diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Sono una donna ricca

Ho scoperto che sono una donna ricca. Questa idea si è imposta alla mia mente di recente, nel bel mezzo di una circostanza molto difficile della mia vita: da metà maggio vivo tra ospedali e centri di riabilitazione, per cercare di ricominciare a camminare. Quel giorno terribile ero a Verona, a casa di un’amica, Lisa, e ci preparavamo per andare al convegno che avevamo organizzato insieme. Nel giro di pochi minuti, in modo tutt’ora oscuro, ho perso l’uso delle gambe e del basso bacino.

Se prendiamo in considerazione il mio reddito, in base alle recenti analisi socioeconomiche posso essere catalogata tra quelle che vengono definite “le nuove povertà”: un tenore di vita che arriva affannato alla fine del mese. E così cominciavo a pensarmi, in tempi di crisi economica, prima dell’”accidente”.   Ora invece ho preso coscienza che non sono una “nuova povera”, sono una donna ricca. Ho avuto la riprova che si può guardare alla propria vita con la mia, nostra, ottica economica, quella per intenderci che ha portato a organizzare prima il convegno poi a pubblicare il libretto “La vita alla radice dell’economia”.  La mia ricchezza nasce da due fattori precisi: il primo è che sono una donna, una donna che fa politica, il secondo è che vivo in Italia e non in America.

Di questa ricchezza che non si misura in denaro, ma circola e fa vivere bene, voglio parlare perché altre donne sappiano vederla e così sappiano che sono – siamo – davvero ricche. Siamo in tempi di crisi economica e non ne usciremo se non cambia l’idea di economia. Dai giornali sappiamo che le banche attualmente sono piene di soldi, che sta riprendendo alla grande la finanziarizzazione, compresi i titoli derivati che abbiamo saputo essere tossici. Insomma la batosta non fa cambiare strada e come dice Loretta Napoleoni è l’azzardo maschile che presiede questa economia. Appena c’è qualche segno di ripresa ricomincia negli stessi termini. Io credo che possono essere le donne a portare un altro punto di vista, perché nella loro esperienza comune stanno già in un’altra posizione.

 

Brevemente vorrei esaminare prima il secondo fattore per cui mi sento ricca e che costituisce il contesto imprescindibile della mia esperienza: vivere in Italia. Qui in Italia ci sono (ancora per quanto?) dei meccanismi di redistribuzione che funzionano e sono per tutti. Nel mio caso, nel giro di qualche ora ero ricoverata nell’ospedale di Borgo Trento, in un reparto all’avanguardia in Europa, sottoposta a cure tempestive che hanno limitato il danno, ben assistita giorno e notte. Poi, per la riabilitazione, sono stata trasferita al Don Calabria di Negrar, un paese a poca distanza da Verona. Il cibo era buono, le infermiere mi trattavano con umanità e parlavano in dialetto, cosa che, non so perché, mi rallegrava. Non ho mai pagato un ticket o quant’altro. Fossi vissuta negli Stati Uniti, con le assicurazioni private, la storia che sto per raccontarvi sarebbe stata ben diversa e molto più triste, come quelle che compaiono nel documentario di Michael Moore sulla sanità americana.

Nel primo incontro Luisa Muraro diceva che la creazione dello Stato Sociale ha tagliato di traverso il capitalismo e in questo è stata effettivamente rivoluzionaria. Sono pienamente d’accordo con lei. In Italia ci sono due donne che si battono da anni perché lo stato sociale non venga smantellato: Rosy Bindi e Laura Pennacchi. Luisa direbbe che sono due rivoluzionarie e se guardiamo bene avrebbe ragione: vogliono che ci sia una ricchezza sociale a disposizione. Con leggerezza si sta discutendo dell’abolizione dell’imposta regionale IRAP: ricordiamoci che andrebbe a colpire soprattutto la sanità pubblica.

 

Il fatto di essere donna è il primo fattore di ricchezza, perché, come tante altre donne, non ho avuto in mente solo il denaro ma tante cose insieme per costruire la mia vita. Il lavoro di insegnante mi piaceva e il fatto che fosse pagato poco non è mai stato un gran problema. Mi ha sempre appassionato la politica e ho conosciuto e frequentato moltissime donne e un certo numero di uomini, con cui ho intrecciato idee, progetti, affetti. Finché stavo bene in salute non avevo idea di aver costruito mattoncino su mattoncino un vero capitale di relazioni. Anzi a volte mi lamentavo per la mia vita sballottata sui treni di qua e di là. Poi nel momento dell’estremo bisogno eccolo il capitale, lì intatto, che mi torna indietro in modo sorprendente e meraviglioso. Se l’economia è l’insieme dei mezzi per soddisfare i bisogni della vita umana, il denaro e il mercato sono risposte secondarie rispetto alla potenza delle relazioni.

Porte aperte dappertutto. Guido, mio marito è stato ospite di Giannina per quattro mesi, tutto il tempo del mio decorso in ospedale. Se si fosse dovuto pagare un albergo non sarebbe stato possibile averlo vicino tutti i giorni. Provvedeva sì a quelle semplici necessità come i cambi di biancheria, ma la domenica, che non c’era la fisioterapia, caricava la sedia a rotelle in macchina e mi portava a vedere i panorami della Lessinia. Ci pareva di essere in vacanza. Elia, il figlio della mia amica, quel giorno mi ha accompagnato all’ospedale ed è rimasto tutta la mattina ad aspettare che prendessero una decisione. Poi tutti i giorni, tutti i giorni si è ripetuto il miracolo di amiche, e anche amici, che mi venivano a trovare o mi telefonavano. Queste relazioni mi davano una tale gioia interiore che lì ho trovato la forza di affrontare, sorridendo, la disgrazia che mi stava capitando.

