diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Un certain regard

Scritture transfrontaliere dell’ospitalità

 

Partire da sé/partire altrove

 

Nel momento di prendere la parola, permettetemi per cominciare di partire da me, e precisamente di  esplicitare il senso che prende nella mia vita, nella mia esperienza di donna e di donna intellettuale, tra pensiero e scritture, il “partire” e il “da sé”.  Tutte le partenze non si assomigliano, alcune comportano separazioni dolorose, perdite di sé, lutti, abbandoni, altre corrispondono a nascite, nuove vite, aperture sul mondo. Questa spinta ad andare altrove, mossa da una forte desiderio intellettuale, umano, politico, ha coinciso per me con il movimento  fervido delle donne nel mondo negli anni 70. Quindi non semplice desiderio di avventura ma itinerario di crescita, di conoscenza di esperienza intellettuale e umana. Tutto ciò comportava l’adozione di una lingua straniera, il francese, in cui ero all’epoca ancora novizia, lingua che mi ha adottata e che ho adottato. Nancy Huston che ha fatto un viaggio simile alcuni anni prima, dal Canada in Francia, osserva che per colei o colui che impara una nuova lingua da adulto, per quanti sforzi di imitazione faccia, sussiste sempre un niente, una stranezza, un accento che a un momento o un altro smaschera la straniera o lo straniero. E, aggiungerei per parte mia, lo smascheramento funziona di qua e di là della frontiera, in “patria” e “all’estero”. Come racconta la stessa Huston, l’esperienza dell’essere stranieri continua anche quando “si ritorna in patria” come un segno, un marchio, il riposizionamento delle lingua che disloca financo la definizione della lingua “detta” materna. Tuttavia non mi riconosco nella figura dell’esule (come Huston e Sebbar) né veramente in quella del “soggetto nomade” o della nomade. E ancor meno della “marginale” che traduce impropriamente “outsider” di Virginia Woolf.  Ritornerò tra poco su questi termini, continuo intanto il breve resoconto del mio percorso.

Secondo l’anagrafe del mio comune di nascita risulto espatriata :  una migrante che pratica il passaggio di frontiere, anche se queste frontiere sembrano al giorno d’oggi sempre più invisibili, anche se i controlli non si fanno alla frontiera ma all’interno di ogni stato.  Come provano in Francia le recenti “chasses aux sans-papiers” ai clandestini, davanti e fin dentro le scuole pubbliche della repubblica francese.[1]  Di fatto le frontiere sulle carte geografiche sono state sostituite da altri confini interni, capillari,  etnici o comunitari. La realtà dei luoghi a cui faccio ritorno  mi appare ogni volta come realtà in continua mutazione, parlo di realtà umana, culturale, sociale, geografica. A questo si aggiunge il fatto che il mio sguardo (le mie attese, il mio paesaggio interiore) sono cambiati per effetto della cultura che si è costruita in me e fuori di me, altrove.   Come tanti altri e altre della storia attuale, sono uno dei personaggi sulla scena della mondialità o mondializzazione.[2]

Da anni appena arrivo alla stazione della mia città natale, Modena,  faccio questa esperienza : le persone che come me prendono l’autobus, gli utenti del servizio pubblico, come si dice, sono migranti, sempre di più, di anno in anno, persone di vari colori, di lingue extra-europee, africane, di ex-paesi decolonizzati (l’inglese o il francese), poche, in generale, anziani, parlano il dialetto modenese, cioè quella lingua famigliare che capisco ma non parlo. Alcuni, dall’apparenza immigrati parlano l’italiano con l’accento modenese. Il che è per me il massimo dello straniamento. Nella casa di mia madre, gli inquilini sono magrebini, alcuni sono cittadini italiani, hanno  le carte in regole, sono  poliglotti, parlano l’arabo, il francese e l’italiano. Nella casa in cui sono nata crescono bambini e bambine per i quali l’italiano è una « lingua materna » così come, si suppone, la lingua  dei genitori. Nel dialetto modenese i maroch’ein designano tutti gli immigrati in genere meridionali, è una parola spregiativa, razzista, per quelli che vengono dal Sud (italiano), quel Sud che ora massicciamente è diventato parte del Nord.

Avendo vissuto venticinque anni a Roma, ho sempre concepito il mondo come una mescolanza di Nord e di Sud, una concomitanza di provenienze, accenti e dialetti. Roma non significava tanto  la capitale d’Italia, caput mundi, quanto il punto di incontro di persone aventi origini regionali e linguistiche diverse. Come per altri e altre l’école de la République ha significato l’adozione della lingua italiana come lingua in cui tutti potevano parlarsi. Anche se questo significava perdere la lingua famigliare, regionale, locale, e riconoscersi in una lingua  detta “nazionale”.

