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per amore del mondo Numero 6 - 2007

Relazioni Pericolose

Relazioni pericolose: il misterioso rapporto tra cinema e intelligenza

Per chi ama il cinema, le interviste alla gente che lo fa, a tutti i livelli, sono sempre pericolose: è  raro ritrovare nelle parole dei registi e degli attori tracce di quell’intelligenza che ci è parso veder dispiegata nei film che hanno realizzato, ed è il motivo per cui molto spesso me ne tengo lontana. Una bella eccezione a questa regola è stata una recente intervista televisiva a Susan Sarandon, forse l’attrice americana più intelligente della sua generazione (è nata nel 1946), che con parole piene di humour ha manifestato chiaramente  lo stesso dubbio. Raccontando di come ha trascorso una larga parte della sua carriera a tentare di migliorare le parti orribili che le offrivano, sollecitata da un acuto intervistatore ha spiegato che non tutti i suoi colleghi si comportano così, molti si limitano a leggere le proprie battute. Ed ha aggiunto: “E la cosa sconvolgente è che in molti casi pare che funzioni, quindi sembrerebbe che l’intelligenza non sia un attributo necessario a questo mestiere!”. Autentiche risate di sollievo del pubblico presente, probabilmente sfinito, proprio come noi, dai meccanismi mummificati di  un apparato mediatico – pubblicitario che insiste a presentarci gli attori hollywoodiani come modelli desiderabili di vita e dispensatori di autorevole pensiero sui più svariati argomenti.

Anche il lavoro del   regista iraniano Kiarostami può essere preso come un esempio dell’indefinibile rapporto tra intelligenza ed efficacia degli esiti visivi: nei suoi film  si percepisce spesso il valore indubbio di intuizioni e idee di grande spessore che si fermano nelle maglie di un linguaggio cinematografico enigmatico che, come può accadere agli enigmi, anziché produrre visioni liberatorie conduce all’opacità. E’ accaduto nel 2001 con il suo film/documentario    ABC Africa. Kiarostami fu mosso. a realizzare questo film  da una necessità molto seria: spettatore dei servizi televisivi della BBC sull’Africa, aveva cominciato a trovare insopportabile la rappresentazione corrente di questo continente come luogo di assoluto abbandono e derelizione,  di miseria e disperazione insostenibili. Quindi decise di realizzare un documentario in Uganda, dove si era creata una situazione  che aveva messo in campo risorse e capacità umane particolari: in seguito a un’annosa guerra civile e all’altissima diffusione dell’AIDS, la generazione dei genitori, uomini e donne, era stata decimata e una parte considerevole del milione e mezzo di bambini rimasti orfani venivano allevati dalle donne anziane o da coppie giovani animate da un grande  senso di responsabilità e fiducia per la rinascita del loro paese, che colpiva ancora di più  per il tono quieto in cui veniva espresso.  Se ben ricordo si trattava di una rete di iniziative spontanee al di fuori di programmi e sostegni governativi, almeno nel suo inizio, e c’erano casi di nonne settantenni, che vivevano sole in modo semplicissimo nei villaggi e allevavano in un colpo 35 bambini. L’effetto di documentare un’esperienza del genere con uno sguardo che ha riflettuto sul rapporto tra verità e rappresentazione, placava certo l’ansia, che io condivido fortemente con Kiarostami, per le descrizioni irrispettose e mortificanti delle difficoltà degli africani; raccontava che la riparazione autonoma alle sventure, anche le più terribili, che li colpiscono è possibile; soprattutto ribaltava i parametri consueti di ricchezza e povertà, perché in condizioni di vita che per noi spettatori più ricchi potevano senz’altro definirsi povere mostrava come ci fossero all’opera risorse spirituali e di relazione così ricche che molto spesso, in contesti economicamente più floridi colpiti da una tragedia, non si sono manifestate. Eppure all’uscita del cinema ero stata colta da una strana sensazione di oscurità che mi aveva oppressa e stupefatta, come se camminassi sotto il peso di qualcosa rimasto in ombra, qualche cosa che non ce l’aveva fatta a scaturire dalle immagini e provocava un senso di rimpianto, come per un incontro mancato. Non ho mai capito di che cosa si trattava: razionalmente ho supposto che questo effetto di mancanza fosse dato dal fatto che un simile racconto non nominasse apertamente la potenza materna, ma è una spiegazione che non mi convince del tutto. Credo che abbia più a che fare con il rapporto misterioso che c’è tra la bontà di un’idea, concepita onestamente, e la sua messa in quel corpo unico di immagini, voci e parole umane che, dall’avvento del cinema sonoro, quando funziona rinnova il miracolo peculiare della narrazione cinematografica: forse l’unica,  nella nostra cultura, rimasta in grado  di metterci in contatto con i moventi oscuri del nostro agire, sentire, patire (speriamo anche gioire).  Del resto lo stesso Kiarostami, chiamato a dialogare dai filosofi francesi, si è rivolto loro in questo modo: “Beati voi che attraverso la filosofia e il vostro pensiero potete trovare cose così complesse nei nostri film che sono ancora acerbi”. Una dichiarazione di candore  che, al di là degli ostacoli espressivi, ci fa confidare sulla solidità della sua intelligenza.

