diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

La passione consumante

Quando lo spirito soffia dove vuole. Le donne che si astengono dal cibo.

A partire dal libro di Waltraud Pulz, Nüchternes Kalkül – Verzehrende Leidenschaft. Nahrungsabstinenz im 16. Jahrhundert

 

 

 

Waltraud Pulz è un’etnoantropologa, che ha scelto di occuparsi con gli strumenti della sua disciplina di una questione che riguarda le donne nel ‘500 in Europa. Ci sono state donne che si sono astenute dal cibo secondo una intenzione religiosa e questo comportamento è stato letto come segno della loro santità.  Ce ne sono state altre che hanno simulato lo stesso comportamento e qualche volta il loro artificio è stato scoperto. Il libro scritto da Pulz e pubblicato da poco tratta di queste ultime, in un confronto inevitabile con le prime. È intitolato Strategia del digiuno – Passione consumante. Astinenza dal cibo nel ‘500 (in tedesco Nüchternes Kalkül – Verzehrende Leidenschaft. Nahrungsabstinenz im 16. Jahrhundert, Böhlau, Colonia 2007). È una questione studiate anche da ricercatrici italiane come Gabriella Zarri ed altre, ampiamente citate nel libro.

Nel testo c’è il riferimento ad un preciso periodo e luogo. Siamo agli inizi della Riforma luterana e calvinista nell’area di lingua tedesca. La civiltà cristiana europea si è da poco frammentata. I protagonisti della Riforma rimproverano duramente alla chiesa cattolica di Roma – fra le tante cose – una sovrabbondanza di santi, sante, figure e immagini intermedie tra l’essere umano nella sua normalità e Dio. In questa area e in questo tempo convivono più posizioni, più forme religiose.

Nonostante la Riforma abbia criticato la costruzione sociale del santo, tuttavia i documenti dell’epoca testimoniano la continuità di figure di sante. In particolare di quelle che mostrano i segni della loro eccellenza nel nutrirsi di nulla: solo di cibo spirituale. In parallelo  i documenti registrano il fenomeno di donne che imitano le sante, simulando la medesima astinenza da cibo. E questo proprio nell’area riformata. Come mai? Perché? La risposta di Pulz è che, se la Riforma ha modificato certe coordinate simboliche precise, tuttavia a livello più popolare il modello della santità non scompare. Del resto le donne di questo periodo, anche di strati sociali medi, o sapevano leggere – circolavano molti testi sulle vite delle sante – oppure conoscevano queste vite per tradizione orale. Se ne parlava. Si tenga con che quando considera la santità, Pulz non  la intende nel senso proposto dalla gerarchia ecclesiastica e dalla teologia del tempo ma nel significato più corrente che circolava nel linguaggio quotidiano, così come veniva reinterpretato da queste donne. A ciò si aggiunga che per Pulz non si possono guardare i comportamenti sociali secondo un tempo storico lineare, ma secondo una compresenza di tempi storici diversi tra di loro.

Nel testo l’autrice dedica sette medaglioni ad altrettante donne considerate sante astinenti e scoperte poi in parte come imbroglione. Ricostruisce cioè precise storie di vita nel contesto sociale, pubblico con cui interagivano, facendo molta attenzione alle funzioni simboliche implicate, e cercando contemporaneamente di mostrare la singolarità di ogni storia. La prima di loro è Anna Laminit (circa 1480- 1518). Lei vive prima della Riforma. Le altre sei vivono invece in piena Riforma. Le fonti adoperate sono molteplici, e le più interessanti sono costituite dai così detti “fogli volanti”. Si tratta di fogli illustrati che circolavano nel ‘500 e anche nei secoli successivi e che descrivevano i fatti più importanti del momento. Le pagine finali del libro ne riproducono alcuni esemplari curiosi, interessanti, ironici come quello di una donna che furbescamente mostra la grande pancia finta che sarebbe stata la testimonianza di una gravidanza diabolica interpretata prima in bonam poi in malam partem. Sicuramente le sante astinenti dal cibo rappresentavano un argomento pubblico, costituivano fonte di forte attrazione. Darne notizia poteva mobilitare i comportamenti di un paese, di una città e di un territorio. Di altrettanto forte impatto popolare era del resto la scoperta di simulatrici.

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati ad indagare tutti gli elementi in gioco presenti nella zona grigia che si stende tra una devota imitazione di Cristo attraverso l’astinenza dal cibo e invece una imitazione come azione calcolata. Mi sembra giusto che l’autrice chiami questa area una zona grigia, indeterminata perché lei sostiene che è difficile separare nettamente il calcolo, l’azione che volutamente inganna, da una identificazione appassionata in un modello di santità a cui queste donne tendevano davvero, pur non essendone all’altezza.