 

Questa espressione “école de la République” la traggo dai libri autobiografici di Leïla Sebbar, ma si potrebbe applicarla ugualmente ai racconti d’infanzia degli scrittori antillesi, Maryse Condé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Gisèle Pineau. Le lingue creole che si sono propagate nell’arcipelago caraibico sono l’indice di un’inventività linguistica che non annulla la frontiera con il francese (o l’inglese, lo spagnolo) ma si fa gioco delle somiglianze, delle derive, delle trasformazioni e contaminazioni diverse. Le scuole della Martinica e della Guadalupe per quanto ospitino le diversità del meticciato caraibico non possono compararsi con  l’esacerbazione dell’altro/dell’alterità che racconta la letteratura del Magreb in cui riemergono  finanche nella letteratura dei cosiddetti beurs (forma gergale di arabe) la separazione/ discriminazione tra persone, lingue e culture, “tradizione” e “modernità”, “religione” et laicità.

Per Leïla Sebbar la scuola coincide con la casa dove abita con i genitori, entrambi maestri, piuttosto enclave, cuneo, innesto della repubblica francese nel territorio algerino,  della lingua francese nella lingua araba. La frontiera è il recinto della scuola, del giardino coltivato dal padre ; dalle porte e finestre  della casa le bambine spiano quello che succede nel mondo di fuori, dove abitano gli indigeni (così nel mondo di dentro vengono chiamati gli altri, gli algerini). Contrariamente all’Italia che nelle sue ex-colonie non ha incoraggiato la creazione di scuole (questo spiega in parte perché non esiste une vero e proprio postcoloniale italiano, ma si parla piuttosto di letteratura diasporica) la scuola francese come quella inglese ha formato generazioni di algerini, indocinesi, indiani. Da qui l’ambivalenza nei riguardi della lingua, della cultura, della scuola : luogo di accoglienza, di apprendimento, sapere, cultura attraente e repressiva nei riguardi delle altre lingue e culture locali. La lingua materna deve cessare di parlare a scuola, è lingua proibita, chi la parla, trasgredisce ed è punito. Non importa se l’identità, la storia, i modelli proposti sono sensibilmente stranieri, altri, calarsi in questa alterità significa imparare, appartenere alla Cultura, alla Civiltà. Quando Derrida parla del Monolinguismo dell’altro, si riferisce appunto a questa lingua dell’altro, il colono, la Legge, che si impone come unico, come lingua unica, escludendo tutti le altre, divieto tanto più efficace che completamente sottaciuto, implicito nell’istituzione stessa della Lingua.[3] La monolingua dell’altro rende de facto impensabile una qualsiasi lingua materna, la lingua in quanto fondamentalmente coloniale è usurpazione della lingua materna/paterna. Le conseguenze sono molto diverse : la sordità e l’accecamento dei coloni Francesi denunciate  da Cixous sono state una delle cause della violenza e della guerra  (in cui molti maestri sono stati uccisi)[4].

 

La scuola occupa uno spazio chiuso e aperto, separato, che attiva e avviva i sentimenti di segregazione, risentimento, invidia. Sebbar racconta il tragitto quotidiano di lei e delle sorelle, tra casa e scuola, una terra di nessuno e di confine in cui le figlie della Francese, la maestra, sono il bersaglio degli insulti sessisti e anti-francesi lanciati come pietre dai piccoli maschi arabi,  anch’essi probabilmente scolari della stessa scuola ma in strada, nel loro territorio, nella loro lingua,  le figlie della maestra sono sotto tiro, e la violenza repressa esplode. Durante questa scena il padre, il maestro arabo, è assente, non protegge, non punisce. Perché il padre, arabo, che non ha insegnato alle figlie la sua lingua,  non le ha difese dalla violenza misogina ? Si domanda l’autrice, sgomenta, dopo la morte del padre. Forse il miglior scudo, la migliore arma era l’incomprensione ?[5] Come conciliare la lingua-insulto, con la lingua del padre, lingua dell’affetto ? Sebbar non cerca di sconfinare, va fino al confine tra le due lingue, ma accetta che l’arabo resti per lei una lingua straniera, interiorizza l’estraneità come una componente della sua identità, straniera in Francia, straniera come donna. L’estraneità come forza, come stimolo della scrittura. Questa forza le viene anche dalla madre, da una donna che è partita, si è espatriata per seguire il marito, nel suo paese, nella sua scuola, ma senza rinunciare alla sua lingua. Le foto che Sebbar ha conservato e pubblicato nel suo album di Mes Algéries en France[6] parlano chiaro : la copertina del libro riprende l’idea del mosaico, i ritratti di famiglia, di amici, disegni e fotografie di sconosciuti, scrittori algerini, donne moresche etc.  Questi libri mi sembrano significativi dei tentativi di uscire dalla condizione dell’esilio e dell’apartheid, della segregazione. Sono altrettante figurazioni dell’ospitalità ; terrain d’entente, terreno d’intesa, di condivisione della memoria di un paese natale malgrado le lacerazioni, gli odi, i massacri. Quarant’anni dopo è il libro che realizza l’incontro, che permette il riavvicinamento delle memorie  : titolo o l’epigrafe della collezione è “d’un regard l’autre” infatti si tratta di raccontare questa storia attraverso i differenti sguardi, sovrapponendo le memorie degli uni e degli altri, in modo da fare emergere veramente in senso letterale e figurato l’intreccio, la narrazione diversa e comune. Come Sebbar precisa, tentativo ostinato di abolire ciò che separa, e per questo è necessario ripassare la separazione da una parte e dall’altra.