 

Non è un caso che, tra quelli che conosco,  il mio critico cinematografico preferito sia Roberto Escobar, che ha una formazione filosofica. Raramente traggo autentica soddisfazione dalle  osservazioni  di quelli che provengono da studi di cinema in senso stretto: il loro gusto di rovesciare su noi spettatori o spettatrici normali quintali di riferimenti da frequentatori abituali di festival, senza dirci quello che hanno guadagnato personalmente dalla visione di un film, mi mette a disagio. Quello che mi piace dei testi che Escobar pubblica settimanalmente sulla Domenica del Sole 24 Ore, pur non essendo a volte d’accordo con lui, è il suo sapere in certi casi riconoscere, dal loro semplice sostanziarsi nell’agire fisico dei personaggi, il profilarsi di posizioni esistenziali che mi regalano l’emozione, rara ma intensissima, di poter procedere nella vita con  uno sguardo nuovo e di goderne l’acquisizione nel momento preciso in cui questa novità accade. Della registrazione di questo invisibile ma meraviglioso accadimento riporto un esempio che considero sublime, e che riguarda il film di Aki Kaurismaki  Le luci della sera, uscito nelle sale all’inizio del 2007. In breve, il film racconta la storia di una guardia giurata, Koistinen,  un giovane uomo che conduce una vita apparentemente squallida in totale solitudine, isolato e irriso anche dai suoi compagni di lavoro; un giorno Koistinen viene avvicinato da Mirja, una donna elegante e seducente che comincia a interessarsi a lui e a frequentarlo. Ben presto scopre che Mirja agisce per conto di una banda di malviventi che vogliono sfruttarlo per rapinare una gioielleria che lui sorveglia nel suo giro notturno di ispezione. La lascerà agire senza smascherarla, e sconterà, accusato ingiustamente, due anni di prigione. Così commenta Escobar il singolare comportamento di Koistinen: “Insomma, stare al gioco dei suoi ingannatori e persecutori, lasciarli essere del tutto quel che sono, è per lui la difesa più netta – la più certa e anche la più pulita – dalla loro miseria trionfante. […] E ancora con lo stesso coraggio Koistinen affronta la crudeltà maggiore, quella di Mirja che inganna il suo amore. Potrebbe fermarla, prima che alle sue bugie seguisse il peggio. Ma se lo facesse, in qualche modo gli parrebbe d’averne accettato e condiviso l’orrore morale. Mirja è così volgare, che solo lasciandola arrivare sino in fondo a lui sembra possibile levarsene di dosso lo sporco”. Parole per me straordinarie, capaci di suscitare lo stupore e la gratitudine di una rivelazione.