Che questa sia una zona indeterminata, cioè difficile da analizzare – dove le connessioni e i mescolamenti sono molteplici – lo si vede anche dalla vicinanza ambigua tra i segni del divino e quelli del demoniaco. Si tratta di una vicinanza che è stata osservata e indagata in tanti contesti, diversi da quelli presi in esame dall’autrice. Comunque in particolare in questo periodo della Riforma e della Controriforma erano molte le discussioni di teologi e giudici se una donna fosse o meno in commercio con il diavolo, se fosse una prostituta del diavolo o in rapporto diretto con Dio, perché i segni nel comportamento e nel corpo risultavano molto simili. Era difficile operare la giusta attribuzione. Si noti tra l’altro che l’appellarsi al diavolo e ai suoi subdoli interventi era un gesto compiuto anche dalle donne che simulavano di essere delle sante, perché, dichiarandosi possedute dal diavolo, si sottraevano all’accusa di aver imbrogliato e rigettavano la responsabilità dei loro atti.

Diciamo che il punto focale della ricerca di Pulz è di mostrare come il modo per cogliere appieno la simulazione della santa anoressia stia nel rinunciare alla prospettiva dell’ordine simbolico prevalente, che, in questo caso, risulta sviante. Il simbolico contemporaneo infatti si struttura in una serie di opposizioni dualistiche tra santo e simulatore, tra fatto e miracolo, tra mangiare e non mangiare niente, tra nutrimento spirituale e materiale. Tale logica oppositiva impedisce di leggere in modo appropriato questo genere di esperienze, che possono invece essere comprese stando all’interno di un paradigma che accolga un movimento slittante tra poli opposti. In fondo, sostiene l’autrice, se si sospende fino in fondo la differenza tra nutrimento spirituale e nutrimento naturale, tra corpo e anima, allora viene meno anche l’idea che ci sia inganno. La menzogna, la finzione sono, non a caso, fatti simbolici. Nel nostro ordine simbolico che si possa dire la verità dipende dalla nostra possibilità di mentire. Ma se, con Pulz, andiamo verso un paradigma dove viene accolto un andirivieni tra verità e autosuggestione appassionata senza una separazione netta, i comportamenti di queste donne vanno letti in modo diverso.

Prendiamo il modello allora molto noto di una santa che si è astenuta dal mangiare come Santa Caterina da Siena. Si sa che Caterina aveva molta autorità al suo tempo, che le veniva riconosciuta se pure in forme contrastanti. Si sa anche che era una santa che si asteneva dal cibo, ma questo non significava che se ne astenesse del tutto. Decideva lei quanto e come mangiare. Diciamo che mangiava in modo del tutto irregolare, non normale. La sua autorità le permetteva questa libertà. Ora una donna che desiderasse diventare santa come Caterina, prendendo il modello dell’astenersi dal cibo, ma che non ne avesse né l’autorità né l’eccellenza, finiva per digiunare un po’ davvero e un po’ per finta, imbrogliando certo ma appassionandosi a questa scommessa. Un po’ della sua vita era sinceramente presa da questo tentativo. Del resto come mettere i limiti tra passione sincera, impossibilità di esserne all’altezza, strategie per ovviare a ciò simulando, e identificazione? Difficile da separare tutto questo.

Così, leggendo questo libro e sentendo Waltraud parlarne in più occasioni, mi sono detta: è proprio vero che lo spirito soffia dove vuole. Soffia tra le sante, le quasi sante e un po’ gira anche dalle parti delle imbroglione.

C’è un argomento teologico molto stringente per argomentare questo. Si tratta dell’affermazione di Genesi che Dio ha creato gli uomini e le donne a sua immagine e somiglianza. Occorre tener conto del concetto di somiglianza, perché la santità, per queste donne, non significava diventare Dio, come alcune invece avevano sostenuto finendo per essere condannate per eresia. Essere sante, nel linguaggio teologico corrente, significava dunque – Pulz lo ricorda – essere molto simili a Dio. Tutte e tutti siamo simili, ma loro un po’ di più. Per queste donne l’imitatio di Cristo ne è stata la via privilegiata. Con il digiuno imitavano Cristo nel deserto. Questa strada umana di riferirsi a Cristo era quella che permetteva di entrare più facilmente nella traiettoria spirituale già tracciata da Genesi. Ma si sa che la somiglianza è per definizione un concetto molto elastico. Quanto occorreva essere somiglianti? Quasi del tutto? Un poco? Non c’è limite nella somiglianza né verso l’alto né verso il basso. E dunque quelle donne che simulavano, digiunando solo un poco invece che del tutto come sostenevano, in fondo rientravano in questa traiettoria. Finiva di frequente che erano proprio quelle che, non avendo in questo senso una eccellenza, scivolavano facilmente nella condizione di essere considerate false profetesse, streghe dalla società del loro tempo. Donne ambigue. Pericolose.

