’altro modo di riprenderlo e svilupparlo. Inoltre, penso che l’articolazione del nesso tra senso libero e differenza sessuale, su cui lavora Ferrando, sia meglio equipaggiata di altre (tra cui quella che seguivo io) per far fronte, in maniera non meramente speculativa, a una certa questione che di fatto si presenta a noi – e che non può non presentarsi data la mentalità oggi diffusa. Tale questione si nasconde anche in una delle più ricorrenti obiezioni che arrivano al Pensiero della differenza sessuale da parte di chi elabora la problematica della sessuazione nei termini della Gender Theory. Dopo un breve chiarimento del rapporto tra il Pensiero della differenza e l’evento del femminismo (§3), considererò dunque quella obiezione (§ 4), poi cercherò di indicare alcuni dei lineamenti dell’articolazione del nesso tra libertà (o soggettività) e differenza sessuale, che sta sviluppando Ferrando (§ 4 e 5), infine riprenderò alcune delle idee che avevo elaborato io, in dialogo col Pensiero della differenza (§ 6 e 7). Prima, però, vorrei dedicare qualche momento (§ 2) a un altro problema: ho proceduto così anche a Roma, non riesco ad evitarlo, mi sembra infatti che sia una questione del tutto preliminare.

 

  1. e come occasione

Quali condizioni, ecco il problema, devono realizzarsi affinché si possa produrre quell’ascolto del Pensiero della differenza sessuale, che è ovviamente richiesto da ogni eventuale scambio o discussione con esso? Questa domanda porta dritta alla questione dell’autorità: per comprendere il Pensiero della differenza sessuale, occorre essere pronti ad attribuire autorità a una donna nel campo del sapere, qualcosa a cui, fino a non molti decenni fa, non si era preparati, né gli uomini, né, per ragioni diverse, le donne2. Il femminismo, con le pratiche e le parole che ha elaborato, ha cominciato a sciogliere la difficoltà femminile ad affidarsi a una donna3; dal lato degli uomini, invece, mi pare più difficile dire in quale direzione evolvano le cose, soprattutto se non si confonde l’attribuzione di autorità simbolica a una donna né con l’accettazione di un rapporto gerarchico in cui capita che sia una donna il superiore, né col cercare in una donna solo la madre che cura. Ad ogni modo, in riferimento al Pensiero della differenza sessuale, il necessario esercizio dell’ascolto, con la deferenza che questo comporta, non può affatto essere dato per scontato, soprattutto tra gli uomini.

Eppure, nella pratica di tale ascolto è possibile trovare, invece che la causa di un disagio, una fonte di ricchezza e forza. Questa è perlomeno la mia esperienza. Ma non è un’esperienza che si produce per caso, bensì per delle ragioni ben precise. La principale tra queste ragioni è che quel Pensiero rilancia e sviluppa l’evento che sta al cuore del femminismo degli anni 70 (cioè l’emersione del desiderio femminile in ciò che ha di esorbitante rispetto alla forma sociale precedente), in un modo che finisce col dare agli uomini, e dunque anche a me, una posizione magnifica, che sarebbe suicida lascarsi scappare. Diversamente da quell’elaborazione dell’evento femminista che si articola nella forma del lamento o della rivendicazione, un’elaborazione di cui il Pensiero della differenza dice che non riconosce l’infinità del desiderio femminile perché scambia il fatto che questo non trovi soddisfazione in nessuna cosa con il fatto che sia stato privato o derubato (dagli uomini) di quella immaginaria cosa che invece gli avrebbe dato la soddisfazione4, il Pensiero della differenza non ci fissa, cioè non fissa gli uomini, nella posizione di chi ha una colpa. Certamente ci chiede, e con ragione, di assumerci la responsabilità per la società patriarcale e per tutte quelle sue istituzioni e pratiche che, come relitti, sopravvivono ancora nel presente, ma, nel farci tale richiesta, il Pensiero della differenza non ci blocca nel ruolo di chi deve rappresentare il colpevole, piuttosto ci interpella come soggetti. Soggetti che possono contribuire a dare vita a qualcosa di diverso, a una civiltà fondata su un altro ordine di rapporti5. Soggetti che, insomma, devono dare prova di sé, cioè che devono dare prova della libertà, del pensiero e del desiderio solo esercitando i quali si vive da soggetti. Dare questa prova significa innanzitutto saper stare allo scambio con le donne, senza limitarsi a riproporre forme di rapporto che, per quanto potessero essere soddisfacenti per l’economia pulsionale maschile, non riconoscevano la libertà femminile. Si tratta di una posizione magnifica: quella del soggetto che cerca; diversa da quella del soggetto che si abbruttisce e annoia in una posizione che è sempre più in ritardo sulla storia, sempre più isolata dall’esperienza, sempre più sorda nei confronti del Giusto.

La posizione del soggetto neutro e universale, universale perché neutro, si è disfatta: l’occasione di esser soggetti, per noi uomini, passa oggi per la capacità di rispondere alle donne all’altezza della loro interlocuzione6. Si tratta di riconoscere che la via attraverso cui le donne hanno guadagnato la posizione di soggetto, rifiutando la strategia della neutralizzazione della differenza, è la via cui dobbiamo ispirarci, quella che raggiunge l’universale facendo leva sulla parzialità. Il riconoscimento di questo fatto è la forma che propongo agli altri uomini per realizzare quel conferimento di autorità alle donne che spesso li angoscia7. La posta in gioco è la più grande: tornare ad essere soggetti creativi, ma questa volta esercitando tale creatività senza farne pagare i costi ad altri e ad altre, insomma con maggiore senso del giusto.

 

  1. Il pensiero della differenza sessuale come risposta

Io amo molto le biblioteche, ma bisogna sapere che sono anche posti pericolosi. Il fatto è che quando ci apprestiamo a incontrare un pensiero attraverso la lettura di un libro che a sua volta prendiamo da uno scaffale dove sta accanto ad altri libri, accadono dentro di noi, ma a nostra insaputa, molte cose che influenzano profondamente il modo in cui comprenderemo, o forse mancheremo di comprendere, quel pensiero. Nel caso del Pensiero della differenza, ad esempio, il luogo o i modi in cui lo avviciniamo, e tra questi ci sono anche le lezioni del Grande Seminario di Diotima, che si svolgono nelle aule dell’Università di Verona, possono fare sì che la nostra mente si prepari ad accoglierlo come una certa qual teoria: la teoria ideata dalla donna che ora la professa da quella cattedra o che l’ha espressa in questo libro. Ebbene, se ci si dispone in questo modo, e non è così facile evitarlo, soprattutto per gli uomini, è molto probabile che si mancherà il Pensiero della differenza sessuale. Questo pensiero, infatti, è elaborato in uno stretto rapporto con le pratiche, anzi, direi che articola le sue idee e i suoi guadagni tanto sul piano delle pratiche (inventando speciali contesti relazionali e forme di rapporto), quanto sul piano delle parole, dei concetti e delle narrazioni. Il processo di semiosi simbolica è tutto intrecciato a (e sempre innescato da) quello di semiosi pratica.

Naturalmente, nella misura in cui alcune di queste pratiche non sono aperte agli uomini (penso ad esempio ai ritiri oppure al piccolo seminario di Diotima, luoghi in cui, per quel che mi è stato raccontato, la modalità dello scambio e del pensiero in comune è molto più singolare di quella del Grande Seminario, il quale invece, almeno per alcuni tratti, è simile a una lezione universitaria), allora per gli uomini diventa più difficile incontrare il Pensiero della differenza nei modi che questo stesso pensiero indica come privilegiati. Questo rilievo, comunque, non lo traduco affatto in una recriminazione, ma nell’invito a prestare un di più di attenzione. Per accostarsi al Pensiero della differenza, bisogna preparare nella propria mente un altro spazio, diverso da quello delle teorie – soprattutto poi se lo spazio per le teorie coincide con lo spazio delle belle ideazioni o delle più o meno geniali “pensate”. Le cose sarebbero già diverse se, ad esempio con Ina Praetorius, sapessimo tener ben presente che, stando all’etimo, una teoria è innanzitutto un discorso che tenta di far vedere quanto incontriamo più o meno confusamente nell’esperienza, se cioè ricordassimo che una teoria non si appaga in se stessa, ma nell’effetto di delucidazione che sa produrre8. Ad ogni modo, in questi anni di letture e di ascolto di lezioni, ma anche di scambi in presenza con alcune delle pensatrici della differenza sessuale, mi sono convinto che sia meglio preparare nella mente uno spazio diverso da quello delle teorie, in cui cercare di ospitare questo Pensiero. Che nome dare a quest’altro spazio?

Prima che come una teoria, ritengo che il Pensiero della differenza vada inteso come una risposta. Una risposta a che cosa? Ebbene, innanzitutto all’evento del femminismo, dunque alla presa di parola pubblica delle donne, ossia all’emergenza, nello spazio politico, del desiderio esorbitante delle donne9. Rispondere a questo evento significa elaborarlo, svilupparlo, farlo durare, ridargli sempre la forza di produrre nuovi effetti. E dunque significa determinare che cosa esso diventa. La risposta qui è, per un certo verso, dopo l’evento, ma per un altro verso è parte dell’evento: è uno dei modi in cui quello continua a durare e ad articolare il suo senso. Insomma, nel Pensiero della differenza ne va del senso dell’evento femminista. Naturalmente, quell’evento, come ogni evento degno di questo nome, crea intorno a sé uno spazio in cui si incontrano e scontrano i diversi modi di interpretarne il senso: il Pensiero della differenza è uno di questi modi, il cosiddetto Femminismo di Stato è un altro e, ad esempio, quell’affrettata liquidazione che porta molti uomini, ma anche diverse donne, a dire che non ha più alcun senso parlare di femminismo è un altro ancora. (E questo giro di osservazioni ci consente di ribadire il punto chiarito nel paragrafo 2: il Pensiero della differenza è importante anche per gli uomini perché offre loro una via cui ispirarsi per rispondere all’evento del femminismo all’altezza che gli è propria, un’altezza che non merita, e non consente, la semplice riproposizione di soluzioni elaborate in precedenza).