Come prima impressione, il film di Kaurismaki (che naturalmente, sulle ali donatemi dal mio beniamino, mi sono precipitata a vedere) mi è sembrato inferiore al pensiero del suo sensibile critico. Chi conosce il cinema del regista finlandese sa che la sua narrazione per eccellenza scarna, contraddetta solo in superficie da colori sempre iperrealistici, la sua necessità di restare avvinghiato a ciò che è stato ridotto all’osso (nei suoi film non sappiamo mai perché, quel che è successo prima, anche qui ignoriamo del tutto che cosa abbia portato Koistinen a vivere così e a sviluppare questa sua strana forma di resistenza), coincide  con quello che il cineasta vuole dirci del suo rapporto con il suo paese e i suoi abitanti. E’ curioso che dopo la delusione iniziale nel mio ricordo permanga ostinata l’immagine  del corpo racchiuso in se stesso di Koistinen, ripiegato e sanguinante nel finale, dove, essendosi imbattuto per caso nei suoi persecutori, li affronta fisicamente e viene da loro selvaggiamente picchiato, mantenendo ancora una sorta di ineffabile integrità: che gli viene dal fatto che mentre lui ha visto esattamente chi sono gli altri e  non si è lasciato ridurre alla bassezza dell’altrui linguaggio, loro continuano a non sapere per nulla chi è lui e a temere perciò che li denunci alla polizia.

Se la geniale intuizione che lasciare gli altri a se stessi fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, sia  una forma sublime di libertà, di cui in qualche modo possiamo tener conto nella vita quotidiana (sperando certo che ciò non significhi per forza sanguinare o andare in galera! – due prospettive che io, a differenza di Koistinen, trovo terrorizzanti, e di fronte alle quali nutro l’atroce dubbio che baratterei la mia libertà) provenga dal film di Kaurismaki o dallo sguardo del suo intelligente spettatore, è impossibile dirlo. Abbiamo solo un indizio: qualche mese fa Kaurismaki ha detto in un’intervista che ha intenzione di lasciare il suo paese, e che non è sicuro che farà ancora dei film. E ha motivato la sua decisione con parole fulminanti: “E’ tempo

di abbandonare la Finlandia all’autodistruzione che desidera”. (Parole che inoltre risuonano in modo inquietante nel mio orecchio di italiana perché chiamano in causa il rapporto sinistro che a mia volta intrattengo con il mio paese).

 

Ormai parecchi anni fa, per la precisione nel 1998, sono rimasta molto impressionata dal film Del perduto amore, diretto da Michele Placido, uno di cui non mi ero mai interessata né mai avrei pensato di dovermi interessare. Il film è ispirato alla storia di Liliana Rossi, una donna veramente vissuta negli anni ’50 in un paese del foggiano. Lo vidi due volte, e tutte e due le volte lo considerai un film di grande bellezza, e tale ancora lo considero nel ricordo. Racconta la storia di una ragazza formatasi nella militanza comunista che, discostandosi in modo impercettibile dalla strada percorsa fino a quel momento, fonda una scuola per ragazze analfabete. Lo scenario del piccolo paese in cui vive è lo scontro violento tra democristiani alleati con l’estrema destra e il Partito Comunista locale. Amatissima dalle sue allieve, con la sua iniziativa Liliana si guadagna l’ostilità, e via via addirittura l’odio, di tutti i partiti, compresi i compagni del partito da cui lei stessa proviene, che non le perdonano di dedicarsi a un lavoro percepito come  “impolitico” trascurando i doveri della tradizionale militanza. Alla fine la sua scuola viene incendiata, ma Liliana, che gode della simpatia degli abitanti del paese, si candida alle elezioni comunali e ottiene molti voti. Morirà poi prematuramente di malattia.

Il modo in cui la storia di  questa donna veniva narrata mi aveva colpito perché coglieva perfettamente il formarsi, nella coscienza e nell’agire di Liliana, di una nuova idea di politica come un passaggio storicamente cruciale: una politica fondata sulle relazioni concrete con le persone che la circondano e non sul credo ideologico o l’organizzazione gerarchica di un partito; la consapevolezza che nel contesto in cui vive aprire una scuola è un gesto politico e non assistenziale o filantropico. Ero estremamente felice di vedere che un film italiano descriveva così bene l’apparire di un atteggiamento politico che il femminismo, 20 anni dopo, avrebbe portato alle sue più radicali conseguenze, ma che certo prima d’allora si era manifestato nella mente e nell’esperienza di singole donne alle quali, attraverso la storia di Liliana, veniva reso un giusto tributo. Pensavo inoltre che il film sottolineasse lucidamente in tutta la sua tragicità l’incomprensione dei compagni di partito di Liliana e il loro tirarsi indietro rispetto all’aprirsi di una possibilità effettiva  nella realtà che li circondava, e che l’intuizione di questa frattura offrisse un legame con il declino delle sinistre attuali. Insomma anche il nostro cinema si mostrava finalmente capace di portare alla luce i non detti della storia politica del nostro paese.

