diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Il Lavoro del Negativo

Sofferenza di donne: figure di trasformazione

Questo testo è stato presentato al Grande Seminario del 2003 da titolo “Il lavoro del negativo”, le riflessioni maturate a partire da quegli incontri sono confluite nel libro di Diotima La magica forza del negativo, di imminente pubblicazione. Wanda Tommasi ha sviluppato i temi qui trattati nel suo libro La scrittura del deserto, Liguori, Napoli 2004.

 

Qual è il senso della disperazione? Di quel sentimento luttuoso così antico che già Aristotele, ricordando come tutti i grandi uomini fossero melanconici, collocava in una polarità fra umor nero paralizzante e distruttivo, da un lato, e creatività del genio dall’altro?

Oggi, l’antico nome di melanconia è stato sostituito dalla parola depressione: mentre la melanconia, che si immaginava prodotta dalla bile nera, era una malattia del rapporto fra l’anima e il corpo, la depressione è una riduzione delle funzioni nervose. Ciò che chiamiamo depressione è, in realtà, qualcosa di molto vago e indefinito, che va dalle nostre occasionali e motivate tristezze alla vera e propria malattia depressiva, ma le cui infinite sfumature sono cancellate dai farmaci che pretendono di curarla. Depressione è tutto ciò su cui agiscono gli antidepressivi: questa è la definizione, molto pragmatica, che possiamo ricavare dal mercato.

Siamo molto lontani dalla melanconia umorale, ma un aspetto di quell’antica fenomenologia voglio ricordarlo qui: si tratta della possibilità di leggerla diversamente a seconda del sesso, come fece per prima Ildegarda di Bingen, nel declinare al maschile e al femminile i tratti del temperamento malinconico. Mentre l’uomo melanconico, secondo Ildegarda, è pervaso da una sadica ferinità, suscita più paura che compassione, ed è caratterizzato da una cupa lussuria, perché odia le donne con cui pure desidera congiungersi, la donna melanconica è piuttosto da compatire, perché tiene il dolore chiuso dentro di sé.

Ai nostri giorni, l’incidenza di gran lunga superiore di depressioni femminili rispetto a quelle maschili fa pensare che il quadro delineato dieci secoli fa da Ildegarda possa ancora dirci qualcosa: forse le donne risultano più depresse degli uomini perché riconoscono di esserlo, lo dicono e chiedono aiuto, mentre non sappiamo quante depressioni mascherate si nascondano dietro a certi comportamenti maschili violenti, dietro all’alcoolisimo ecc.

 

In un libro recente, ottimo da molti punto di vista, se non per il fatto che manca appunto della chiave della differenza sessuale, (La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999), Alain Ehrenberg ricostruisce la storia sociale della depressione, che, nel nostro tempo, ha acquistato il primato tra le patologie del profondo, prendendo il posto, per l’attenzione prestatale dagli specialisti e dal mercato dei farmaci, che era stato, a cavallo fra ‘800 e ‘900, dell’isteria.

A partire dagli anni ’70, la depressione è la malattia del nostro tempo, e questa malattia, come già l’isteria che l’aveva preceduta, è una malattia prevalentemente femminile: Ehrenberg la collega alla fatica di essere se stessi, in una società in cui le norme rigide di comportamento  per le classi sociali e per i due sessi hanno lasciato il posto a etiche che stimolano l’iniziativa individuale; anziché inserirsi nello schema divieto/conflitto/colpa, tipico della nevrosi, la depressione è pensata oggi dalla psichiatria come una patologia dell’insufficienza, che ha a che fare con l’universo della disfunzione, con l’incapacità ad agire e a prendere iniziative, piuttosto che con quello della legge. Mentre il conflitto all’interno del soggetto era al centro dell’analisi di Freud, con la depressione ci troveremmo di fronte a un deficit, ad una mancanza. Muta obiezione ad una norma sociale che chiede a tutti di essere responsabili e pieni di iniziative, la depressione sta al di qua del conflitto, lo evita accuratamente: ma io credo che proprio l’evitamento dei conflitti abbia a che fare con la depressione, nel senso che la rabbia, inespressa e non agita, implode dentro di sé.