Nella misura in cui risponde all’evento storico del femminismo, inoltre, il Pensiero della differenza sessuale è anche risposta a quella verità che il femminismo ha inscritto nella nostra memoria culturale. Ebbene, qual è questa verità che prima solo baluginava per poi venire sempre ricoperta o addomesticata in formule limitanti? Esistono diversi modi di esprimerla. Uno molto bello lo ha trovato Angela Putino: “ogni donna pensa”10. Ora, però, vorrei prendere le mosse da un altro: “L’Uomo non esiste. Esistono donne e uomini”. Se il Pensiero della differenza è risposta all’evento della presa di parola femminile, per ciò stesso è anche risposta alla verità che quella presa di parola, accadendo, ha inscritto nella nostra memoria storica. Luce Irigaray formula così questa verità: la posizione di enunciazione non è neutra, chi prende la parola è un uomo o una donna.

 

  1. Perché privilegiare la differenza sessuale?

Le donne non sono solo soggetti di enunciati maschili, ma sanno prendere parola sulla questioni di interesse universale. Chi pensa l’universale non è un soggetto neutro: l’Uomo. «L’Uomo non esiste. Esistono donne e uomini». Questa frase, la ricavo alla lettera da un breve testo di Luisa Muraro del 1990 in cui veniva presentata una nuova collana pubblicata da Editori Riuniti e intitolata: “Il pensiero della differenza”. Ecco l’incipit di questo testo:

«Il pensiero della differenza è una quasi-collana degli Editori Riuniti che presenta scritti di uomini e di donne che traducono in sapere di sé e del mondo il fatto di essere venuti al mondo uomini o donne. La nostra cultura manca di questo sapere»11.

Ma che cosa può significare che la nostra cultura manca di un sapere che traduca il fatto di essere venuti al mondo uomini o donne, cioè il fatto della sessuazione? Forse che questo fatto non è il più ovvio di tutti, quello che chiunque ha già da sempre riconosciuto? Non è forse vero che quando incontriamo una persona, la prima cosa che registriamo è se è un uomo o una donna? E quando una donna è incinta non chiediamo forse se aspetta un maschietto o una femminuccia?

Queste semplici domande sono legittime e, in un certo senso, persino importanti. Come è importante, forse anche di più, l’obiezione che a un’affermazione come quella ora citata muove una parte del pensiero post-femminista contemporaneo: mi riferisco all’obiezione che si appunta su quella disgiunzione, “donne o uomini”, prendendola come un aut-aut e dunque come se volesse includere tutte le possibilità. Ebbene, l’obiezione accusa chi ragione con questa disgiunzione di escludere altri casi e dunque di esercitare un disconoscimento e una violenza simbolica su questi altri casi e, in generale, su qualunque singolarità che non si riconosce in nessuna delle due “identità di genere” che quel discorso ammette.

Da un lato, abbiamo dunque chi dice che non occorreva il femminismo o il Pensiero della differenza per sapere che l’essere umano è sessuato: “donna” e “uomo” sono significati che la nostra cultura ha già registrato e tramandato! Dall’altro, chi aggiunge che, proprio per questa riproposizione della “opposizione di genere” su cui si è edificata la nostra cultura, il Pensiero della differenza prolunga la violenza che quella cultura ha esercitato sulle “minoranze di genere”.

Alla prima obiezione, il Pensiero della differenza ha offerto una risposta lungamente meditata e messa alla prova nella pratica, che, a mio parere, costituisce un guadagno per tutti. Tale risposta fa perno sull’idea, che riprenderò tra poco, per cui la differenza sessuale non è un significato, ma un significante, ossia qualcosa il cui senso è tutto intrecciato alla libertà del soggetto (il “senso libero della differenza sessuale”). Il rapporto con la seconda obiezione, invece, è molto più complesso.

Innanzitutto, è giusto riconoscere che, nella maggior parte delle formulazioni di questa obiezione, al Pensiero della differenza è attribuita una concezione troppo povera della differenza stessa, appunto una concezione della differenza sessuale come un significato e non come un significante. Sotto questo rispetto, il Pensiero della differenza è già al di là della problematica su cui è bloccata quell’obiezione: quell’obiezione, e la prospettiva che in essa si esprime, crede che la differenza sessuale serva per contare (ossia per classificare) e aggiunge, polemicamente, che non bastano due categorie, ma ne servono almeno 5 o forse 5612 o ancora di più; per il Pensiero della differenza, però, il due della differenza non serve per contare, ma per uscire dal monologo dell’uno, quel monologo che, paradossalmente, si ripropone quando si moltiplicano le opzioni al fine di dare a ciascuna singolarità la sua “casella una”.

Tutto questo, come accennavo, è vero ed è importante evidenziarlo, tuttavia, non credo che ci si possa fermare qui. La presa in carico dell’obiezione citata obbliga il Pensiero della differenza (e cioè poi tutte e tutti quelli che vedono in esso un punto di leva per il pensiero e l’azione, che merita di essere ancora ripreso e sviluppato) ad andare più a fondo nella sua articolazione del rapporto tra differenza sessuale e storia. Quell’obiezione, infatti, tocca un nodo che non è sciolto dalla sola introduzione della distinzione (che pure non è solo una bella pensata, ma una mediazione simbolica e pratica) tra la differenza come significato e la differenza come significante. Ebbene, è proprio a questo punto del discorso che vorrei introdurre, seppure per brevi cenni, quell’altra articolazione del nodo tra libertà e sessuazione cui mi sono riferito all’inizio e che ho conosciuto attraverso il lavoro di Stefania Ferrando. Quest’altra articolazione a mio parere può essere intesa come l’offerta al Pensiero della differenza sessuale di una mediazione grazie a cui questo, senza tradire la sua ispirazione, può trovarsi in una posizione migliore per affrontare nodi come quello che si nasconde nell’obiezione ora in questione.

Nell’accusa di avere bloccato anzitempo e indebitamente la fuoriuscita dal monologo dell’Uno, essendosi limitato a passare al Due invece di introdurre molte più possibilità, il Pensiero della differenza ha saputo cogliere una confusione che non è solo teorica, ma anche simbolica e politica. Come anticipato, tale confusione è quella per cui si intende l’uscita dal monologo dell’Uno ancora all’interno della logica identitaria che cerca di dare a ogni-uno la sua propria e stabile classificazione. In effetti, per immunizzarsi dall’altro, disconoscerne l’alterità (cioè ridurlo al medesimo) non è l’unica strategia possibile13: si può anche tenerlo separato grazie a una complessa tassonomia che disegna confini più numerosi, ma sempre impermeabili14. La differenza sessuale, invece, non serve a rassicurare gli uomini e le donne a proposito delle loro identità di genere, stabili e distinte: attraversando ciascuno, lo rimanda a ciò cui è esposto e che non padroneggia, obbligandolo ad articolare diversamente il suo esser soggetto e il suo disporsi tanto verso il prossimo, quanto verso la natura o verso la memoria storica o verso la cura del giusto o verso Dio ecc. È questo, come vedremo anche tra poco, che vuol dire praticare la propria differenza sessuale come un significante. Vuol dire non cercare in essa una dimora identitaria, ma un punto di leva attraverso cui affrontare quella situazione di squilibrio che è la vita umana – una situazione che non consente altro equilibrio che quello dinamico che sempre va ricontrattato in un corpo a corpo con l’esperienza, gli altri e la lingua ricevuta15. Orbene, questa distinzione tra la differenza come significato classificatorio e la differenza come punto di leva significante solleva il livello del dibattito che esiste con la prospettiva che diceva: “Non basta il Due!”, però, non scioglie del tutto quel dibattito. Il fatto è che in quella prospettiva si nasconde qualcosa di più della logica identitaria che cerca solo una classificazione più fine.

Immaginiamo che la prospettiva che diceva: “Non basta il Due!” riformuli così la sua istanza: “se ‘donna’ e ‘uomo’, che per tanto tempo hanno operato come significati chiusi e fissi, possono essere impiegati come dei significanti, allora lo possono anche ‘transessuale’, ‘queer’ e altre espressioni ancora. Ma allora perché il Pensiero della differenza continua a insistere sui primi due ‘significanti’? Perché, ad esempio, dice che è per la politica delle donne che passa la possibilità per la politica di non identificarsi alla lotta per il potere? Perché insiste sull’importanza di imparare a confliggere con gli uomini per generare una nuova civiltà?”. Detto altrimenti, se “donna” è un significante e dunque il suo venir privilegiato non si fonda su una presunta “natura (o essenza) femminile” che, secondo un qualche parametro altrettanto sovra-storico, sarebbe da anteporre a quella maschile nella gerarchia degli esseri, se, insomma, privilegiare il significante “donna” non è semplicemente invertire la gerarchia patriarcale, allora, che cosa legittima questo privilegiamento e non lo rende un atto indebito (e foriero perciò di violenze simboliche)? Come accennato, a mio parere, per rispondere a questa obiezione e per affrontare la seria questione che vi è sottesa, il Pensiero della differenza non può che articolare più profondamente la sua concezione della storia.