 

Esuli, fuggitive, nomadi

 

Sebbar fa parte di coloro che sono partiti (come Cixous, Derrida, Mokeddem), e ritornati sebbene non definitivamente e non solo nel paese natale, sui libri come luoghi di testimonianza, riparazione, invenzione.   Partire da sé significa per una scrittrice come Sebbar partire da sé altra, dalla straniera e dall’esiliata nel paese di sua madre, nella sua lingua “materna”.

Molte delle scrittrici di origine  magrebina assumono coraggiosamente e coscientemente la rottura che comporta  la partenza. In alcuni casi il ritorno è ritorno amaro, soprattutto per le donne che hanno scelto di fuggire dal paese e da un destino inaccettabile. Non è un caso se le donne che figurano come personaggi dei romanzi di Zouari o Mokeddem o Djebar sono spesso delle fuggitive, delle nomadi, il loro solo modo di esistere in quanto “donne” è di sfuggire al modello di una femminilità immutata, fissata dalla tradizione patriarcale. Queste scritture mi sembrano simbolicamente efficaci proprio perché insistono sulle strategie dell’alternativa, della riconfigurazione dei rapporti.

E’ la storia che racconta Fauwzia Zouari nel suo secondo romanzo La retournée : Rym ritorna precipitosamente, ma troppo tardi per ricevere il perdono della madre morente. Per il villaggio resta quella che ha tradito la famiglia, diventando una “figlia prodiga” e forse non sarà mai perdonata.     In ogni caso ci si può domandare perché le donne raffigurano simbolicamente, fantasmaticamente il taglio/la frontiera tra “tradizione” e “modernità”, come se fossero loro le custodi dell’identità come marchio, quando al contrario sono escluse dalla proprietà, dal potere. Gli eventi raccontati ne La retournée si svolgono in Tunisia, negli anni ottanta.   Rym, in quanto rétournée, ha operato un voltafaccia alla sua cultura, ed ora, tornando con la figlia bambina, è portatrice dell’altra cultura, per questo   è percepita come estranea, pericolosa, incorruttibile :   ha il potere rovesciato della ribelle che ha osato la rottura e l’indipendenza. Ritornare significa riaprire la ferita, riandare sulle ragioni della separazione dalla madre, rivedere i legami con le sorelle che al contrario hanno rinunciato a studiare, hanno accettato un destino tradizionale di mogli e madri. L’aspetta tutto un lavoro di ripensamento degli affetti e delle relazioni che non si può certo ridurre allo scontro tra tradizione e modernità. Questo movimento di andata e ritorno produce tra le righe una riflessione sulla libertà femminile. La questione è tanto più lancinante che si tratta di spartire l’eredità materna, di ereditare dalla madre, non solo i beni, le terre, la casa, gli oggetti, ma l’amore materno, l’origine dell’ospitalità, l’ospitalità originaria. Il problema è che questa “ospitalità” è internata e spesso occultata dalla proprietà, attribuita al clan patriarcale e da questo usurpata.

 

 

Nell’introduzione al suo Soggetto nomade Rosi Braidotti sostiene assai categoricamente  « Non esistono lingue madri. Solo luoghi linguistici che si assumono come punti di partenza. Il poliglotta non possiede una lingua nativa, ma molte linee di transito, di trasgressione ».[7]  Tale formulazione mi lascia piuttosto perplessa, anche se posso in parte riconoscermi nel movimento che partendo da una lingua trasborda nell’altra o nelle altre. Tuttavia mi sembra che il rapporto alla lingua “madre” sia stigmatizzato un po’ troppo affrettatamente. E’ la rapidità della forma negativa che non mi convince, come se attardarsi nella “propria lingua” detta materna implicasse un ritorno regressivo, essenzialista, che disturba le posizioni femministe e moderniste.  Più comprensibile è il riferimento   storico e politico : la guerra nei Balcani (Bosnia Erzegovina) ha rivelato la rinascita dei nazionalismi, la lingua utilizzata come giustificazione delle segregazioni etniche e delle azioni di “pulizia etnica e linguistica”.  Di fatto assegnando la “lingua madre” alla radice, all’identità (ipseità) a una topica e a un territorio si elude il processo stesso della lingua che nasce in seno a un’esperienza di scambio, di crescita, di scoperta  : questa esperienza è matrice delle esplorazioni successive. Formulata in quel  modo la frase di Braidotti assomiglia piuttosto a un diniego. Lingua madre inesistente, atopica ?  Che ne è dell’esperienza della lingua – corpo, gestazione delle parole,  questo corpo a corpo, parola per parola non credo possa essere deposto dietro di sé, espropriato, cancellato  con un solo atto di partenza.