La prima tappa del percorso che vorrei proporvi tratta appunto dell’evitamento del conflitto, e dell’implosione delle pulsioni aggressive inespresse all’interno dell’io. E’ una tappa in cui le norme sociali sono ancora rigide e in cui le tracce di conflitti rimossi sono ancora riconoscibili. Per fare questa prima tappa, che riguarda la generazione che ci sta alle spalle, quella delle nostre madri, mi servirò di un romanzo di Sylvia Plath, La campana di vetro (del 1963: Mondadori, Milano 1968), in cui l’autrice rielabora le vicende autobiografiche della propria depressione e del proprio tentato suicidio. Già il titolo, fortemente simbolico, “la campana di vetro”, allude alle norme sociali rigide e alienanti, a cui la protagonista cerca di adeguarsi, pagando così il suo tributo alla terribile normalità della madre, che vuole per lei un successo in termini di conformismo; lei si adegua a questa norma, ma al prezzo di mettere a repentaglio il proprio equilibrio psichico: la rigidità dei codici di comportamento si estende dalla famiglia, con l’ipocrisia di una morale sessuale che prevede la verginità per le figlie femmine ma non per i maschi, all’università americana, efficiente ma fredda e burocratizzata, ai centri produttivi retti dalle norme della mercificazione e del successo, agli ospedali, dove medici insensibili come il dottor Gordon coniugano l’uso brutale dell’elettroshock con la realizzazione del profitto (25 $ a seduta); sullo sfondo, attraverso un duplice riferimento all’esecuzione dei Rosenberg, si profila l’America maccartista in piena guerra fredda.

La protagonista, Esther, che ha vinto una borsa di studio ed un premio, che le permette di fare pratica giornalistica presso una rivista femminile a New York, denuncia subito l’illusorietà del mito americano: tutti pensano che  lei stia vivendo in vortice di piaceri e di mondanità, che guidi «New York come la sua auto personale». «Ma io non guidavo proprio un bel niente, nemmeno me stessa. Dal mio albergo mi tuffavo nel lavoro e nei ricevimenti e dai ricevimenti al mio albergo e di nuovo nel lavoro come un automa che non capisce niente. Immagino che avrei dovuto esserne entusiasta come lo era la maggior parte delle altre ragazze, ma non riuscivo a reagire. Mi sentivo molto apatica e del tutto vuota, come deve sentirsi l’occhio di un uragano, che si muove ottusamente e di continuo nel fragore che lo avviluppa». (p. 4)

La Plath esprime apertamente, nel romanzo, le sue obiezioni al mito del successo, all’ipocrisia della morale sessuale, ecc.; invece la protagonista della vicenda, Esther, pur sentendo una specie di nausea salirle dentro ogni volta che si trova di fronte a comportamenti ipocriti, tuttavia non riesce a reagire, si sente apatica e vuota come l’occhio dell’uragano: c’è una violenza dentro, ma questa non riesce ad esprimersi. Rimane solo l’apatia, un umor nero che toglie ogni gusto alla vita: «io potevo vedere i miei giorni, un giorno dopo l’altro, splendere davanti a me abbaglianti come un lungo viale bianco di infinita desolazione. Era stupido lavare ogni giorno quanto si doveva rilavare l’altro. Mi stancavo solo a pensarlo». (p. 110)

La depressione e il tentativo di suicidio sembrano frutto di conflitti evitati, non agiti, che infine esplodono facendo crollare l’equilibrio psichico della protagonista: in primo luogo il conflitto con la madre, che la spinge al successo in termini di conformismo, secondo i criteri tipici della società americana degli anni ’50, e che non incoraggia in lei alcun gesto di trasgressione. Come esempio di conflitto non agito da Esther, può bastare quello del fidanzamento con Buddy Willard, apparentemente un bravo ragazzo americano, ma che la protagonista giudica un «perfetto ipocrita». Anche se Esther disprezza Buddy e vorrebbe lasciarlo, non lo fa, non gli dice nulla, gli lascia anzi credere di amarlo ancora, perché lui nel frattempo si è ammalato di TBC e lei non se la sente di dargli questo dispiacere: «Ma la cosa peggiore era che non potevo subito sputar fuori quello che pensavo di lui, perché avevo preso la tubercolosi prima che potessi farlo. E ora mi toccava tenerlo su di morale fino a che fosse stato bene di nuovo e in grado di accettare la verità per quanto brutta potesse essere».(p.47)