Se è vero, come sostiene il Pensiero della differenza, che è alla politica delle donne che la politica deve guardare per non ridursi a gioco di potere, ciò non accade perché una presunta natura femminile (o una apertura al mondo essenzialmente femminile) renderebbe le donne più vicine alla “vera politica”: se fosse così, sia gli uomini, sia coloro che non si sentono né uomini, né donne sarebbero fatalmente in una posizione gerarchicamente inferiore e di minorità. Le invenzioni pratiche e simboliche delle donne sarebbero “pensiero per tutti” solo attraverso la mediazione di quella gerarchia di nature. (Ciò che, a ruoli inversi, accadeva nelle società patriarcali, dove le donne partecipavano dell’universale solo in quanto si prendevano cura dell’uomo, il solo che era immaginato capace di accedere e di occuparsi direttamente dell’universale). Invece, la politica ha da rivolgersi e ispirarsi (in modo creativo, questa è la scommessa) alle pratiche politiche inventate da donne fedeli all’evento femminista e perciò al loro desiderio esorbitante, perché quelle pratiche fanno più spazio al Giusto e alla felicità; ma la politica può ispirarsi a quelle pratiche in maniera creativa e senza passare per una gerarchia fissa perché quelle invenzioni simboliche sono pensiero per tutti. Tuttavia, ecco il punto, dire che sono pensiero per tutti non significa cancellare il privilegio della differenza femminile: quelle invenzioni non sono legate alle donne né dal mero caso, né però dalla “natura” femminile, bensì dal fatto che sono state elaborate, da donne, facendo leva su esperienze che storicamente e ancora oggi sono più che altro di donne.

Quelli appena offerti erano alcuni cenni a proposito di un possibile modo di riprendere il conflitto teorico tra il Pensiero della differenza sessuale e quelle prospettive post-femministe che avvertono come un’indebita limitazione l’articolazione della sessuazione umana in termini di “donne” e “uomini”. Il perno di questo possibile sviluppo del Pensiero della differenza è dato dalla congiunzione di due mosse: da un lato si tratta di affermare che il fondamento del privilegio della differenza sessuale (cioè il fondamento del fatto che sia proprio questa la differenza da giocare come un significante per tentare una soggettivazione e la tessitura di un ordine di rapporti, all’altezza delle sfide del nostro presente) è un fondamento di natura storica16; dall’altro lato, si tratta di contendere alla concettualità postmodernista (a cui, sotto questo rispetto, appartiene anche la cosiddetta Gender Theory e il pensiero post-femminista americano) il modo di concepire la storia e la realtà storico-sociale. Detto altrimenti e più in generale, la prima mossa assume la formula che dice che la differenza sessuale è la differenza più profonda e fondamentale per l’umano, ma la intende non come una tesi di metafisica o di antropologia filosofica, ma come una tesi storica; la seconda mossa, poi, mostra che la dimensione storico-sociale non è il dominio dell’arbitrario o del convenzionale, di ciò che muta per un fiat della volontà, singolare o collettiva.

Alla domanda: “Il senso è libero, la differenza?”, questa prospettiva risponde ancora no, ma non radica questo no su una presunta non storicità della differenza (in quanto differenza privilegiata o fondamentale), bensì sulla comprensione del fatto che non tutto ciò che è storico ha la storicità evanescente di una decisione volontaristica. La storia è una dimensione stratificata o, riprendendo una formulazione di Stefania Ferrando, esiste una trascendenza interna alla realtà storico-sociale che spiega perché questa, pur potendo mutare e persino essere trasformata, non è immediatamente a disposizione dei soggetti, ma è anzi ciò a cui questi sono innanzitutto esposti.

 

  1. Sul carattere fondamentale della differenza sessuale

La differenza sessuale è un’evidenza del corpo umano. È qualcosa di fondamentale, un fatto che configura ogni vita femminile o maschile, le sue potenzialità le sue facoltà, le sue possibilità di esistenza nel mondo e nella storia. È fondamentale perché fonda e accompagna durante tutta la vita il corpo che ciascuno è, il corpo che ciascuna è. Uno è dato alla luce bambino, una è data alla luce bambina: è questo il primo annuncio che si fa – alla madre, al padre, agli amici e amiche – di una vita nuova, è la prima informazione che si dà. La differenza sessuale è pertanto la differenza umana primaria. Nessuno nasce neutro.
Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, 198717.

Più sopra ho proposto di intendere il Pensiero della differenza come una risposta al fatto che l’essere umano è sessuato, che l’umanità è attraversata dalla differenza sessuale. Il gesto inaugurale che quel Pensiero sviluppa e articola è dunque il riconoscimento di questo fatto, l’iscrizione di questo fatto nella nostra memoria storica – iscrizione che è il gesto simbolico e pratico che sta al cuore del femminismo. Come accennato, qualcuno potrebbe voler ribattere che quel fatto era ben registrato già prima, che è così ovvio da rendere persino difficile immaginare il momento in cui, all’alba dei tempi, sarebbe stato scoperto e registrato. Questa protesta non è priva di interesse perché ci obbliga ad essere più precisi.

Il riconoscimento inaugurale non è semplicemente del fatto che vi sono uomini e donne, ma del carattere fondamentale e decisivo di questo fatto. Tra ciò che ci capita, la differenza sessuale è una determinazione fondamentale. Questa è l’idea e significa che il modo in cui è volta a volta mediata nelle varie società è annodato ai modi in cui, in ciascuna di queste società ed epoche storiche, sono elaborate e affrontate tutte le altre questioni vitali. Nella mediazione della differenza sessuale ne va della configurazione dell’intera vita sociale e personale. Questo è il carattere fondamentale della differenza sessuale, che col femminismo sarebbe venuto in luce, ma come qualcosa che valeva anche prima. Il femminismo lo ha portato in luce contro quelle rappresentazioni che lo disconoscevano (e lo fa valere contro quelle che ancora lo disconoscono)18.

Mi pare molto importante sottolineare che il femminismo ha portato in luce il carattere decisivo o primario della differenza sessuale non attraverso una semplice constatazione, bensì mettendo in movimento quella decisività. Per cogliere questo punto, bisogna passare da una sua prima formulazione, non sbagliata, ma superficiale, a una seconda, più profonda e complessa. La prima: proprio perché ne hanno visto la decisività, le donne hanno fatto della differenza sessuale un punto di leva (cioè un significante) a partire da cui cominciare un’altra soggettivazione e un’altra tessitura di rapporti e di pratiche. La seconda: prendendo la differenza sessuale con cui erano definite da altri e facendone un significante di cui rinegoziare liberamente il senso, le donne hanno scoperto e inscritto nella nostra cultura il carattere decisivo e fondamentale che la differenza sessuale ha sempre avuto, infatti, quella loro rinegoziazione di che cosa sia l’esser donna ha mandato in disfacimento un’intera civiltà, il patriarcato, rivelando perciò come questa si reggeva su una certa definizione dell’essere donna e della differenza sessuale. La scoperta del carattere fondamentale della differenza è stata innanzitutto una scoperta pratica: la scoperta di quanto l’intero edificio fosse messo in movimento dalla messa in movimento della differenza, dal far passare il rapporto con la differenza dall’essere un rapporto con un significato foggiato da altri, all’essere un rapporto con un significante la determinazione del cui senso richiede l’esercizio della libertà. (Questa scoperta pratica è stata poi corroborata anche da indagini storiche nate in seno al femminismo: penso ad esempio a quelle che hanno rivelato la centralità di metafore prese dal campo semantico della differenza sessuale o della riproduzione per pensare e mediare le questioni più diverse, dal rapporto tra la madrepatria e le colonie, al “Partus Masculus” della scienza19. Qui emerge come il modo in cui era mediata la differenza sessuale fosse annodato al modo in cui venivano mediate anche altre dimensioni dell’esperienza).

Torniamo dunque alla tesi iniziale tenendo conto della correzione: il Pensiero della differenza è una risposta al riconoscimento (dovuto al femminismo) della decisività della differenza sessuale e dunque è anche risposta alla differenza sessuale in quanto determinazione fondamentale, primaria e decisiva dell’umanità. Ora, questa tesi con cui ho provato a chiarire l’ispirazione originale del Pensiero della differenza può essere sviluppata sia sostenendo, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, che anche il carattere decisivo della differenza sessuale, e non solo il riconoscimento di tale carattere, è una realtà storica, sia sostenendo che quel carattere decisivo si impone alla storia e non nella storia. La prima versione ammette, ovviamente, che la differenza sessuale era una determinazione decisiva in tutte le varie società patriarcali, ma contempla l’ipotesi che possa smettere di essere così decisiva: cose come le tecnologie della riproduzione potrebbero contribuire a fare sì che, in futuro, la differenza sessuale sia solo una delle tante cose che ci capitano e che, però, non hanno tanta importanza per la nostra vita, personale e collettiva. La seconda prospettiva, perlomeno per come io l’ho intesa e ho cercato di svilupparla, è in imbarazzo di fronte all’ipotesi appena formulata20 e se insiste sul fatto che la decisività della differenza sessuale si impone alla storia e non nella storia, non lo fa per scongiurare a parole quell’ipotesi. Ciò che ispira la seconda prospettiva è l’idea che per pensare la libertà (ad esempio la libertà di rinegoziare il senso della differenza sessuale) è necessario pensare il suo essere risposta a ciò cui è esposta (ad esempio, alla differenza sessuale). Quest’idea è qui articolata sulla base di un assunto che il lavoro di Ferrando mi ha rivelato nient’affatto scontato, ecco l’assunto: la storia è lo spazio in cui si può esercitare la libertà (la storia è la dimensione in cui la soggettività può riconoscersi come nel suo elemento – ciò che Hegel avrebbe chiamato lo spirito), ma allora ciò che trascende la libertà, che non è a sua disposizione, ma a cui questa è invece sempre esposta dovrà essere qualcosa cui è esposta l’intera storia e che, perciò, non si genera nella storia (ciò che Marx avrebbe pensato come la positività della natura che si manifesta nelle condizioni materiali in cui di fatto e volta a volta i rapporti storici si situano). L’idea di una trascendenza interna alla dimensione storico-sociale non la riuscivo a tener ferma nella sua distinzione, la riportavo a una qualche versione della trascendenza della natura rispetto alla storia.