Come Braidotti ma con altre motivazioni, Nancy Huston mette come epigrafe a Nord perdu, un verso di Thomas Eliot : « Home is where you start from » è chiaro si tratta di una costatazione e non di una negazione. Nelle Lettres parisiennes che ha scritto insieme a Leïla Sebbar, Huston non si definisce nomade né cosmopolita, semmai esule. Nata in Canada, anglofona, è venuta in Francia per continuare gli studi (all’inizio con Roland Barthes) ma coinvolta in vari gruppi femministi (Histoire d’elles, Sorcières) sceglie di scrivere piuttosto che di continuare una carriera universitaria. Comincia a pubblicare romanzi in francese e soltanto in seguito anche in inglese. Il francese è dunque lingua d’adozione come la Francia est “pays d’accueil” . Nell’ultima lettera di Lettres parisiennes il “fantasma dell’esilio” la spinge a analizzare il suo gesto di scrittura come un modo di distanziazione, l’iscrizione di una certa estraneità :

“N’est-ce pas cette distanciation même qui constitue la littérature ? Notre écriture ne vient-elle pas de ce désir de rendre étranges et étrangers le famille et le familial, plutôt que du fait de vivre, banalement, à l’étranger ? […] écrire en français, c’était donc un double éloignement : d’abord écrire, ensuite en français (ou plutôt l’inverse : d’abord en français, ensuite écrire ).”[8] Di fatto Nancy Huston ammette che questa distanza è un’illusione necessaria per cominciare. In un breve libro, più recente, il suo rapporto all’inglese si è modificato anche se resta problematico. Mi sembra interessante rilevare quello che scrive sull’infanzia  : l’infanzia non si può naturalizzare, la lingua e la memoria dell’infanzia  ci abitano  « l’enfance proche et lointaine est toujours en nous »[9]. E’ l’infanzia che custodisce la lingua, nonostante i nostri viaggi in altre lingue e in altri paesi.  « L’enfance, c’est comme le noyau du fruit : le fruit, en grandissant, ne devient pas creux ! Ce n’est pas parce que la chair s’épaissit autour de lui que le noyau disparaît … »[10] Per questo le lingue quando si è bilingui o poliglotti non hanno tutte lo stesso ruolo né la stessa posizione : « Les mots le disent bien : la première langue, la maternelle, acquise de la prime enfance, vous enveloppe et vous fait sienne, alors que pour la deuxième, l’ « adoptive », c’est vous qui devez la materner, la maîtriser, vous l’approprier. »[11] Huston rivela in questo libro in modo più profondo ed esplicito la necessità della distanza dalla corporalità della lingua materna, poiché la carica  affettiva della lingua  rende  il passaggio e la trasformazione dalla lingua « materna » al linguaggio letterario problematici : « La langue française ne m’était pas seulement égale, elle m’était indifférente. elle ne me disait rien, [ …] Elle ne me parlait pas, ne me chantait pas, ne me berçait pas, ne me frappait pas, ne me choquait pas, ne me faisait pas peur. Elle n’était pas ma mère. »[12]

In modo abbastanza simile Anna Moï, di origine vietnamita e poliglotta (parla sei lingue), sceglie di scrivere e pubblicare in francese perché questa lingua più di altre le offre il senso della libertà,[13] l’affrancamento dal sé, la dimensione cosmopolita senza frontiere dell’arte :  “Je considère que dans l’exercice d’un art, le choix du matériau, quel qu’il soit […] est toujours légitime : il s’agit, in fine, de générer un langage original indifférent aux frontières ; de délivrer l’artiste d’un corps physique hérité et de le laisser, en toute liberté, forger d’autres créatures, anges et démons. […] On écrit toujours dans une langue étrangère, fût-elle sa langue maternelle.”[14]

La condizione di e-sistenza delle lingue “madri” o “materne” è in fondo la loro atopicità, il movimento di spostamento e trasformazione, non solo punti di partenza ma avventura e esperienza delle andate e ritorno tra le lingue.

 

 

Le parole  da/tra noi : ospitare l’altrui

 

Cosa significa giungere alla scrittura per chi è in transito tra due o più culture o lingue ? In quali condizioni il transito diventa tregua, abitazione, raccoglimento, memorie, ricomposizione dell’esperienza e dell’identità ? Significativi sono i casi di scrittrici di varia provenienza (Eritrea, Etiopia, Palestina) che scrivono a quattro mani con scrittori e giornalisti italiani ; in questo caso si crea una vera relazione di partecipazione, uno spartito a due voci, tra due lingue e culture.[15]

Nei seminari del 1997 e poi negli scritti successivi Jacques Derrida richiama l’attenzione sulla tautologia « ethos » e ospitalità :

 

si « ethos (comme le rappellent le grec courant et Heidegger) […] signifie d’abord la demeure, le séjour habituel, la manière d’être comme manière d’habiter, donc la condition de l’hospitalité ; aucun séjour, aucune demeure (ethos), aucune halte (Aufenhalt) ne sont possibles sans l’ouverture de l’hospitalité ; les lois de l’éthique sont les lois de l’hospitalité : l’hospitalité n’est pas une question éthique parmi d’autres » « l’éthique est l’hospitalité, elle est de part en part co-extensive à l’expérience de l’hospitalité, de quelque façon qu’on l’ouvre ou la limite » (Derrida, 1997, 42)

 