Nella Plath, è comunque facilmente riconoscibile la traccia dei conflitti: di quelli immaginati ma non agiti da Esther, e di quelli messi in scena dall’autrice nella scrittura, nella sua denuncia dei falsi ideali di una società perbenista e ipocrita. E’ noto che la Plath è stata considerata una figura emblematica del femminismo, ma lo è stata solo all’inizio, quando si sentiva il bisogno di denunciare l’oppressione femminile e di riconoscersi vittime. E’ opportuno ricordare, a questo proposito, che l’autrice rivolge le sue critiche più dure a uomini: nel romanzo, i più implacabili strumenti di alienazione sono uomini, da Buddy al dottor Gordon, l’attesa di un’iniziazione sessuale da parte della protagonista sfocia in una violenza carnale, e all’amica lesbica di Esther, Joan, non resta che il suicidio.

Ma tutto questo appartiene al passato, anche se recente. Da allora, le cose sono profondamente cambiate: non possiamo più rappresentarci come vittime sofferenti nella dipendenza dall’uomo, come ancora la Plath consentiva di fare. Di mezzo, fra la Plath e noi, ci sono stati la contestazione del ’68 e il femminismo degli anni ’70, che hanno messo radicalmente in questione le norme rigide e alienanti della società, la morale sessuale, i ruoli dei due sessi, l’autorità. La nostra – la mia – è una generazione che si è costruita attaverso il conflitto, rifiutando i ruoli sociali e sessuali tradizionali, per avviarsi alla realizzazione di sé. Eppure la depressione femminile non scompare, anzi diventa un disagio sempre più diffuso proprio a partire dagli anni ’70: oggi, abbiamo a che fare con la depressione come fatica di essere se stesse, di prendersi la responsabilità delle proprie vite, come deficit di iniziativa, come muta obiezione all’imperativo dell’efficienza, come paralisi del desiderio.

La psichiatria attuale (il DSM IV: Diagnostic and Statistics Manual of Mental Desorders, nella sua versione più recente, la IV) interpreta la depressione come un’insufficienza, un’incapacità di tenere il passo con gli altri. Scompare l’esigenza di interrogare i conflitti che stanno dietro al disagio depressivo, e ci si preoccupa solo di diagnosticare il deficit di iniziativa e di sopperirvi con l’aiuto dei farmaci. Questo manuale, destinato ai medici di base, favorisce un atteggiamento che, di fatto, è una scorciatoia, e anche piuttosto pericolosa: anziché fare della relazione medico-paziente il luogo in cui dar voce alla sofferenza e fare dell’episodio depressivo l’occasione di una nuova tappa esistenziale, dolorosa ma necessaria, ci si preoccupa solo di colmare il vuoto, di sopperire al deficit e al senso di inadeguatezza. A questo servono i farmaci, che alimentano l’illusione di onnipotenza e promettono un mondo senza perdite, un soggetto senza ferite, e protezione dall’orrore del vuoto.

Con un mercato degli antidepressivi che promette la felicità a comando con una molecola, è legittimo chiedersi se una persona, sempre alla ricerca di colmare il proprio vuoto e la propria mancanza, non sia confortevolmente drogata, e sia così sempre evitato quel confronto con i propri limiti e con i propri conflitti che potrebbe toglierla dall’illusione di onnipotenza e metterla maggiormente in contatto con la realtà.

All’atteggiamento complusivo di colmare ogni vuoto e di riempire ogni mancanza, che la nostra società incentiva e favorisce, con l’enfasi posta sull’iniziativa personale e sul consumo come riempitivo, molte donne corrispondono, con vite superimpegnate, al limite del collasso: moltiplicare gli impegni e le iniziative, essere in moto perpetuo non è forse un modo di sfuggire il vuoto, di evitare il confronto con i propri limiti e in definitiva con se stesse?

