diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Note a margine

Presentazione e riflessioni sul libro “La Scrittura del Deserto” di Wanda Tommasi

Circolo della Rosa di Verona 28 febbraio 2005

 

Il libro La Scrittura del Deserto di Wanda Tommasi é un itinerario non lineare (e dico questo come pregio) che intende percorrere prospettive diverse da cui guardare il deserto, i mondi melanconici femminili nel loro rapporto con la scrittura, attraverso l’interrogare le opere di alcune scrittrici, nell’intreccio, ma anche nella trascendenza, rispetto alle loro biografie.

C’è qualcosa che contrassegna l’esperienza malinconica che viene continuamente ripreso, nelle diverse prospettive, per la centralità che occupa rispetto alla creatività: si tratta del nucleo paradossale della malinconia, dal quale può scaturire il miracolo della scrittura del deserto. La paradossia insita nella esperienza malinconica è data dal fatto che essa contiene in sé lo spazio di un crinale fra l’alienazione fredda della devitalizzazione e il contatto con il calore del dolore e del lutto necessario per farsi prendere dalla vita (il lutto rispetto alla perfezione, all’onnipotenza, alla assolutezza, alla comunione perfetta, all’unisono totale con il mondo e con l’altro). La malinconia può essere così il luogo psichico del fissarsi nella disperazione, nella mortificazione, nella desertificazione, nella sospensione del tempo, nella adesività alla perdita, adesività mortifera come quella della falena alla luce: un luogo non vuoto ma saturo di vuoto, e, in questo senso, non disponibile. Paradossalmente questo stesso luogo può essere lo spazio che, facendosi davvero vuoto, può ospitare l’aurora  di una traversia nella quale assolutezza e finitezza non si tengono più in scacco reciproco, ma cercano di articolarsi in un movimento, in un riorientamento, nell’apparire di una direzione.

E’ collocata in questo spazio paradossale la possibilità della scrittura del deserto come separazione e trascendenza rispetto all’adesività mortifera della malinconia. Il lavoro stesso della scrittura è in sé lavoro di separazione e di trascendenza perché il registro della lingua, ed in modo particolare della lingua scritta, dice il vissuto, ma, per dirlo, deve accettare di non coincidervi totalmente; la scrittura si dà attraverso l’accettazione della mediazione del linguaggio che implica la rinuncia all’immediatezza assoluta del vissuto ed una entrata nel tempo. Il lavoro della lingua, in quanto sistema di separazione e di non coincidenza con la cosa, diventa così, nella scrittura del deserto, lavoro di possibilità di cura, oltre che di testimonianza, attraverso lo splendore della titubanza della parola, del silenzio e dell’afasia. Inoltre la scrittura richiede, implica una solitudine essenziale all’atto stesso dello scrivere: accettando la separatezza, la scrittura da accesso al mondo della partizione e della differenza (all’interno di sé e rispetto al fuori).

Nella malinconia e nella creatività femminile legata alla malinconia è centrale il rapporto con la madre, con il materno, e con l’altra (interna ed esterna), rapporto gravido di problematicità rispetto all’identità e alla differenza ed alla complessità del sé femminile.

Nel percorso del libro di Wanda Tommasi si incontrano donne che con la loro scrittura (e la loro biografia) testimoniano, insieme ai loro personaggi , le diverse declinazioni del paradosso del mondo melanconico femminile in rapporto alla madre e all’altra, fino all’individuazione, nel pensiero filosofico di Maria Zambrano, di un possibile affrancamento dal vincolo melanconico alla perdita, attraverso la dimensione ponte della speranza. Per tutte queste donne comunque la scrittura costituisce un ponte sul loro stesso deserto.

Un equivalente della scrittura del deserto é, nel mondo interno melanconico, il sogno: nel sogno infatti il soggetto oltrepassa sé stesso attraverso la possibilità di gettare un ponte verso l’impensabile, verso l’indicibile. Rifletterò dunque sui passaggi per me più significativi del libro accostandovi dei sogni fatti da alcune delle donne con cui lavoro in analisi.