Come si sa il riferimento più importante in questo caso è Levinas, e il pensiero de l‘accueil, de l’accueillant che si manifesta al femminile in quanto accueillante. In questa femminilizzazione dell’accoglienza (l’accueil) non c’è nessun riferimento (che io sappia) alla prima ospitalità che è quella del corpo materno. Tuttavia implica un saper ricevere, un aprirsi all’altro/all’altra della differenza, nella differenza di genere, esperienza, saperi, culture, lingue. La prima difficoltà per ogni straniero è la lingua, quella che permette non solo di passare la frontiera ma di poter essere capiti, compresi, ricevuti, di acquisire quindi il diritto di risiedere nel paese che ospita e non soltanto di transitare :

 

“l’étranger est d’abord étranger à la langue du droit dans laquelle est formulé le devoir d’hospitalité, le droit d’asile, ses normes, sa police,  etc. Il doit demander l’hospitalité dans un langue qui par définition n’est pas la sienne, celle que lui impose le maître de maison, l’hôte, le roi, le seigneur, le pouvoir, la nation, l’Etat, le père, etc;”[16]

 

Ora le storie di migranti, le scritture migranti ci parlano soprattutto di esilio, nomadismo, abbandoni, transiti, attese, poco o nulla di dimora. Ogni dimora (abitazione) è soggiorno temporaneo tra due partenze, o una partenza e un ritorno. Ma il tempo e lo spazio dell’ospitalità non corrispondono necessariamente a una durata, a una continuità, ma a un evento unico, irripetibile e quasi miracoloso (cioè fuori del tempo ordinario). Come esempio vorrei citare e analizzare una breve sequenza del testo di Cixous Le fantasticherie della donna selvaggia, che potrebbe intitolarsi “dare un passaggio”  : il padre della narratrice offre a due arabi un “passaggio” segno di “un’ospitalità inattesa” “fatto assolutamente eccezionale in quel periodo”[17] e si chiamano a vicenda “fratelli”, questo in un’Algeria che è ancora per poco tempo Algérie française. Il padre offre l’ospitalità nella sua Citroën che funziona come abitazione/tenda mobile per i due passeggeri (esseri di passaggio, viandanti)  su un piano di perfetta uguaglianza e fraternità, cosa impensabile in una città e un tempo in cui la regola è l’apartheid, la segregazione razziale tra i Francesi e gli indigeni (gli arabi), ma anche tra i Francesi e gli ebrei (qual è il padre). Tutto in questa vicenda è dunque impensabile, incredibile eppur veramente avvenuto su una base di malinteso totale quanto all’identità presunta del padre : i due algerini lo scambiano  per un “francese” mentre secondo l’autrice è “un arabizzarro” un ebreo che si fa passare per arabo ed è accidentalmente “francese”. In questo caso l’automobile – una metafora dell’ospitalità che permette di passare le frontiere – è il topos dell’incontro, del riconoscimento reciproco, di un’alleanza effimera. La prova di un’improbabile tregua, di un passaggio verso un’altra storia che non è di fatto accaduta. Il padre è morto dieci giorni dopo. La guerra d’indipendenza è scoppiata. La famiglia è stata espulsa.  Secondo l’autrice è l’ibridità, cioè la profonda ospitalità intrinseca alla personalità del padre che induce l’apertura all’altro, mescolanza “bizzarra” di sé e altro, che permette di individuare i segni della riconoscenza riconoscimento. L’evento è il riconoscimento reciproco istantaneo. In tutto il resto del racconto nessun altro incontro avverrà sotto gli auspici dell’invito, tutte le porte resteranno chiuse, anche se Aïcha verrà ogni giorno “cheznous”  come domestica, e la madre andrà a casa sua per il parto. Ma questi incontri sono troppo brevi per saldare il rito dell’ospitalità reciproca.

Derrida attira l’attenzione sulla stranezza dell’espressione « chez soi »  “se sentir chez soi”, “faites comme chez vous” fate come a casa vostra, (ma di fatto siamo in casa altrui), l’ospitalità gioca sullo spartito dell’altro, sul limite e la soglia tra il sé e l’altrui : quando c’è trasbordo, l’altro è invasore, occupante, conquistatore. L’ostilità sta in agguato nell’ospitalità hospes/hostis. Il vicino diventa aggressore, i rapporti di buon vicinato diventano guerra tra nemici, l’amico diventa nemico, l’amicizia inimicizia. In Algeria, in India, in ex-Yougoslavia, in Ruanda … secoli di vivere comune, di “buon” vicinato, non hanno impedito le espulsioni, le guerre, i massacri. I vicini si trasformano da un giorno all’altro in stranieri, la memoria comune si scinde, le amicizie si spezzano, le lingue servono a identificare e separare, come altrettanti schibboleth le parole danno la vita ma anche la morte. A partire dal momento che il diritto di ospitalità incondizionato si scontra con l’istituzione dello Stato,  l’etica incrocia la politica le leggi dell’ospitalità non coincidono sempre con le leggi e i diritti che dello Stato. L’ospitalità è incondizionata soltanto quando è passeggera, limitata nel tempo e nello spazio.