In controtendenza rispetto alla psichiatria attuale e al mercato dei farmaci, il contributo di donne, impegnate nella cura del disagio femminile e in particolare della depressione, è significativo: si sottolinea qui la centralità della relazione medico-paziente, come luogo in cui può inscriversi anche l’uso di farmaci, ma solo per alleviare le sofferenze più acute e per mettere in condizione la donna di guardare in faccia i propri problemi, di affrontare i propri conflitti e di usare la sofferenza depressiva come occasione per un cambiamento necessario.

Mentre la medicina attuale e il mercato degli antidepressivi ci riportano ossessivamente al nesso vuoto-pieno, mancanza-riempimento, e cancellano dalla scena il conflitto, la psicanalisi invece continua a ricordarci che il conflitto intrapsichico, anche se non percepito dal paziente, non è in realtà scomparso, ma solo nascosto dietro ai sintomi di apatia e di fatica di vivere attenuati dagli antidepressivi. La guarigione coinciderebbe anzi col diventare capaci di sopportare la sofferenza e di rappresentarsi i propri conflitti. Scrive ad es. André Haynal: «La cura psicoanalitica ci ha mostrato che siamo costretti a vivere con l’ombra della diperazione. I nostri demoni non possono essere espulsi né soffocati: essi sono per noi preziosi, sono un attributo dell’esistenza umana. Se sapremo vivere con loro, finiranno per aiutarci». (Il senso della disperazione, Feltrinelli, Milano 1989, p. 120)

Barbara Duden, guardando agli scenari della medicina attuale, segnala giustamente che si sta andando verso una negazione della condizione umana mediante il progresso, verso una gestione del dolore invece dell’arte di soffrire, e ricorda la saggezza antica, secondo la quale la vita è tragica e la sofferenza ne fa inevitabilmente parte: possiamo alleviarla, ma non eliminarla. (in Corpi soggetto, Franco Angeli, Milano 2000, p. 30)

Questa saggezza antica risuona ancora nelle parole di Simone Weil. Una delle caratteristiche del soggetto depresso, la perdita della stima di sé, è fotografato con implacabile nitore da Simone Weil, quando, parlando del malheur, afferma che esso non consiste solo in una sofferenza che capita e che dura a lungo, ma in uno sguardo di disprezzo sociale che viene interiorizzato, al punto che si arriva a disprezzare se stessi. Simone Weil, contrariamente a quanto si tende a fare oggi, cioè colmare il vuoto ed eliminare la sofferenza, insegna che della sofferenza si può fare un uso.

 

Un’altra autrice che può dirci qualcosa, in questa direzione, è Marina Cvetaeva: lei, che vive la vicenda della rivoluzione russa, condivide della rivoluzione la spinta all’autenticità, ma non la fiducia nella felicità, nell’abolizione di ciò che è negativo e doloroso. Non tutto ciò che è negativo può essere convertito in positivo, non tutta la sofferenza può essere trasfigurata nella creatività artistica. «Ma il poeta è colui che trasfigura tutto?» si chiede la Cvetaeva. «No, non tutto – solo ciò che ama. E ama – non tutto». Lei, per es., odia diverse cose, fra cui «la vita quotidiana, che è materialità non trasfigurata. Ho finalmente trovato la formula – mi ci ha portato l’odio». (Deserti luoghi, Adelphi, Milano 1989, p. 8)

Con Cvetaeva, possiamo cominciare  a raccontarci la storia dei nostri odii, a rappresentarci i nostri conflitti. Anche nelle relazioni fra donne, perché, se è vero che le relazioni sono una strada per uscire dalla depressione, è anche vero però che non si è molto affinato l’ascolto della sofferenza che può esserci nelle relazioni stesse, tanto più grande quanto più le donne che ci sono vicine riaprono ferite antiche, che hanno origine nel rapporto con nostra madre.