Quando cominci a vedere una cosa, in questo caso un’altra possibile articolazione del nodo che lega la libertà a ciò cui è esposta, non riesci più a ricordare come vedevi prima, ma io ho i materiali preparati per l’incontro di Roma, e quelli confluiti in uno scritto di qualche anno prima21, che mi aiutano a non dimenticare come impostavo le cose in precedenza. Negli ultimi due paragrafi riprenderò alcuni di quei materiali per esporre il modo in cui avevo cercato di capire come si annodano la libertà e quella determinazione fondamentale cui la libertà è esposta, che è la differenza sessuale.

 

  1. Il Pensiero della differenza sessuale sta al di là della distinzione tra Sex e Gender

Per cogliere l’originalità e la forza di quella risposta all’evento della presa di parola pubblica da parte delle donne, risposta che è stata sviluppata soprattutto in Italia, sebbene certamente in dialogo anche con pensatrici non italiane, ad esempio con Luce Irigaray o con Antoinette Fouque, e che va sotto il nome di Pensiero della differenza sessuale, può essere utile prendere le mosse dalla distinzione tra Sex e Gender – sebbene tale distinzione non sia accolta da quel Pensiero Questa distinzione è stata ripresa anche da molte femministe, in particolare americane, negli anni ’70 del XX secolo, ma è tutt’ora in uso soprattutto nei contesti di ricerca medico-biologica. In effetti, quella distinzione consente di compiere due mosse che, in determinati contesti, appaiono fondamentali. Ritorno brevemente sulla distinzione poi chiarisco le due mosse che sembrano renderla necessaria.

La distinzione. Ogni società ha caricato la differenza tra uomini e donne di una molteplicità di significati aventi enormi effetti sulla vita degli individui dei due sessi. Quei significati, con le loro dimensioni valoriali e normative, contribuiscono a plasmare le possibilità pratiche che, nelle varie situazioni della vita, si aprono innanzi a un individuo se è maschio oppure se è femmina (ad esempio, se è maschio, dovrà dar prova di virilità, se è femmina rivelare come in lei parli con forza il desiderio di maternità ecc.). Ebbene, nonostante che, nelle varie società che hanno preceduto (o non hanno conosciuto) l’evento del femminismo, tali significati si presentassero tutti come fondati sulle cose stesse, cioè come giustificati dalla natura della sessuazione, la distinzione concettuale Sex/Gender consente di dire che solo alcuni di quei significati, quelli definiti e attribuiti dalle scienze naturali e che costituiscono il Sex, sono fondati in re, mentre tutti gli altri, quelli che costituiscono il Gender, sono invenzioni sociali e come tali sono ricontrattabili. (Si noti come il discorso che ragiona nei termini della distinzione Sex/Gender affronta il nodo tra libertà e sessuazione: la sessuazione sta dalla parte del Sex e di ciò che è indipendente dalla libertà, la libertà sta tutta nella costruzione del Gender, costruzione che può anche lasciare la libertà ad alcuni a scapito di altre…).

Le due mosse consentite da questa distinzione. La prima è quella compiuta da una parte del femminismo degli anni ’70 e la si può schematizzare così: le società patriarcali hanno avvolto il Sex con un Gender che è innanzitutto un veicolo di dominio delle donne da parte degli uomini; i significati che costituiscono quel Gender si saldano per ottenere, innanzitutto, una padronanza maschile sul corpo e sulla potenza generativa femminile; tuttavia, nonostante che il destino socialmente imposto alle donne fosse presentato come un destino inscritto nella loro natura, in realtà non dipende affatto dal loro Sex: è solo una costruzione e come tale può essere criticata e trasformata. Il movimento delle donne non va contro la natura (il Sex), ma contro quella particolare cultura (quella particolare configurazione del Gender) che realizza un dominio sulle donne.

La seconda mossa, la compiono oggi innanzitutto coloro, uomini e donne, che sono impegnati nella ricerca scientifica sulla differenza (biologica, genetica, neurologica ecc.) tra i sessi e può essere schematizzata così: il giusto conflitto contro i valori che in passato si pretendeva di fondare attraverso un rinvio ideologico alla natura non deve intralciare la ricerca scientifica, la quale non prende posizione sul Gender (né tantomeno sui problemi pratici cui il Gender patriarcale dava la sua risposta), ma accumula verità a proposito di quel pezzo di natura che è il Sex. La legittima decostruzione di quel che il patriarcato aveva edificato (spacciandolo per verità scoperte) a proposito della differenza tra i sessi, non faccia perdere di vista che esistono davvero delle verità da scoprire (o scoperte) sulla differenza tra i sessi: sono le verità che scopre la scienza naturale con il suo proprio metodo! Ecco la seconda mossa.

Proprio perché ha consentito queste mosse, l’introduzione della distinzione Sex/Gender ha funzionato come una buona mediazione. Ma lo ha fatto fino a che non sono cominciati ad emergere dei problemi che quella non aiutava affatto a pensare. In particolare, quella distinzione non è sembrata capace di fare spazio al riconoscimento del fatto che la pratica scientifica non è una procedura neutra che risponde solo alla verità, ma anche un’impresa umana su cui pesano quegli stessi valori e quelle stesse norme che contribuiscono a regolare gli altri ambiti della vita. Così, se i significati che dovremmo rubricare dal lato del Gender contribuiscono a determinare quella pratica che dovrebbe definire in maniera neutrale il Sex, allora il Gender, lungi dal venire dopo il Sex, è l’ambito più ampio all’interno del quale la delimitazione del Sex viene compiuta. In ultima analisi – e questa è la versione più radicale della critica della distinzione Sex/Gender, critica compiuta dalla cosiddetta Gender Theory – ecco, in ultima analisi c’è solo il Gender: la costruzione sociale del Gender è anche costruzione della distinzione tra Sex e Gender. Dapprima, l’intera costruzione sociale del Gender si presentava come la scoperta dei significati naturali del Sex, poi, in risposta alle critiche femministe, quella costruzione sociale si è presentata come se una parte di ciò che costruiva fosse ancora la verità sul Sex, mentre un’altra no; ecco, la versione più radicale della Gender Theory aggiunge che è venuto il tempo di lasciar cadere ogni maschera: la costruzione è costruzione, la verità o la natura non c’entrano nulla (sono state operatori ideologici che ora vanno lasciati cadere).

Evidentemente, questa decostruzione radicale della distinzione Sex/Gender è essa stessa una mediazione che consente alcune mosse, ad esempio, la critica della presunta neutralità della scienza e l’evidenziazione dei vari interessi che condeterminano la pratica scientifica, ma, per fare un secondo esempio, anche una certa difesa di tutti coloro che non si riconoscono nella differenza tra uomini e donne, distinzione che veniva protetta e legittimata dal discorso Sex/Gender in quanto era lì rubricata sotto il Sex. Infine, questa mediazione compiace l’idea di libertà con cui oggi veniamo cresciuti, un’idea che tende a farci identificare ciò che non è scelto con ciò che è cattivo perché è imposto e che dunque merita di essere superato: in effetti, la Gender Theory sembra dare alla libertà la massima estensione possibile (se tutto è costruzione, allora tutto è liberamente ricontrattabile). A parte queste ragioni pratiche, comunque, la decostruzione radicale della distinzione Sex/Gender ha qualcosa di affascinante anche da un punto di vista squisitamente teoretico.

In effetti, la distinzione Sex/Gender, per quanto intuitivamente opportuna, è, da un punto di vista filosofico, un vero compromesso di bassa lega. Come accade ogni volta che viene operata la distinzione tra due domini (la mente e il corpo, il pensiero e l’essere, ecc.) senza preoccuparsi di chiarire qual è il piano comune su cui la distinzione viene tracciata, anche in riferimento alla distinzione tra Sex e Gender sorge il problema di spiegare come le cose che appartengono ai due domini possono interagire tra loro. I due domini finiscono per essere meramente giustapposti e la chiarezza che la distinzione sembrava portare si rivela foriera di confusioni e oscurità. Sotto questo profilo, il modo in cui la Gender Theory risolve l’opposizione Sex/Gender, ha l’eleganza del modo in cui l’idealismo risolve la dicotomia tra il pensiero e l’essere: non ci sono le cose di là dai pensieri, forse raggiungibili o forse no, invece, le cose sono per noi innanzitutto il contenuto dei pensieri; mutatis mutandis, non ci sono i significati-Sex e i significati-Gender che si sommano non si sa come nella nostra esperienza, bensì, la distinzione tra i due è contenuta in alcuni dei significati-Gender, che poi sono gli unici che ci sono e che sono i significati intessuti nel processo storico-sociale.

Questa soluzione costruttivista dei paradossi generati dalla cattiva distinzione tra Sex e Gender, per quanto “elegante”, è instabile: genera nuovi paradossi, che non sono solo difficoltà logiche ma anche “stretture” e sofferenze sul piano dell’esperienza e della pratica politica. Il fatto è che non si può liquidare del tutto il riferimento alla verità dell’esperienza. Lo scontro tra i discorsi (e anche tra le pratiche) non può essere rappresentato solo come uno scontro tra costruzioni differenti in cui tutto dipende dalla diversa forza (o potenza) di imporsi di ciascuna. Quelle presunte “costruzioni” sono in realtà mediazioni di ciò che si offre nell’esperienza e si misurano, certo in maniera complessa, con l’idea di essere giuste verso ciò che in quell’esperienza si fa sentire. Per fare spazio a tutto questo, senza ricadere nella semplificazione grossolana della distinzione tra Sex e Gender (in cui i significati del Sex si misurano sulla verità, ma solo attraverso la pratica scientifica, come se questa fosse neutrale, mentre i significati del Gender sono costruzioni sociali arbitrarie che non si misurano su nulla, se non il differenziale di forza degli interessi in gioco), occorre prendere un sentiero più ripido e difficile di quello della Gender Theory costruttivista. È il sentiero su cui si è inoltrato, tracciandolo, il Pensiero della differenza sessuale.