 In questa prospettiva il luogo,  diventa ville-refuge, terra d’asilo,  abitazione temporanea  degli esiliati : il diritto di residenza  è soltanto un diritto di transito.[18] Come altri e altre Dubravka Ugrešic, scrittrice serbo-croata, autrice de  Il museo della resa incondizionata,  ha soggiornato in innumerevoli città e stati avendo dovuto abbandonare un paese in guerra. Come altri stranieri ha usufruito dell’ospitalità di vari paesi e istituzioni. Come pensare il soggiorno, lo “stare” se tale soggiorno è soltanto una “visita” ? I visitatori sono sempre stranieri e l’ospitalità è l’accoglienza dello straniero, in tale qualità l’ospitalità è universale e incondizionata. Ma se il soggiorno si prolunga, se lo straniero o la straniera fanno di questo stare un’abitazione permanente, nel tempo,  nello spazio la tenda del nomade diventa una casa. In questo caso cosa diventa l’ospite ? La scrittura  diventa museo, e anamnesi  delle tracce visibili e invisibili, voci, sussurri, oggetti perduti, figure spettrali, frammenti di una vita, paesaggi di paesi in transito o in sorvolo.

Ma la straniera o lo straniero che usufruisce del diritto di asilo, che ottiene il permesso di soggiorno, deve anche trovare un modo per accasarsi, per ricostruire un sé /altro o altra, attraverso lo sguardo dell’ospite, essere ospite dell’altro, alterarsi pur conservando la memoria del sé altrove (nel paese d’origine). La condizione dell’ospitalità è la reciprocità dell’accoglienza : la parola e l’ascolto da entrambe le parti. La parola “ospite” è il segno e la chiave di questa reciprocità : ospite è chi ospita e chi è ospitato, nel segno dell’uguaglianza e della differenza.

 

Il grande disincontro : l’ospitante ospitata

 

Per capire la duplice dimensione nella stessa persona di ospitante e ospitato ( ricorro all’attivo passivo soltanto per necessità esplicativa) si pensi alla situazione di G.H., la narratrice de La passione secondo G.H. di Clarice Lispector, quando scopre la stanza della domestica. Se fino al giorno in cui entra in quella stanza la domestica faceva parte integrante della sua casa, quello che la sconvolge è la rivelazione della radicale differenza :  G.H.  crede di tenere presso di sé una simile o assimilata, ma l’ospite è invece il suo rovescio, l’altra (l’autrui) radicalmente differente. Questo è soltanto un primo rovesciamento annunciatore di ben altri e più terribili (si pensi alla vicenda centrale tra la donna e la blatta, l’animale immondo). Clarice Lispector precisa minuziosamente le condizioni dell’abitazione, cioè come lei, donna, « padrona » abita il suo appartamento, in che modo questo spazio la costruisce ed è da lei pensato, costruito riflesso del suo « modo di essere ». Il seguito della vicenda mostra a che punto questo « essere » sia precario, quanto la « costruzione » sia di fatto un fragile paravento. Sta di fatto che affinché l’incontro dell’altra possa avvenire cioè  costituisca un evento lo spazio dell’abitazione, il suo tempo (la dimora, la durata, lo stare) saranno profondamente sconvolti : questa è la condizione del ricevere, accogliere, far posto : una violenza. Come è violenza per un cieco vedere improvvisamente la luce. Uno sconvolgimento del mondo che credeva suo.[19]

Apparentemente Lispector non avrebbe nessuna ragione di raccontarci una « storia coloniale », una storia di oppressione i cui personaggi sono il padrone/la padrona e lo schiavo/la schiava, ma di fatto questa storia risale il tempo, risale la struttura verticale dell’abitazione, fino ai piani nobili, all’attico, paragonato a un minareto,  per manifestarsi in tutta la sua brutalità. Che cosa ci può essere  tra G.H. una donna bianca, moderna, indipendente,  e Janair[20] una donna nera, di origine africana ; che cosa le unisce, che cosa le separa ?

Propongo di leggere questi primi capitoli della Passione secondo G.H. come un’allegoria della relazione all’altro/a sul piano simbolico, etico, politico e sociale,  al di là del riferimento coloniale o sociale, che tuttavia contiene.

Lispector ci racconta in modo implacabile, sistematico, il processo di sfaldamento e alterazione del sé, la trasformazione dell’ospite padrona in straniera in casa propria sotto l’effetto dell’estraneità dell’altra. Soltanto nella rimemorazione G.H. si rende conto della totale estraneità della domestica, talmente la sua presenza è invisibile, completamente fuori dall’ottica e dallo spazio mentale dell’io. Questa radicalmente altra era ospite in casa sua, si è sistemata creando all’interno una tutt’altra dimora  : indifferente ai gusti, allo stile, alla vita della padrona. Terribile rendersi conto che la domestica “a empregada” si è sottratta all’addomesticamento, mentre la padrona si scopre completamente aderente a un’immagine di sé che le fa da copertura : una donna accogliente, invitante, liscia che gli altri le hanno costruito addosso come un secondo corpo, un sé dato in prestito. L’ospitalità è in questo senso l’avvenuta cancellazione del sé profondo, discordante, l’enigma che soltanto le fotografie rivelano come indizio clandestino.