La prima prospettiva sul mondo malinconico femminile che il libro esplora è quella offerta dalla biografia e dall’opera di Sylvia Plath. Nel mondo di Sylvia Plath la malinconia tenta di sgretolare la costruzione di un falso sé, fatto a immagine e somiglianza della domanda materna, in un rapporto di specularità per il quale Sylvia diventa conforme alla pretesa materna di avere nella figlia il puntello per la propria fragilità: “lei si preoccupa talmente, che noi possiamo crearle solo un’illusione di sicurezza – la sicurezza in noi stessi” scrive Sylvia in una lettera al fratello. La costruzione del falso sé implica dunque nella figlia una sorta di responsabilità del mondo interno della madre, alla quale si vincola attraverso il fantasma (e/o dell’esperienza) del crollo della relazione. L’evitamento del crollo della relazione é realizzato attraverso la costruzione del falso sé che va di pari passo con il proprio svuotamento conseguito attraverso l’indifferenza e la denegazione dei propri contenuti emotivi. Il crollo depressivo diventa così per Sylvia Plath e per Esther, la protagonista del suo romanzo La Campana di Vetro, l’unico accesso possibile allo sgretolamento di questo falso sé, l’unica forma di insubordinazione possibile a questa conformità alla posizione speculare alla domanda materna di perfezione. Una simile relazione con la madre nel contempo implica un sequestro dentro di sé della dimensione del male, del negativo materno, che si confonde con il proprio. Il male materno é sequestrato come in una enclave all’interno della figlia e lì si confonde con quello della figlia, con quello che la figlia ha bisogno di incontrare. Di nuovo ritroviamo l’elemento paradossale della depressione nel contempo prossimità massima e massima distanza dal proprio nucleo autentico. La scrittura di Sylvia Plath cerca in un certo senso di testimoniare i fenomeni di questa perversione del materno che spesso incontro nel lavoro di analisi con donne la cui depressione é il precipitato di qualcosa che ha una dimensione trigenerazionale. Sono donne che hanno madri poco materne perché bisognose di madre, le figlie assumono la funzione di madre nei confronti delle proprie madri: gravide del male materno queste figlie si sentono custodi dell’equilibrio interiore della propria madre, illudendosi di mantenerlo attraverso la messa in comune del proprio falso sé.

Il sogno di A. inaugura il lavoro di analisi che con lei si snoderà in questo territorio di decostruzione del falso sé e di emersione della sua verità soggettiva attraverso il dolore: “una donna si guardava allo specchio, era una geisha il cui trucco bianco perfetto, con la perfezione della imperturbabilità di una statua, aveva dei buchi, delle chiazze, da cui, attraverso il disfarsi del trucco, si vedeva il viso sotto, brandelli, frammenti di volto sofferente”.

Lo sgretolamento del falso sé può gettare in un crollo, nel quale può essere incontrato il deserto, il terrore che non ci sia proprio niente se non quella impalcatura inautentica. In un altro sogno, di un’altra donna, compare la tragedia del vuoto: “sentivo male alla spalla, alla schiena, lo dicevo a mio padre che diceva ‘sì c’é un grosso problema, vieni allo specchio che ti faccio vedere’; mi guardavo e vedevo attraverso una sorta di crepa l’immagine di una intelaiatura interna di ferro che teneva su un involucro esterno, come una bella statua di gesso tenuta insieme da questa anima metallica e che ha dentro il vuoto: dentro si intravedeva il vuoto”.

L’esplorazione della figura e dell’opera di Marina Cvetaeva coglie un’altro tipo di posizione bloccata nel paradosso malinconico rispetto al rapporto percepito come antitetico fra appartenenza al mondo comune e appartenenza al mondo interno. In questo caso si tratta di una posizione volutamente ed in un certo senso anche ‘felicemente’ bloccata. Marina Cvetaeva diventa figura della scelta, difesa e proclamata con forza, dell’impossibilità dell’intrecciarsi della vita quotidiana e del sogno, dell’ideale, della vita vera. Si può stare solo al di qua, nel quotidiano, ma sradicate, prive di slancio vitale; o si può stare al di là, nel sogno, nel non realizzato, ma sradicate dal quotidiano. Marina Cvetaeva diventa così la testimone di una sorta di guardiana di una soglia che si vuole impenetrabile fra “materialità non trasfigurata”(il quotidiano) e “il paese dell’anima” del quale il mondo dell’assenza è la “stanza”.

Marina Cvetaeva difende la non realizzazione dell’incontro d’amore come tutela della perfezione della declinazione amorosa dell’animo. Ha verità, forza, vita, solo ciò che manca di realizzazione. Qui non c’è una costruzione, un falso, ma ugualmente si tratta di mondi separati che devono essere tenuti separati, per salvaguardare il sogno, escludendone ogni intreccio ogni relazione con il reale. E’ una situazione che può essere ben espressa da questo sogno: “c’era uno strano veicolo con il quale io e lei ci addentravamo al centro della terra che appariva grigia plumbea, arrivando vicine a questo centro scoprivamo tutti i colori possibili meravigliosi. Io pensavo che dovevano essere custoditi lì perché arrivando in superficie a contatto con l’aria sarebbero tutti sbiaditi e avrebbero perso il loro splendore…..”