Arrivare a rappresentarsi i propri conflitti e raccontarsi la storia dei propri odii non è però l’ultimo passo: l’ultimo passo è quello che Melanie Klein indica col termine riparazione. La Klein considera un passaggio necessario, nel processo di crescita del bambino, la posizione depressiva, nella quale il bambino integra i suoi sentimenti di amore e odio verso la madre, e attraversa un periodo di lutto e sensi di colpa. Il superamento della posizione depressiva si ha con la riparazione, cioè con la capacità del bambino di riconoscere la propria bisognosità e di provare gratitudine per la madre, nonostante la frustrazione e la rabbia per non poterla avere tutta e sempre per sé. (Invidia e gratitudine, G. Martinelli, Firenze 1985)

 

Un processo di riparazione rispetto all’invidia provata nei confronti della potenza materna lo troviamo, ad esempio, in Etty Hillesum: l’ostilità di Etty nei confronti della madre, espressa ripetutamente nel Diario, si placa solo quando entrambe sono costrette ad affrontare la terribile prova del campo di Westerbork; lì, finalmente Etty riesce ad esprimere amore ed ammirazione per la madre, pur continuando a riconoscerne i difetti. Grazie al lavoro psicologico su di sé, che le consente anche di esprimere la propria creatività, Etty converte la recriminazione per non essere stata amata abbastanza in capacità di amare, e tramuta la primitiva invidia nei confronti della madre in gratitudine per i piaceri del passato e in gioia per quanto il presente può ancora darle.

Nel caso di Etty Hillesum, il nesso fra depressione e creatività è particolarmente stretto: lei esce dall’umore depressivo grazie alla terapia di Spier e all’amore per lui, ma soprattutto mettendo a frutto la sua creatività nella scrittura. L’uscita dal ristagno e dall’umore depressivo, registrato all’inizio del Diario, coincide con il ridimensionamento di un ideale dell’io eccessivamente esigente e velleitario, che ha come contraccolpo inevitabile la recriminazione per la propria inadeguatezza e la disistima di sé. Scrive ad es. Etty nel Diario: «A volte avevo la certezza – peraltro molto vaga – che in futuro sarei potuta diventare “qualcuno” e avrei realizzato qualcosa di “straordinario”, altre volte mi ripigliava quella paura confusa che “sarei andata in malora lo stesso”».(Diario 1941-’43, Adelphi, Milano 1985, p. 38)

 Etty esce da quest’altalena fra esaltazione e depressione riconoscendo i limiti della propria fantasticata onnipotenza: anziché biasimarsi di continuo per la propria incapacità di essere all’altezza di un ideale di perfezione vago e lontano, impara a vivere pienamente il presente, ogni momento. Le sue energie psichiche ed emotive, non più bloccate nell’oscillazione fra autoesaltazione ed autosvalutazione, sono rese disponibili per il lavoro creativo della scrittura e per l’apertura a Dio. Posta di fronte ai propri limiti e, nel contempo, costretta a confrontarsi con una realtà traumatica, quella della persecuzione e della deportazione degli ebrei, Etty, anziché reagire con un affetto depressivo, mobilita la propria creatività per riparare il trauma nel lavoro creativo della scrittura e nell’esperienza spirituale: ad un futuro fantasticato, si sostituisce un presente in cui brilla una luce d’eternità.

   Colpisce il fatto che Etty lodi la vita proprio quando sta per esserle tolta, che dia voce alla speranza proprio quando apparentemente non c’è più nulla da sperare. Questo ci riporta alle radici della speranza, di cui parla Maria Zambrano nei Beati: Zambrano distingue fra le speranze (per cui speriamo in questa o quella cosa) e la speranza, che è senza perché, immotivata, che non si nutre di nulla, ma che sostiene la vita.

E’ quest’ultima ciò che viene a mancare nella depressione, è questa che Etty Hillesum sente rinascere in sé in circostanze tanto difficili.

Questa speranza, scrive Zambrano, «si produce di rado, individualmente, in persone che hanno perso tutto e che nulla sperano in concreto», e a volte, per lungo tempo in «popoli o razze oppresse», mentre nell’Occidente civilizzato «il crescente benessere coesiste con l’angoscia». (I beati, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 104-105)

Questa osservazione è confermata dalla constatazione che la depressione è una patologia dell’abbondanza e non della miseria.

La speranza, continua Zambrano, «è il fondo ultimo della vita, è la vita stessa che, nell’essere umano, si dirige inesorabilmente verso una finalità, verso un oltre»; è «la trascendenza stessa della vita che incessantemente rampolla». (p. 106)

Quanto abbiamo umiliato la vita, perché questa si vendichi sottraendoci la speranza, che ci dà il gusto di viverla?