In un giorno vuoto, senza impegni, G.H. decide di metter ordine nel suo appartamento, a cominciare dalla stanza della donna di servizio, che secondo lei deve essere disordinata, tanto più che la stanza è adibita a sgabuzzino.  Il gioco del rispecchiamento  ha perfettamente funzionato fino a quel giorno:  il piano della casa corrisponde geometricamente al suo piano interiore, ed è “logico” che nella stanza sgabuzzino ci siano gli oggetti e la persona che sono restati da parte, nell’ombra.

Colei che è partita è in questo caso l’altra, ma ha lasciato delle tracce, dei segni, da interpretare, da leggere come una scrittura sconosciuta. Le diverse fasi di questo processo sono sotto il segno dell’entrare, anche se ogni passo successivo  si rivela rapidamente come una soglia/frontiera tra andare avanti e tornare indietro, avanzare e retrocedere, desiderio e ripulsa. In termini analitici  corrisponde a una regressione progrediente, il recupero doloroso di una forma di vita latente fuori dentro di sé quasi completamente repressa. Restano come indizi : il silenzio : “negli occhi che sorridevano c’era un silenzio come mi è stato possibile vedere solo nei laghi e udire nel silenzio stesso”, la perdita dell’origine : “A un paio di minuti dalla mia nascita avevo già perso le mie origini”, “un lieve tono di  tensione” “un silenzio inespressivo”[21]

Dal momento in cui G.H. apre la porta della stanza della domestica, il processo si rovescia entrare si converte in uscire da sé, è l’altra che occupa tutto lo spazio :

 

“La stanza si differenziava talmente dal resto dell’appartamento che, per entrarvi, era come se prima io fossi uscita dalla mia abitazione e avessi bussato alla porta. Il locale era l’esatto opposto di ciò che io avevo creato in casa mia, l’opposto della squisita bellezza che era il risultato del mio talento nel mettere ordine, del mio talento di vivere, l’opposto della mia ironia serena, della mia dolce e disattenta ironia: era una violazione delle mie parentesi, di quelle parentesi che facevano di me una citazione di me stessa. La stanza era la fotografia di uno stomaco vuoto”[22]

Una stanza tutta per sé ? La stanza della donna folle ? la stanza tutta dell’altra, interamente occupata dall’occupazione altrui. Questa è la soglia dell’inversione di senso tra ospitalità e ostilità : la narratrice la chiama rabbia “raiva” irritazione “irritação”, il suono ‘r’ si propaga tra le parole e le frasi, suono della materia, del silenzio “Uno stridio neutro di cosa era ciò che costituiva la materia del suo silenzio”,[23] lo stesso suono delle regina “rainha” titolo attribuito a Janair che ha disegnato con il carboncino secco tre sagome sul muro : un uomo, una donna, un cane :

“Carboncino e unghia associati, carboncino e unghia assieme, tranquilla e compatta rabbia di quella donna che era la rappresentante di un silenzio quasi rappresentasse un paese straniero, la regina africana. E che lì, dentro casa mia, si era installata, la straniera, la nemica indifferente.”[24]

Tutto quello che G.H. ha creduto costruire in sé, attorno a sé, assimilabile alla cultura come coltivazione, costruzione, fabbricazione è annientato dalla scoperta della stanza vuota, del linguaggio straniero (ieroglifici) della radicalmente altra. L’idea stessa dello spazio comune, di transizione o mediazione sembra da escludersi. Le fasi che precedono l’entrata ci hanno forse fatto credere che ci si potesse avvicinare gradualmente, ma la gradualità è illusione, come l’adattamento, l’assuefazione, che non sono altro che gli effetti culturali dell’addomesticamento, cioè della cancellazione dell’alterità e delle differenze. Il disegno sulla parete rivela un’altra significazione della differenza che non corrisponde affatto alla formulazione anteriore. In quanto scultrice  : “Per una donna tale reputazione sul piano sociale vuol dire molto, e tanto agli occhi degli altri quanto ai miei mi ha situata in un’area socialmente intermedia fra uomo e donna. Cosa che mi lasciava alquanto più libera di essere donna, dal momento che io non mi preoccupavo formalmente di esserlo.”[25]

La domestica invece le “regala” spietatamente una tutt’altra immagine che la sbalordisce ma anche la diverte :

“Ho osservato l’affresco dove io avrei dovuto essere rappresentata .. Io, l’Uomo. E, quanto al botolo – sarebbe questo l’epiteto che lei mi dava ? Da anni ormai io non ero giudicata se non dai miei pari e dal mio stesso ambiente che dopotutto, era costituito da me stessa e per me stessa. Janair era la prima persona davvero esterna del cui sguardo prendevo coscienza.”[26]

Una donna che vive da sola del proprie mestiere è necessariamente un uomo, il genere umano, indifferenziato. In ogni caso non una donna, eppure nella triade c’è anche la “donna” ma è la donna secondo l’altra, ancora più estranea, in-differente.

Rabbia, odio, irritazione, repulsione altrettanti segni di una lotta violenta all’interno di sé, tra sé e “l’altra” soltanto inizialmente “Janair” ma sempre più quella senza figure, senza immagini che risale dal fondo, fino a gettarla fuori da casa propria, presa di coscienza fisica e spirituale dell’essere estranei in casa propria, senza nessuna mediazione, nessun segno di accoglienza di benevolenza, di parola comune.