Un giorno una compagna di stanza, anche lei colpita dal mio stesso male, ma che non aveva il mio stesso capitale di relazioni e stava andando verso la depressione, mi ha accusato stizzita di usare l’ospedale di Negrar come un albergo. In effetti diceva qualcosa di vero.

Lei aveva l’idea che la vita sarebbe venuta dopo, una volta uscita dal centro di riabilitazione da cui pretendeva di essere rimessa in piedi dalle fisioterapiste quasi a prescindere dal suo desiderio di guarire. Al polo opposto una parte di medici e infermieri aveva l’idea che se finisci in un reparto di “Unità spinale” ti devi rassegnare a una vita da invalida e in questo senso ti presentava il quadro della tua esistenza. Stretta tra queste due concezioni: la vita rimandata al futuro, la vita rassegnata alla disgrazia, mi sono trovata a pensare che non potevo aderire né a l’una, né all’altra. Dentro di me urgeva fin dall’inizio un’altra concezione: quella era tutta la vita che avevo in quel momento e volevo viverla con tutto il godimento che mi era possibile in quella situazione.

Appena ho potuto sedermi sulla sedia a rotelle ho individuato nel cortile di Borgo Trento, pieno di macchine parcheggiate, un albero e due panchine che si fronteggiavano. Mi mettevo lì ad aspettare le visite e creavamo un salotto di chiacchiere e commenti alle vicende politiche di Veronica Lario e Noemi, lette su Repubblica, che quest’estate, come diceva Wanda, riuniva in sé anche Novella 2000, dandoci non poco divertimento. Poi, siccome l’orario delle visite coincideva con quello della cena, avevamo individuato un antibagno con una bella finestra che dava sulle colline veronesi e due poltroncine comode. Guido portava lì il mio comodino per appoggiare il vassoio della cena e continuare a chiacchierare. Marina aveva rimediato dei seggiolini da campeggio per incrementare i posti a sedere. Dopo un paio di settimane hanno adibito una stanza a sala da pranzo e non solo io potevo cenare in compagnia di parenti e amici. Al Don Calabria di Negrar c’era invece un giardino magnifico e il caldo estivo era attenuato da una leggera brezza che scendeva dai monti Lessini, almeno quattro gradi meno di Verona, diceva chi veniva a trovarmi. Tornavano spesso perché lì stavano bene, me lo ha detto Teresa un giorno esplicitamente. In quanto a me, quasi ogni giorno mi facevano analisi e trattamenti dal vago sapore di tortura, sudavo in palestra per cinque ore al giorno, poi arrivavano le 16.00, l’orario delle visite.

La palestra di riabilitazione era un mondo affollato di storie segnate duramente, affollato di corpi e di menti che affrontavano la loro disgrazia con coraggio, con stanchezza, con volontà, con rabbia, con tutti i sentimenti umani più elementari. Volevo conoscere le loro storie, guardavo il loro modo di essere lì. Imparavo. La palestra è un mondo fatto di persone sane (fisioterapiste e fisiatri) che tutti i giorni toccano e manipolano corpi deficitari che si vergognano di esserlo. Si condividono molte ore al giorno e io scoprivo che fisioterapiste e assistenti avevano un’arte raffinata, ciascuna, ciascuno, a suo modo, per stare in questa vicinanza, per alleggerire la situazione, per aiutarti a uscirne.

Le amiche, gli amici, che venivano a trovarmi mi portavano il loro mondo che io bevevo avidamente, ma erano anche curiose di conoscere i racconti del mio. Si ragionava assieme.

 

Ina Praetorius sostiene con forza che può esserci un’altra idea di economia se c’è un’altra concezione dell’essere umano. Ho capito fino in fondo le sue parole trovandomi da un momento all’altro in una condizione di fortissima dipendenza. Da sola non ero in grado di fare quasi niente. I primi tempi, per esempio, se mi portavano la colazione e si dimenticavano di alzarmi lo schienale del letto, io potevo solo restare lì a guardarla. La malattia mi ha messo a confronto con quella dimensione dell’esistenza che si sperimenta da creature piccole ma che sembra cancellata nell’età adulta a favore dell’individuo indipendente e autosufficiente, mosso esclusivamente dall’interesse personale: homo oeconomicus, dicono le teorie economiche. Invece io ho toccato con mano che è piuttosto questa condizione di dipendenza il proprius della condizione umana in ogni fase della vita, come sostiene Ina Praetorius nella sua “economia della natalità”. Da questa concezione secondo lei derivano profondi cambiamenti nella teoria e nell’organizzazione della convivenza umana. Se non la si assume non si riesce a vedere che continuamente riceviamo e neppure quello che riceviamo, che sia l’aria che respiriamo o il conforto di una parola, e non se ne prova gratitudine. Si installano invece pretese e diritti. Siamo noi stesse ad allontanare le altre, gli altri, a immiserire la nostra vita. Ci si chiude al mondo e alla vitalità delle relazioni.

In questo periodo faccio molta fatica a concentrarmi, perché il corpo malato risucchia gran parte delle mie energie. Ma voglio intensamente scrivere questo testo. Per me ha il valore di un pubblico ringraziamento a tutte quelle presenze amiche che mi sono state e mi sono vicine.

Non posso essere qui con voi, ma tornerò.