Torniamo a rivolgere l’attenzione a quel complesso variegato di significati che costituiscono il senso che in una data società ha la differenza sessuale. Grazie a questo volume di significati, gli individui di quella società sanno avere a che fare col loro esser sessuati, ossia, hanno modalità di rapportarsi a questo fatto che sono quelle e non altre: alcune condotte sono ammesse, altre no, certe classificazioni sono riconosciute, altre no, ecc. Questi significati costituiscono l’etica della differenza sessuale di quella società, la messa in (un qualche) ordine pratico-simbolico della sessuazione. Apparentemente, quei significati sembrano insegnare quando la differenza conta (ad esempio: nelle relazioni d’amore) e quando no (ad esempio: nel dibattito politico o nella pratica scientifica), ma in realtà insegnano come la differenza conta nei vari luoghi, cioè come va praticata nei vari contesti.

Abbiamo già incontrato tre modi di concepire questa etica:

 

A questo punto credo si possa cogliere la specificità del Pensiero della differenza. Per tale Pensiero, quell’etica non è dettata da una dimensione che la trascende e tuttavia non è neppure una dimensione assoluta che costruisce, come sua finzione interna (cioè come operatore ideologico), l’immagine di una dimensione a sé trascendente e non immediatamente a disposizione. Quell’etica è davvero una risposta a qualcosa cui è esposta (e che dunque non padroneggia e che non ha posto da se stessa), salvo che questo qualcosa non detta significati, ma chiede la loro invenzione. Questo qualcosa, uno dei cui nomi, per noi, è differenza sessuale, opera dunque come una questione, una questione che investe l’intera società e di cui la configurazione sociale volta a volta data può essere intesa come una risposta. L’etica che in una data società ordina il rapporto alla differenza sessuale (cioè i vari modi in cui, nei diversi contesti, si pratica il proprio esser sessuati) può essere intesa come un complesso più o meno integrato di mediazioni attraverso cui in quella società si fa fronte (cioè si risponde) alla questione della differenza sessuale, alla questione che è la differenza sessuale. Se dunque è vero che tali mediazioni sono storiche, sono l’elemento stesso della storicità, non per questo sono il dominio dell’arbitrario e del convenzionale: nella misura in cui sono mediazioni, allora sono risposte, cioè qualcosa che innanzitutto è esposto a una precedenza e che si misura su di essa.

Ciò che precede le mediazioni è la questione che le invoca e che, se queste sono buone, dà loro necessità – dà necessità a quelle mediazioni che consentono di avere a che fare con la questione in un modo che, perlomeno per un po’, è soddisfacente per chi è coinvolto (ossia è giusto verso chi è coinvolto)22. Ora, tale questione merita di essere detta assolutamente inaggirabile, se è vero che non ci può essere una società che non sia interrogata da essa e dunque tale che una parte della sua etica non sia leggibile come una risposta a quella questione. In effetti, se le cose stanno così, allora quella questione è una sorta di universale antropologico che si radica su un piano che è inevitabilmente più profondo di quello in cui stanno le mediazioni che cercano di affrontarla. Qualora invece si ammetta la possibilità che una società non sia più interrogata dalla differenza sessuale, cioè che per quella società la sessuazione sia solo una delle tante cose che capitano senza però fare differenza (perlomeno senza farla dal punto di vista dell’ordine della convivenza), allora la nozione di “questione inaggirabile” può essere attribuita alla differenza solo limitatamente, ad esempio per dire che è nella nostra società o in quelle che l’hanno preceduta che la differenza sessuale si è costituita come una questione inaggirabile.

Per rendere ancora più chiaro il passaggio appena esposto, vorrei tornarvi prendendo un’altra strada.

 

  1. La differenza sessuale come questione inaggirabile e la libertà della mediazione

La formula: “Il senso libero della differenza sessuale” esprime una mediazione che intende portare ordine e luce sul nodo tra libertà e sessuazione, quest’ordine consiste nel dire (a) che la libertà sta dalla parte del senso (cioè dell’articolazione simbolica), (b) che, però, il senso è senso di qualcosa, qualcosa che dunque precede la sua articolazione simbolica e (c) che questo qualcosa viene qui nominato, appunto, come la sessuazione, la differenza sessuale. Il discorso che ora cerco di chiarire introduce alcune distinzioni che vorrebbero servire a sviluppare ulteriormente la mediazione appena illustrata affinché questa possa fare spazio a cose a cui il Pensiero della differenza, cui si deve quella mediazione, senz’altro vuole fare spazio giacché le riconosce in altre sue mediazioni. La prima di queste cose cui bisogna fare spazio è il fatto che la sessuazione ha sempre avuto un qualche senso (cioè è sempre stata articolata simbolicamente, cioè è sempre stata ordinata in qualche modo da un’etica), anche se tale senso non è sempre stato libero per le donne. Fare spazio a questo fatto consente, da un lato, di riconoscere tutto il suo carattere epocale all’evento del femminismo (tale evento segna infatti il passaggio dall’articolazione non libera a quella libera, o perlomeno alla possibilità di quella libera), ma consente anche di non farsi un’immagine semplice dell’articolazione simbolica. Cominciamo da questo secondo aspetto, più avanti torneremo sul primo.

Se la sessuazione ha sempre avuto un qualche senso, ma questo senso non è sempre stato liberamente negoziato dalle donne, allora la sua tessitura accadeva prima in un altro modo. Si trattava di una tessitura sociale che si configurava in modo da non riconoscere alle donne la posizione di soggetti capaci di partecipare attivamente a tale tessitura. (Questo, ovviamente, non vuol dire che le donne non partecipassero di fatto a quella tessitura, ma solo che questa partecipazione non era riconosciuta come la partecipazione realizzata da un soggetto a pieno titolo).

A questo punto, si impone una domanda: tale tessitura (e dunque, probabilmente, anche quella sua speciale forma che è la rinegoziazione libera) è una costruzione arbitraria o si misura su qualcosa che, misurandola, non è a sua disposizione? Si tratta di una domanda che riguarda il modo in cui accade la tessitura del senso, cioè che riguarda la natura di tale tessitura: essa è dell’ordine del costruire nel vuoto o è dell’ordine del rispondere a qualcosa che ha precedenza e a cui si è esposti? Ora, nella misura in cui il Pensiero della differenza sessuale è un pensiero dell’esperienza, allora si orienta evidentemente sulla seconda possibilità: il pensiero, che è innanzitutto articolazione simbolica, è una risposta a ciò che si offre nell’esperienza e lì ci tocca. Ma se la tessitura del senso ha la natura di una risposta, allora può essere intesa come un’opera che tenta di mediare qualcosa che non si presenta già in ordine (cioè che non si presenta già con un senso che ci consente di avervi a che fare in maniera ordinata). C’è chi dice che questo qualcosa che l’opera di mediazione tenta di mediare è l’intrattabile del corpo, qualcun altra che è come una X indefinita. Per ragioni che ora tralascio, penso che queste siano risposte che generano troppe difficoltà. Di quel qualcosa sappiamo che chiede opera di mediazione, cioè che chiede risposte, e allora atteniamoci a questo e diciamo che è una questione. La differenza sessuale, ossia ciò che grazie al femminismo chiede un’articolazione libera del suo senso, ma che già prima chiedeva la tessitura di un senso, è una questione. E lo è proprio nella misura in cui chiede mediazioni.

Si noti che vi sono questioni che si formano solo in determinati contesti: ad esempio, la nostra società è esposta alla questione della salvaguardia dell’ambiente, mentre in epoche passate, l’unica questione legata all’ambiente era quella di salvaguardarsi dai pericoli in esso nascosti. A mio parere, ve ne sono altre che investono qualunque contesto sociale, cioè che sono questioni non solo per questa o quella società, ma per qualunque società: è la società come tale e non solo questa o quella società ad essere loro esposta. Tra queste questioni c’è ad esempio la morte, ma c’è anche la differenza sessuale. Ciò che sto sostenendo è che non è all’interno di una certa società (o di alcune determinate società) che la differenza sessuale comincia a divenire una questione, piuttosto, essa interroga in quanto tale. Detto altrimenti: è per sé decisiva o primaria, cioè tale da interrogare e invocare opera di mediazione; insomma, è come tale una questione inaggirabile, non è qualcosa che qualche nuova tecnologia potrebbe rendere inerte, cioè rendere non più una questione, ma solo una delle tante cose che capitano. (Questa è la tesi che ho formulato a Roma e prima ancora in uno scritto del 2010 e di cui ora mi sono accorto che non ho ragioni speciali per tenerla ferma).

Torniamo dunque alla domanda: “Il senso è libero, la differenza?”, ebbene, la risposta che emerge da quanto vengo dicendo può essere formulata così: la differenza è la questione che mette in moto la libertà (la libera rinegoziazione del senso) e a cui dunque la libertà è esposta. Come accennato, questa tesi io la integro aggiungendo che la differenza sessuale è una questione inaggirabile, cioè qualcosa che interroga e dunque mette in movimento qualunque possibile società. La differenza sessuale è in quanto tale una questione che invoca l’opera sociale di mediazione e dunque il suo far questione non si colloca al livello dell’opera sociale di mediazione, ma in una dimensione cui quest’opera è esposta. Come ho ancora accennato, potrebbero esserci ragioni per rifiutare questa aggiunta: in questo caso, la tesi della questione inaggirabile può essere accolta solo in una versione più debole. In tale versione servirebbe a dire che, in quelle società in cui la differenza sessuale di fatto si costituisce come questione (e tra queste società c’è ancora la nostra e ci sono quelle che l’hanno preceduta), ecco, in tali società, la differenza non si costituisce come una questione marginale (che riguarda un certo ambito della vita senza toccare gli altri), ma come una questione che in nessun ambito della vita si lascia aggirare. Insomma, anche se potrebbe non essere vero di ogni società, perlomeno è vero che in quelle note l’articolazione simbolica della differenza sessuale (la mediazione della differenza sessuale) si intreccia alle articolazioni simboliche di tutti i momenti della vita. L’etica con cui è regolato ogni aspetto della vita e della convivenza non è indifferente alla sessuazione e al modo in cui questa è regolata. Così, nelle società patriarcali, il modo in cui era regolata la partecipazione alla vita politica non era indifferente ai significati e ai valori distribuiti sulla differenza sessuale, cioè sugli uomini da un lato e le donne dall’altro.