Il principio di fondo a cui il libro si appoggia – che tra realtà e dimensione dell’impossibile meraviglioso non vi sia una distinzione netta ma una compresenza porosa – ha bisogno di una riflessione ulteriore. L’autrice mostra come nel basso Medioevo non ci sia stato un “aut aut” tra fatto e dimensione del meraviglioso, bensì un “tanto, quanto” e un “così anche” molto comprensivi di entrambi i poli. Aggiungerei, anche facendo riferimento ad una ricerca sullo slittamento tra realtà e irrealtà che stiamo sviluppando con Diotima, che vi è un andirivieni tra realtà e sogno, tra necessità e impossibile, tra realtà e qualità altra della realtà. Un andirivieni vissuto senza stranezza soprattutto nel Medioevo e in particolare dalle donne, che ha poi visto una cesura precisa con la nascita dell’epoca moderna. Eppure, come mostra questo libro, senza una sua scomparsa definitiva. Si mantiene ad un altro livello di realtà rispetto a quello ufficiale della teologia e della scienza. Ci sono donne che, anche dopo questa cesura, sperimentano questo andirivieni. Le sante/quasi sante/simulatrici che Pulz descrive ne sono un esempio.

È interessante come più di una volta nella loro storia le donne abbiano saputo accogliere la figura simbolica con cui venivano nominate dalla cultura maschile tendendola però fino a capovolgerla e a farne una leva di autonomia. Una via di libertà. È successo anche nel periodo storico preso in esame nel libro. La rappresentazione che le donne trovavano di sé nel linguaggio teologico, che allora dettava il simbolico, era quella di essere prima di tutto e soprattutto corpo come materialità generativa, sessuale. Studiato dalla medicina del tempo. E proprio di quel corpo alcune, le eccellenti nel senso religioso, hanno fatto l’hortus conclusus nel quale il divino potesse incarnarsi. Hortus conclusus, ovvero il giardino spirituale, la terra che si sposa con il cielo. E questo soprattutto attraverso la pratica del digiuno che è un esercizio di modellamento di sé, di ascesi, che permette un altro nutrimento. Quello spirituale. Materia e spirito, corpo e anima così si sposano.

Non è un caso che pochi sono i casi di uomini santi per astinenza dal cibo, perché appunto non era il corpo ad essere per loro sovraesposto simbolicamente. I santi “irregolari” descritti da Pulz sono piuttosto quelli che si ponevano in una posizione di idiozia, di follia, mescolando santità e follia e avendo come effetto quello di svelare la vera follia della società, invisibile ai più.

Il fatto che le donne mostrassero la vicinanza a Dio attraverso il corpo le sottraeva ad una santità di tipo morale, misurata sul comportamento, e offriva una via di santità i cui effetti erano visibili allo sguardo, misurabili. In cui tra l’altro si poteva maggiormente ingannare con degli artifici. Questa santità fisica, diciamo così, offriva grande autorità sociale. Ciò permetteva contemporaneamente di sottrarsi al dominio maschile dei padri, fratelli, preti e così via. Come le sante, anche le simulatrici ci guadagnavano in libertà. Non a caso chi le aiutava nei loro artifici erano, a volte, le madri e comunque donne di famiglia. Ci guadagnavano anche in benefici sociali derivanti dall’essere al centro dell’attenzione degli abitanti dei luoghi vicini – benefici anche economici di cui usufruivano le persone di famiglia e gli artigiani, un po’ tutta la piccola economia che si veniva a creare attorno a loro.

Fu poi la Riforma a ridurre ogni aspetto del meraviglioso – fino a quel momento mescolato alla materialità dei fatti – allo statuto di vero e proprio miracolo, separato dalla vita quotidiana, e ad impostare uno stile di santità modellato sul comportamento morale. Sull’etica. In questo nuovo quadro i rappresentanti della scienza medica si assunsero il compito di controllare i corpi delle donne, i loro digiuni, i loro inganni, sottraendo autorità ai preti, ai giudici e ai teologi che si muovevano nell’ambito dello spirituale. E proprio per questo venne introdotto a questo proposito il termine “malattia” per definire un ambito prima considerato religioso e che da questo momento in poi viene riportato alla sfera umana e naturalizzato.

Di questa svolta noi portiamo ancor oggi le conseguenze. Consapevole di questo, Waltraud Pulz sia nell’introduzione sia nelle ultime pagine del libro prende le distanze dal sovrapporre il nome “anoressia nervosa” a quello di “astinenza religiosa dal cibo”. Sarebbe adoperare un termine della scienza medica per spiegare una esperienza dell’ambito religioso, oscurando in questo modo il lato spirituale presente in questa seconda esperienza e il valore sorgivo di una differenza femminile alla ricerca di forme proprie di esistenza, in sottrazione a quelle dominanti maschili. Sante e simulatrici, che fanno dell’astinenza dal cibo una forma di modellamento della loro soggettività per aprirla al desiderio di infinito, nonostante la diversa capacità ed eccellenza che esse incarnano, vanno in questo senso considerate assieme. Si tratta di vissuti simbolici della storia delle donne intrecciati con l’esperienza del sacro, che non possono essere ridotti ad una spiegazione medica.

A me lettrice rimane una domanda. La santità era allora un segno di eccellenza. Quali sono oggi i modelli corrispondenti proposti alle donne e quale qualità massima immaginata, sognata, inventata le donne cercano per sé in forma autonoma? A me sembra che l’eccellenza – là dove ci sia creatività femminile –  si abbia dove è preservato il rapporto tra corpo e qualità esistenziale, tra materia ed infinito. Come le donne del ‘500 descritte da Pulz. In modo diverso da allora.