Qualche mese dopo l’uscita del film capitò che Michele Placido venisse nella mia città, Bologna, ospite della Cineteca Comunale. Devo confessare che mi recai all’incontro con una certa trepidazione: lo accompagnavano Domenico Starnone, che aveva sceneggiato il film, e l’amico attore Alessandro Haber. Fu uno shock, lo dico a costo di espormi in tutta la mia  patetica ingenuità: non solo i tre erano del tutto incoscienti ed ignari del reale contenuto del film che avevano fatto, ma si comportarono seguendo il copione di un trito e tronfio teatrino tra amiconi, mollandosi l’un l’altro gomitate da compagni di baldorie e disprezzando apertamente il pubblico con atteggiamenti di degnazione paternalistica.

Come poteva darsi che all’origine  di un film che continuo a giudicare bello ci fossero miseria di sentimenti e qualità intellettuali dubbie? E’ un grande  mistero. Oppure, se “l’amore spira dove vuole”, come Ermanno Olmi fa dire al protagonista del suo ultimo film Centochiodi, così dev’essere anche per l’intelligenza cinematografica, che può spirare perfino su Michele Placido.

 

 

 

Per non annegare nella tristezza dell’episodio precedente, racconterò del mio bellissimo incontro, l’estate scorsa, in un contesto analogo, con Marco Bellocchio, uno che ho amato molto per il film Buongiorno, notte (2003), in cui  ricostruisce in modo personalissimo il rapporto tra i brigatisti e Aldo Moro durante la prigionia.  Sono sempre più convinta che la vera autorità emani dal livello corporeo, e produca come primo risultato in chi la incontra una gioia fisica. E’ quello che ho provato al cospetto di un uomo che, presentandosi in pubblico, coincide perfettamente con la sua opera, nelle parole, nel modo di stare in rapporto con quelli che ha  di fronte ma, ripeto, prima di tutto per il modo di condurre il suo corpo nello spazio. Ho avuto modo di ringraziarlo pubblicamente per il dono che credevo di aver ricevuto dal suo film (grosso modo, qualcosa che riguarda l’essermi sentita restituire la dignità drammatica della storia del mio paese). Mi ha risposto esprimendo generosamente la felicità di essere stato riconosciuto esattamente nella cosa per cui desiderava (e forse disperava) esserlo.

Durante l’incontro sono stata invasa da un piacere fisico che è durato per giorni, scaturito dal fatto che io e lui eravamo stati alla presenza di qualcosa che  ci stava a cuore e che reputavamo vero, insieme e nello stesso momento.

 

In definitiva, andando al cinema, la prima relazione pericolosa in cui mi trovo  invischiata è quella che io stessa intrattengo con le visioni cinematografiche: sempre sull’orlo dell’abbaglio, con il rischio di vedere cose che non so se ci sono o non ci sono, o che magari sono lontanissime dalla mente di chi me le ha mostrate.

Andrei Konchalovsky  (il regista russo fratello meno noto di  Nikita Mikhalkov), oltre che al cinema dedito al teatro, intervistato sulla sua ultima versione del Gabbiano di Cechov portata a Roma l’inverno scorso, ha sostenuto che si tratta di un testo comico e non drammatico. “Indago più  sui rapporti fra i personaggi: ci sono figlie illegittime, complessi di Edipo, sensualità. E’ un lavoro molto più vicino a Cechov”. “Come mai ne è così certo?”, ribatte l’intervistatrice. “Me l’ha detto lui. Durante le prove era sempre con me, seduto lì vicino, mi batteva la spalla e diceva: bene, bene”(!). Credo che il significato di queste esilaranti parole sia letterale e non paradossale. Descrive meravigliosamente l’esperienza di profonda felicità di stare in buona compagnia senza l’ansia dell’analisi e il dominio della comprensione. Evoca il potere misterioso che si sprigiona quando ci affranchiamo dalla visione solitaria, quando sappiamo che altri occhi stanno guardando con noi lo svolgersi di qualcosa di umanamente fondamentale, l’unico movimento indispensabile perché accada ogni vero cambiamento, ogni vera rivoluzione, al cinema, nella politica, nella vita.