A questo punto, però, bisogna tornare sulla importante distinzione che è stata impressa nella storia dall’evento del femminismo, mi riferisco alla distinzione tra quella mediazione del senso della differenza, cui le donne partecipano come soggetti liberi e quella mediazione che invece non riconosce loro la possibilità di occupare tale posizione di libertà. Si tratta di rendere conto della distinzione tra due forme di mediazione del senso della differenza sessuale. Ma, tornare su questa distinzione significa anche interrogare l’altra parte della formula: “il senso libero della differenza sessuale”, cioè la prima parte. C’è insomma una domanda che orienta questi ultimi capoversi, che è l’inverso di quella da cui siamo partiti e che era nel titolo del Grande Seminario di Diotima. Formulo così quest’altra domanda: “la differenza è questione che chiede elaborazione di senso, ma che cosa significa rispondervi liberamente?”.

Render conto di ciò che cambia, nella mediazione della differenza sessuale, con l’evento del femminismo richiede innanzitutto di riconoscere ciò che non cambia. Ebbene, che cos’è che non cambia? Per prima cosa, il fatto che vi sia opera di mediazione in risposta alla questione della differenza sessuale. A questo punto, però, non manca chi vorrebbe aggiungere che la differenza tra la mediazione che accadeva prima dell’evento del femminismo e la mediazione successiva a tale evento consiste nel fatto che la prima era una mediazione compiuta con il potere e la forza, mentre la seconda è una mediazione simbolica. Ebbene, tale aggiunta è un errore da cui il Pensiero della differenza mette continuamente in guardia: anche nelle mediazioni di potere si nasconde del simbolico ed è per questo che la competenza (o autorità) simbolica può essere efficace anche per disfare il potere. D’altro canto, anche dopo il femminismo, lo spazio della mediazione della differenza sessuale non è uno spazio bonificato dal potere: il conflitto per la mediazione giusta è anzi sbilanciato dal fatto che esistono anche mediazioni che sfruttano la forza e il potere per operare.

L’opera di mediazione che risponde alla questione della differenza sessuale è dunque, in generale, un’opera fondamentalmente simbolica, sebbene sia l’evento del femminismo ad aver portato particolarmente in luce questa verità. Come? Per via del fatto che la ricontrattazione femminile del senso della differenza non ha di fatto utilizzato i mezzi del potere (o della presa del potere o della lotta per il potere) per operare: ciò ha fatto emergere che non erano questi mezzi a detenere il segreto dell’efficacia della mediazione.

Questo tratto della mediazione, cioè il suo essere prima di tutto di natura simbolica, non è l’unico suo tratto strutturale che di fatto è venuto in piena luce solo grazie all’evento storico del movimento delle donne. Il fatto stesso che la differenza sessuale sia una questione che chiede la tessitura di mediazioni, ma senza mai risolversi in una di esse è venuto in chiaro proprio nel momento in cui tutte le mediazioni precedenti sono esplicitamente apparse insufficienti. Come abbiamo già accennato, è col senno di poi che si è riconosciuto il far questione della differenza sessuale in ogni configurazione sociale; è grazie all’evento del femminismo che in ciò che si presentava come l’etica naturale della differenza sessuale è stata riconosciuta una certa mediazione che tentava di far fronte alla questione della differenza sessuale (e che riusciva ad essere efficace facendo pagare alle donne le sue forzature). Detto altrimenti, è vero che il far questione della differenza è parte di ciò che non cambia con l’evento del femminismo, ma bisogna subito aggiungere: solo dopo questo evento, quella questione si presenta esplicitamente come tale innanzi ai singoli, dapprima le donne, ma subito dopo anche gli uomini; in precedenza, la differenza faceva questione in maniera più tacita, metteva in movimento non le singole donne e i singoli uomini, ma l’opera tacita di tessitura dei costumi (sebbene non mancasse il lavoro esplicito dei legislatori, né quello della classe intellettuale, ovviamente maschile). Ecco dunque che, se è corretto dire che la differenza sessuale è sempre stata, in ogni società, una questione che chiedeva opera di mediazione, lo è altrettanto dire che, con l’evento della presa di parola delle donne, c’è stato un cambio nella forma stessa della questione e non solo nelle risposte che riceve: è diventata una questione apertamente riconosciuta e che investe anche i singoli direttamente. (Detto altrimenti, non è solo il legislatore o il filosofo o il prete che ha il problema di che cosa significhi essere padre, cioè di quale sia l’etica che regola la paternità: questo diventa un problema che investe ogni padre. Nel caso poi del significato dell’esser donna, la trasformazione è ancora più radicale: non solo da questione che investe direttamente pochi a questione che investe direttamente tutti, ma da questione che, pur riguardando le donne, era affrontata solo da uomini per conto delle donne, a questione che è assunta direttamente dalle donne, una per una).

(Seppure brevemente, conviene qui esplicitare un’ulteriore conseguenza di quanto veniamo dicendo. Abbiamo detto che il movimento delle donne fa sì che la questione della differenza sessuale si riveli esplicitamente come tale e nella sua complessità alle donne e agli uomini e dunque riveli quanto le mediazioni elaborate per essa in precedenza fossero, non già connessioni di significati naturali, bensì arrangiamenti imperfetti in cui passava anche dominio e violenze. Ebbene, questo non significa che il femminismo abbia posto innanzi alle donne e agli uomini la questione della differenza sessuale come una sorta di astratto problema che si colloca al di là di ogni mediazione ricevuta. No, grazie al femminismo, il far questione della differenza si manifesta loro come insufficienza, inadeguatezza, non-giustezza delle mediazioni tradizionali e ricevute. Elementi dell’esperienza che rinviano alla differenza sessuale, ma che non trovano posto nelle mediazioni ricevute chiedono ora mediazioni più giuste nei loro confronti: questo è il concreto far questione della differenza che si produce con l’evento del femminismo. Non è che quell’evento cancelli tutte le mediazioni precedenti e lasci apparire una sorta di “questione pura” della differenza: ciò che appare è che sia le mediazioni offerte dalla tradizione e dalla società patriarcale, sia quelle offerte dal capitalismo consumista non sono all’altezza del loro compito di mediazione, ed ecco dunque che ciò che dovrebbero mediare e sciogliere si presenta all’improvviso come questione mai davvero risolta, né mai davvero ascoltata con senso del giusto – in primis con senso del giusto verso il desiderio esorbitante delle donne)23.

L’evento della presa pubblica di parola da parte delle donne produce una trasformazione nell’opera di mediazione simbolica della questione della differenza. Questa è la tesi che stiamo precisando e chiarendo. Abbiamo anche aggiunto qualcosa a proposito di ciò che cambia con quella trasformazione. Per arricchire ulteriormente il discorso, occorre resistere a un’altra semplificazione, più sottile di quella per cui la trasformazione consisterebbe nel passaggio da una mediazione di potere a una mediazione simbolica: si tratta della semplificazione per cui la mediazione simbolica che era sociale ora diventa personale o individuale o singolare. Ebbene, è vero che, nella misura in cui si ricontratta liberamente il senso, lo si fa in prima persona, tuttavia, quest’opera non riguarda solo la singola persona, la singola donna o il singolo uomo. È ancora opera sociale, solo che riesce ad essere sociale e personale insieme. Anche in questo caso, dunque, abbiamo a che fare con una trasformazione che non riguarda solo i contenuti della mediazione, ma la sua stessa forma, la sua stessa struttura. Vorrei soffermarmi un poco su questo punto.

La rinegoziazione personale del senso non è una produzione immaginaria, che trasforma solo nell’immaginario e dà libertà solo nell’immaginario. D’altro canto, il Pensiero della differenza (e il femminismo radicale nel cui seno si è formato) mettono in guardia dal ragionare così: “per evitare la deriva immaginaria, occorre che il soggetto che ricontratta il senso sia un soggetto collettivo”. Questo ragionamento è tipico nella riflessione politica maschile. È il ragionamento che porta a credere che il punto del femminismo radicale stia nell’aver indicato nelle donne il nuovo soggetto rivoluzionario: non il proletariato, non i migranti, ma le donne. A mio parere, la sfida del femminismo è molto più radicale e investe l’idea stessa di soggetto collettivo e la convinzione che sia necessario costituirlo. Non è il soggetto collettivo quello che salva il singolo dalla deriva immaginaria, dal produrre belle pensate invece che vere mediazioni simboliche.

L’opera di mediazione del senso della differenza, nella misura in cui vi si partecipa liberamente e da soggetti è opera personale, ma, in ultima analisi, è anche (una rinegoziazione de) l’opera sociale di mediazione. Non è faccenda di una o due: ne va del modo in cui è regolata e ordinata la convivenza; ne va dell’etica, per riprendere ancora una volta questa parola nell’accezione hegeliana rilanciata da Irigaray24. Nel momento in cui le donne hanno ripreso su di sé questa determinazione: “esser donna” e ne hanno rinegoziato il significato, usandola dunque come un significante il cui senso era da ricontrattare, hanno anche trasformato la qualità della tessitura sociale del senso. Inscrivendosi come soggetto di enunciazione e non più solo come soggetto di enunciati altrui, non hanno solo portato nuovi contenuti, ma cambiato la forma stessa della tessitura simbolica. E questa trasformazione non consiste solo nel fatto che c’è un soggetto d’enunciazione in più: il fatto che “ce ne sia uno in più” significa che non ce n’è uno solo e dunque che l’articolazione dell’universale può emergere solo da un confronto tra quei soggetti. L’universale diventa l’opera di mediazione cui si partecipa partendo da una posizione di parzialità.