Sappiamo che questo è soltanto l’inizio del cammino di G.H. verso l’inferno, il fondo, perchè soltanto andando fino allo sradicamento totale del sé tra parentesi, del sé costruito a forza di cautele e attenuazioni, potrà toccare il silenzio, l’inespressivo, il”neutro” in sé, che il sé ospita.

In questa storia, in questo percorso la lingua altrui è il silenzio, sono i segnali muti, il suono della punta sul disco dopo che la musica è finita. Partire da questo stridio significa cominciare il difficile cammino dell’ascolto. Talvolta un profondo disincontro è il timido inizio dell’incontro.

 

 

Nadia Setti – Centre de recherches en études féminines et études de genre

Paris VIII, Vincennes à Saint-Denis

[1]              Si potrebbe osservare che proprio questo modo invisibile di controllo assomiglia sempre più all’immagine del potere capillare, sparso, frammentato, decentralizzato di cui parla Foucault ne La volonté de savoir. Prendendo le distanze da un potere raffigurato come « sistema Sovrano-Legge » Foucault propone di analizzare i meccanismi di potere partendo da « une stratégie immanente aux rapports de force », Histoire de la sexualité, La volonté de savoir, Tel Gallimard, 1976, p. 128.

[2]              Edouard Glisant distinguendo questi due termini considera la mondializzazione come il rovescio negativo della mondialità : « La mondialité, c’est l’aventure extraordinaire qui nous est donnée à tous de vivre aujourd’hui dans un monde qui, pour la première fois, réellement et de manière immédiate, foudroyante, sans attendre, se conçoit comme un monde à la fois multiple et unique » in Les périphériques vous parlent, n° 14, 2000, p. 18.

[3]              Per un’analisi più approfondita di questo tema e del testo di Derrida rinvio al mio saggio « Scritture dell’alterità » in DWF, Voci migranti, 3-4, Luglio -Dicembre 2006, pp. 71-93.

[4]              Si veda il racconto di Sebbar «  On tue des instituteurs » in Une enfance algérienne, Gallimard, haute enfance, 1997, pp. 189-197 ; e quello di Assia Djebar « La femme en morceaux » in Oran, langue morte, Actes Sud, 1997.

[5]                Si può ipotizzare che capire implica interiorizzare il linguaggio dell’altro, in questo caso l’insulto sessuale, che ferisce attraverso le parole il corpo e lo spirito : il padre ha preservato le figlie preservandole dalla violenza sessuale di cui la sua lingua è portatrice. Questo non significa che siano restate indenni dalla violenza dei gesti.

[6]              Uscito nel 2004, presso le edizioni Bleu autour, seguito da Journal de mes Algéries en France, 2005.

[7]                Rosi Braidotti, Soggetto Nomade, a cura di Anna Maria Crispino, Donzelli Editore, 1995, p. 17.

[8]                Nancy Huston, Leïla Sebbar, Lettres parisiennes, J’ai lu, 1986, p. 212.

[9]                Nancy Huston, Nord perdu, Actes, Sud, 1999, p. 17.

[10]              Ibid. p. 18.

[11]              Ibid. p. 61.

[12]              Ibid., p. 64.

[13]              Anna Moï, Espéranto, désespéranto, La francophonie sans les Français, Gallimard, 2006, «  L’autre, traité familièrement ou non, conserve son mystère ; il est seulement l’autre/pas moi, libre et égal. », p. 43.

[14]              Ibid. p. 32-33.

[15]              Segnalate e analizzate da Lidia Curti nel suo saggio « Letteratura della migrazione tra arte e testimonianza, in DWF, Voci migranti, 3-4 (71-72) Luglio dicembre 2006, pp. 25-39. Vedasi inoltre Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, 2003.

[16]              Anne Dufourmantel invite Jacques Derrida à répondre, De l’hospitalité, Calmann-Lévy, 1997, p. 21.

[17]              Hélène Cixous, Le fantasticherie della donna selvaggia, trad. Nadia Setti, Bollati Boringhieri, 2005, p. 36.

[18]              Cf. Jacques Derrida, Cosmopolites de tous les pays encore un effort!, Galilée, 1997.

[19]              Come nota in maniera certo meno apocalittica, Nancy Huston in Nord perdu a proposito della differenza tra le lingue : « Le problème, voyez-vous, c’est que les langues ne sont pas seulement des langues ; ce sont aussi des world views, c’est à dire des façons de voir et de comprendre le monde. Il y a de l’intraduisible là dedans … » op. cit. p. 51.

[20]              Da dove viene Janair ? : non si sa, possiamo però avanzare alcune ipotesi, Janair come Jane Eyre, abita in casa dei padroni, domestica l’una, tutrice l’altra, sotto lo stesso tetto della misteriosa donna pazza di origine caraibica, che metterà fuoco alla dimora del padrone.

[21]              Clarice Lispector, La passione secondo G.H., trad. Adelina Aletti, La Rosa, 1982, p. 18 ; 22 ; 20.

[22]              Ibid. p. 36.

[23]              Ibid. p. 36.

[24]              Ibid. p. 37.

[25]              Ibid. p. 20.

[26]            Ibid., p. 34.