Ma che natura ha questo “confronto” che è il nuovo luogo della tessitura del senso? Questa è la domanda che mi pare si imponga a questo punto del ragionamento, ma è anche una domanda che porta oltre i limiti di questo scritto. Posso però indicare alcuni degli elementi cui senz’altro la risposta dovrà fare spazio: sono gli elementi che si sono imposti fino ad ora.

Il primo è che in questo confronto, cui si partecipa da una nuova posizione di enunciazione, quella preparata dal femminismo e che non prevede più di poter dar voce all’universale senza far leva sulla propria parzialità (e dunque senza passare per la relazione), l’accordo, l’armonia e la riconciliazione non sono garantiti. In questo senso, quel confronto è innanzitutto un conflitto: conflitto con le propaggini del vecchio modo (patriarcale) di tessere il senso e generare l’etica che regola la vita e la convivenza e conflitto con le nuove modalità, neutralizzanti o regolate dal mercato, di produrre quella tessitura, ma poi anche conflitto con gli altri che pure vi partecipano facendo leva sulla loro parzialità perché “confliggere” vuol dire ammettere che l’accordo potrebbe non essere facilmente a disposizione e che la difficoltà di trovarlo non può più essere pagata dalla libertà femminile.

Il conflitto, tuttavia non è la guerra, cioè non è votato o disponibile alla distruzione dell’altro25. Questo però mi pare comporti che quei soggetti liberi che partecipano al conflitto senza farne una guerra riconoscono di essere parte di un orizzonte più grande. Non un orizzonte cui possa aver senso sacrificare la propria libertà, ma un orizzonte che è la posta in gioco della propria libertà. Questo orizzonte più grande è ciò che in precedenza ho evocato con la locuzione “un altro ordine di rapporti” o “un’altra civiltà”.

Questo confronto, che è un conflitto che non degenera in guerra, non è semplicemente un tentativo di trovare il difficile accordo tra interessi parziali. Se ha l’universale come posta in gioco, allora ha una misura che lo trascende e che non è a sua disposizione. Questa misura, propongo di chiamarla: esser giusti nei confronti dell’esperienza e di ciò che in essa si fa sentire, tra cui c’è anche il proprio desiderio e quello altrui e ci sono anche quegli ideali e quei valori che si fanno valere e su cui non vogliamo cedere26. La mediazione che risponde a questa misura, che non può che essere una mediazione libera, è anche, proprio perché giusta verso l’esperienza (almeno nella misura in cui è riuscita ad esserlo), una mediazione non arbitraria, né superflua. È una mediazione necessaria27.

Questo confronto, che è un conflitto che non degenera in guerra perché si orienta su un altro ordine di rapporti da tessere essendo giusti verso ciò che nell’esperienza ci tocca, è opera simbolica, cioè è un’opera anche pratica, ma soprattutto è un’opera di parola, perché le parole, nel mondo umano, possono spostare ciò che sembrava una montagna. Sennonché, l’opera di parola, se ci interroghiamo sulla sua stoffa e le sue condizioni di possibilità, ci riporta alla lingua materna e alla relazione in cui l’abbiamo ricevuta. Secondo il Pensiero della differenza, con quella relazione bisogna trovare e inventare il modo di confrontarsi per sciogliere davvero il nodo tra libertà e sessuazione.

 

Note

1 Questa articolazione è in corso d’opera, ma alcuni risultati sono formulati in: Stefania Ferrando, La différence comme pratique de la liberté. Philosophie politique et sexuation du monde. Rousseau, Olympe de Gouges et les saint-simoniennes, Tesi di dottorato (Università degli studi di Padova e Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociale di Parigi), giugno 2015; La differenza indecente in: Marisa Forcina (a cura di), Un punto fermo per andare avanti: saperi, relazioni, lavoro e politica, Milella, Lecce 2015. Inoltre, la relazione: La differenziazione dei sessi come posta in gioco, presentata al convegno: Differenza sessuale e differenza di genere. Questioni di etica (Almo Collegio Borromeo, Pavia 10-12 settembre 2015), convegno di cui è prevista la pubblicazione degli atti.

2 La difficoltà per una donna di riconoscere autorità a un’altra donna erra annodata a quella “devastazione” del rapporto tra una figlia e sua madre che la psicoanalisi ha evidenziato e che Luce Irigaray ha riportato, non già alla struttura dell’ordine simbolico, ma alla struttura profonda delle società patriarcali; cfr. Luce Irigaray, Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1987. Per un esame di alcune delle principali posizione psicoanalitiche sul rapporto madre-figlia (Freud, Klein e Lacan): cfr. Luisella Brusa, Mi vedo riflessa nel suo specchio. Psicoanalisi del rapporto tra madre e figlia, Franco Angeli, Milano 2004. Quanto alla difficoltà maschile, si veda ad esempio: Luisa Muraro, Differenza maschile e superiorità femminile (1992), in Ead., Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, a cura di Riccardo Fanciullacci, Orthotes, Napoli 2011, pp. 139-146.

3 Si tratta di uno dei temi centrali di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1991), Editori Riuniti, Roma 2006.

4 Tema centrale del pensiero di L. Irigaray, se ne trova una formulazione sintetica, ma efficace in Luisa Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, a cura di Riccardo Fanciullacci, Orthotes, Napoli 2011, pp. 86-99.

5 L’espressione: “Passare a un altro ordine di rapporti” faceva da titolo al numero 66 (2003) della rivista trimestrale della Libreria delle donne di Milano: «Via Dogana. Rivista di pratica politica».

6 Questo tema l’ho sviluppato un poco di più nella relazione, dedicata all’idea di autorità simbolica nel pensiero nato in seno al femminismo italiano, che ho presentato nel già citato convegno: Differenza sessuale e differenza di genere. Questioni di etica (Almo Collegio Borromeo, Pavia 10-12 settembre 2015). Quella relazione e dunque la sintesi qui esposta deve moltissimo a una discussione con Stefania Ferrando.

7 Che cosa inquieta gli uomini nella richiesta di attribuire autorità a una donna? Rispondere a questa domanda richiede un lavoro, su di sé, ma non solo su di sé, cioè non solo di carattere introspettivo, che è tanto necessario, quanto difficile. Nello spazio di questa nota ne posso evidenziare un aspetto poco appariscente, ma decisivo. Questa inquietudine non è semplicemente qualcosa che ostacola uno scambio con le donne all’altezza dell’evento femminista e cioè all’altezza del loro essere soggetti liberi: è un ostacolo, ma anche ciò l’interrogazione del quale è già l’inizio dello scambio. Detto altrimenti: quell’inquietudine non va interroga e superata per poi poter entrare nello scambio; uno scambio in cui gli uomini non tentano di saltare la loro differenza sessuale è appunto quello che passa per l’interrogazione di quella inquietudine. Il fatto è che l’interlocuzione che l’evento della soggettività femminile rivolge agli uomini non li convoca solo come degli intelletti, ma come intelletti sessuati (o come corpi umani sessuati) e questo appare proprio nel fatto che li tocca anche a livello delle emozioni e dell’inconscio. Stare allo scambio non è mettere da parte gli effetti di questo toccare, ma proprio far leva su di essi. Non rimuovere quelle reazioni emotive che non si sanno subito gestire, ma mettersi in ascolto di questa esposizione, partire da lì.

8 Cfr. Ina Praetorius, Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, Milano 2011.

9 L’idea di chiamare “esorbitante” il desiderio femminile che emerge con il femminismo, ma poi anche il desiderio femminile come tale, l’ho ricavata dal libro di Chiara Turozzi, Femminile esorbitante, L’iguana, Verona 2012.

10 Cfr. Angela Putino, Impersonale della politica, in Stefania Tarantino – Giovanna Borrello (a cura di) Esercizi di composizione per Angela Putino: filosofia, differenza sessuale e politica, Liguori, Napoli 2010, pp. 108-111.

11 Oltre che all’interno di ogni volume di questa collana, vissuta tra il 1990 e il 1994, la presentazione di Muraro l’ho riportata in una nota della mia curatela di Luisa Muraro, Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, op. cit., p. 64.

12 56 sono le “opzioni di genere” che Facebook ha reso disponibili agli utenti statunitensi per autodefinirsi.

13 Questa strategia è quella che, in riferimento a quell’altro che è la donna, ha esplorato e decostruito Luce Irigaray, soprattutto in: Speculum. Dell’altro in quanto donna (1974), Feltrinelli, Milano 2010.

14 Quest’altra strategia di immunizzazione dal contatto con l’altro che viene ottenuta moltiplicando le identità all’interno di cui, poi, ciascun gruppo è tenuto a vivere è la stessa che viene messa in opera dal discorso reazionario sulle società multiculturali e sui fenomeni di migrazione: poiché ogni cultura (comprese quelle degli altri) ha un’identità che va protetta, allora bisogna ostacolare i processi di assimilazione (compreso quello per cui gli altri, venendo da noi, finirebbero col perdere la loro identità); cfr. Alain De Benoist, Identità e comunità, Guida, Parma 2005.

15 Quella che ho qui sintetizzata, mi pare la concezione della differenza sessuale che emerge, ad esempio, da Luisa Muraro, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009.

16 Si tenga presente questa sequenza: (a) il privilegio della differenza sessuale come significante per cui far passare la tessitura di una nuovo ordine di rapporti si fonda sul carattere decisivo o primario di quella differenza rispetto ad altri tratti da cui ci accade di essere determinati; (b) la tesi che sto ora considerando nel testo afferma che questa decisività è essa stessa una realtà storica e non una sorta di universale antropologico; (c) a prescindere dalla tesi ora in considerazione, ma per ricollegarsi a quanto detto nel paragrafo 2, bisogna aggiungere che il privilegio della differenza sessuale come significante trasformativo si traduce nel privilegio storico della differenza femminile; (d) il privilegio della differenza femminile (che si inscrive come riconoscimento di autorità alle donne) è legato, innanzitutto, al fatto che più che altro le donne sono state all’altezza della crisi di quel monologo dell’Uno che era la società patriarcale (società che riconosceva la differenza sessuale, ma inquadrandola all’interno di una gerarchia di ruoli fissa) e, poi, al fatto che sono esperienze più che altro di donne quelle su cui si è fatto leva, nella politica nata dall’evento del femminismo, per elaborare nuove mediazioni pratiche e pensiero per tutti (ad esempio, per pensare una fuoriuscita dall’attuale organizzazione del lavoro).

17 La citazione è tratta dal primo saggio compreso in questo volume: Cristiana Fischer, Elvia Franco, Giannina Longobardi, Veronika Mariaux, Luisa Muraro, Anita Sanvitto, Betty Zamarchi, Chiara Zamboni, Gloria Zanardo, La differenza sessuale: da scoprire e da produrre, pp. 7-39.

18 Sul disconoscimento della decisività della differenza sessuale, il discorso è complesso. Le forme più nette di questo disconoscimento sono quelle che ruotano intorno alla nozione di neutro. Nati perlopiù nella seconda modernità, sono tra i discorsi più influenti anche nel panorama contemporaneo: per certi versi sono il primo avversario del femminismo, quello che cerca di rimuovere la stessa verità che questo porta. Uno di questi discorsi è ad esempio quello per cui in politica la determinazione fondamentale è tra cittadino e non cittadino, mentre la differenza sessuale del cittadino sarebbe insignificante. Per questo discorso, il fatto che la costituzione della figura del cittadino fosse dapprima integrata a una esplicita esclusione delle donne (destinate alla cura del privato) è solo un fatto accidentale che può essere modificato senza modificare quella figura – l’idea sarebbe insomma che il contratto sessuale che sorreggeva il contratto sociale, lo sorreggeva solo accidentalmente e senza entrare a condizionare la forma del secondo, per questo tale forma può essere estesa alle donne senza reali difficoltà. È dunque innanzitutto il dispositivo neutralizzante ciò che disconosce la differenza sessuale. In precedenza, cioè fino a tutta la prima modernità, la differenza veniva riconosciuta, ma immediatamente inquadrata in significati rigidi che fissavano ruoli e destini, sia agli uomini (cui era aperta la vita politica e intellettuale, ma che erano anche destinati alla guerra ecc.) sia alle donne (le quali, perlopiù, dovevano essere mogli e madri).

19 Su quest’ultimo aspetto, si veda, ad esempio, Evelyn Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, Milano, p. 57.

20 Una formulazione di quell’ipotesi e una riflessione sobria e acuta su di essa, le ho trovate offerte da Evelyn Fox Keller, ad esempio in Elisabetta Donini, Conversazioni con Evelyn Fox Keller, Elèuthera, Milano 1991. Ho provato a misurare, molto sinteticamente, alcuni degli effetti di quella ipotesi sulle ricerche che vado facendo in questo campo nel libro: L’esperienza etica. Per una filosofia delle cose umane, Orthotes, Napoli 2012, p. 317.

21 Mi riferisco al saggio: Il significare della differenza. Per un’introduzione, che sta in: Riccardo Fanciullacci – Susy Zanardo, Donne, uomini. Il significare della differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 3-59.

22 Su questo punto, che cosa rende buona ed efficace una mediazione simbolica (cioè una mediazione che non funziona solo grazie alla forza), tornerò brevemente alla fine di questo scritto.

23 A questo capoverso, che era già di per sé una glossa, aggiungo un’ulteriore nota per accennare a una questione che però è importante. Nel già citato articolo del 2010: Il significare della differenza. Per una introduzione, sostenevo che la differenza sessuale non è una proprietà di cui un qualche sapere (la biologia, l’antropologia filosofica, la fenomenologia ecc.) ha da definire il significato (pretendendo di scoprirlo grazie al suo proprio metodo di lavoro), affinché poi i singoli, le donne e gli uomini, possano assumerlo e farsi da esso guidare nell’agire; il senso della differenza sessuale, dicevo, richiede l’invenzione di colui o colei che la assume. Sostenevo insomma, come ho fatto anche qui, che la differenza sessuale sia una questione che, dopo l’evento del femminismo, interpella i singoli e chiede loro l’articolazione simbolica del suo senso. Quest’articolazione, dicevo, risponde tanto alla verità (e in questo senso è scoperta), quanto alla libertà (e in questo senso è invenzione). Parlavo in proposito di doppio vincolo (alla verità e alla libertà) e, come mi ha fatto notare Susy Zanardo, questa denominazione (che di solito indica una situazione che fa star male) la diceva lunga su quanto poco avessi davvero chiarito il problema. Sulla natura dell’articolazione del senso e sulla sua particolare misura (cui accennerò anche tra poco, nel testo), sono tornato in seguito, in particolare in uno scritto su Iris Murdoch che per ora giace come dattiloscritto. In quel discorso del 2010, comunque, è stata evidenziata anche un’altra difficoltà; lo ha fatto ancora Susy Zanardo, ad esempio nella sua relazione Il pensiero della differenza, presentata al già citato convegno pavese del settembre 2015. Il problema sarebbe che io, negando che la differenza sessuale abbia dei contenuti positivi, renderei mio malgrado impossibile alla mediazione simbolica del suo senso di trovare nella differenza una qualche misura. Detto altrimenti: come potrebbe la mediazione del senso della differenza doversi misurare sulla differenza cui è esposta, se di questa differenza non si può dire altro che è una questione? Anche se dichiaro a parole che la mediazione è una risposta, non rendo di fatto impossibile distinguere tale risposta da una invenzione arbitraria? Non sostengo forse che della differenza sessuale si posa dire solo che è questione che invoca mediazioni? Ma se è così, allora come si potrebbe poi distinguere tra una mediazione “rispettosa” e una “arbitraria”? Rispondo: questa difficoltà non grava davvero sul discorso che sto sviluppando, anche se il modo in cui mi sono espresso nel 2010 favoriva senz’altro l’equivoco. La mia tesi è che l’antropologia filosofica (o qualunque altro sapere che pretenda di guardare alla differenza sessuale al di fuori della storia) non possa dire, a proposito della differenza sessuale, molto più del fatto che è una questione; diversamente, quando ci si interroga sulla differenza sessuale dall’interno di una circostanza storica (ed è questo che fanno anche i singoli che tentano di mediarla), allora ciò che appare è molto, moltissimo: come chiarito ora nel testo, ciò che appare è un groviglio di mediazioni e di esperienze da queste più o meno rimosse e occultate. Questo groviglio di significati storici che non fanno uno e non si riconciliano è l’emergere della questione della differenza sessuale. Ecco dunque che ciò cui l’opera di mediazione del senso è esposta non è solo l’astratta idea della differenza come questione, bensì esperienze, sentimenti, ideali, mediazioni precedenti, stereotipi che rivelano i loro limiti, stereotipi che sembrano ancora efficaci ecc. Non occorre dunque riabilitare l’indagine fenomenologica per tentare di fare sì che l’astratta idea di “differenza sessuale come questione” abbia un po’ di quella carne e di quel sangue che ha la nostra comune esperienza della differenza, infatti, è esattamente questa comune esperienza quella convocata in discorso dicendo che oggi fa questione. Se poi ci chiediamo quali tratti avesse la questione della differenza in altre epoche, ecco, questo non ce lo insegna nessuna intuizione fenomenologica d’essenza, ma l’indagine storico-sociale. Ci sono dei tratti che la questione della differenza ha in ogni epoca? Ecco, posto che questa domanda sia davvero urgente in vista del compito di mediare nel presente la differenza sessuale, anche qui non è certo dalla fenomenologia (che pretende di vedere l’essenza operando l’esperimento mentale della “variazione immaginativa”) che dobbiamo attendere la risposta.

24 Cfr. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985.

25 Sulla distinzione tra conflitto e guerra insiste particolarmente Luisa Muraro; si veda ad esempio la sua relazione a un seminario all’Università Ca’ Foscari di Venezia: Incontro con Luisa Muraro, in Riccardo Fanciullacci – Susy Zanardo, Donne, uomini. Il significare della differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 271-297; cfr. inoltre, il numero 58-59 (2001) della rivista della Libreria delle donne di Milano, «Via Dogana. Rivista di pratica politica», numero significativamente intitolato: Fanno la guerra e non sanno confliggere.

26 Questa comprensione della misura del confronto, che ho appena tratteggiato, sto cercando di svilupparla in alcuni lavori dedicati al pensiero di Iris Murdoch. Uno di questi è già pubblicato: Riccardo Fanciullacci, Le parole giuste per l’etica: esercizio dell’immaginazione e immaginario sociale in Iris Murdoch, in: Iris Murdoch: la realtà della vita morale, fascicolo monografico ospitato nella rivista on-line: “Etica & Politica. Ethics & Politics” (XVI / 1, 2014), pp. 333-392.

27 La nozione di mediazione necessaria è centrale nel lavoro di Luisa Muraro: cfr. ad esempio, il suo La posizione dell’isterica e la necessità della mediazione, Donne Acqua Liquida, Palermo 1993.