Nel secondo itinerario del libro, quello delle figure di accesso al dolore, a mio avviso il più bello, si incontrano le figure femminili di Marguerite Duras e di Ingeborg Bachman. La potenza della scrittura di queste autrici offre dei veri e propri personaggi-evento, figure del femminile in ognuna delle quali é come fissata una dimensione dell’essere femminile malinconico, figure contrassegno delle diverse modalità della perdita di una interezza a due e della ferita del passaggio da quella interezza alla dimensione plurale dei tre e dei molti, passaggio spesso bloccato, inceppato, cercato e nello stesso tempo rifuggito in una ripetizione che può continuamente riproporre aperture e chiusure. Ecco apparire dal deserto melanconico di Marguerite Duras le figure-testimoni di Ann Desbarades (Moderato cantabile), Lol V.Stein (Il rapimento di Lol V.Stein) e Ann Marie Stretter (Il Viceconsole). Ognuna di loro offre, in una sorta di purezza, in una dimensione che trascende la psicologia, il proprio rapporto con la ferita e con il dolore.

Per Ann Desbarades la ferita che non si é trasformata in una memoria, diventa il movente di una relazione a calco, in una reduplicazione di una relazione in cui l’amore é consegnato alla morte, ostaggio della morte.

Lol V.Stein è vista come figura esemplare della distanza fra la parola che esprime un “vuoto di carne” e il vissuto interno di una perdita non elaborata, che, in quanto tale, si presenta come mancanza, vuoto, assenza, lacuna interna: le parole, che stanno al bordo fra l’interno e l’esterno, esprimono questo interno lacunoso, balbettando, sospendendosi o rendendosi indifferenti, sterili, prive di vita.

Ann Marie Stretter testimonia di un femminile preso da “un dolore troppo antico per essere pianto”, esemplarità  di una forma cava che ospita il dolore di tutti talmente indiscernibile dal proprio che ne soccombe. Rispetto al paradosso malinconico Ann Marie Stretter rappresenta la suicida, colei che incarna la tristezza votata all’autodistruzione.

A rappresentare l’altro crinale del paradosso depressivo ecco comparire due figure salvifiche che incarnano, laddove meno ce lo si aspetta, la rottura dello schema malinconico proprio attraverso la loro paradossalità in quanto figure di “gaia disperazione: si tratta della figura della Mendicante in Marguerite Duras e della figura della Folle alla stazione del Cairo in Ingeborg Bachman. Si tratta di figure femminili che suscitando orrore, l’orrore del nulla, disorganizzano in coloro che le incontrano, il senso già dato e diventano figure di rivelazione, figure di rovesciamento di senso attraverso l’epifania di un nuovo senso.

La Mendicante è figura di un essere femminile che non ha più nulla da perdere perché ha già perso tutto e, in questo azzeramento, diventa la figura esemplare dell’accesso alla “gaia disperazione” come condizione esistenziale. La Mendicante ride di un riso che si potrebbe definire metafisico, un riso che “ride(ndo) di tutto ciò che è infelice”, avendo raggiunto “un peggio non peggiorabile” – direbbe S. Beckett – accede alla gaiezza della pura vita, alla gaia disperazione dell’essere mortali.

La Folle della stazione del Cairo é un’altra figura di epifania, una figura che cura: ciò che appare in superficie come umiliazione si rivela in un rovesciamento di senso, un accesso al contatto, alla relazione rispetto al deserto ghiacciato delle procedure sociali.

Entrambe le figure non hanno un nome proprio: ciò a mio avviso sta a dire che appartengono ad un registro estraneo all’identificazione, al terreno dell’identità egoica, e, come tali, possono incarnare l’impersonale necessario alla decostruzione di una identità imprigionante, l’epifania che, attraverso il rovesciamento di senso, inaugura un contatto. Sono figure di offerta sul senso di ciò che può riservare, in termini di speranza, ciò che appare come deserto desolato e orrorifico.

Anche nei sogni l’apertura può apparire laddove meno ce la si aspetta, suscitando dapprima una reazione di ripulsa, di disgusto, di distanza, un rinnegamento: “in sogno vedevo un enorme ghiacciaio, non compatibile con alcuna forma di vita. Accoccolato a circondare il ghiacciaio, grande quanto lui, un enorme serpente. Abbassando lo sguardo vedo ai piedi del ghiacciaio due scarafaggi di quelli dello sterco che spingono, rotolandola, la loro pallina di sterco……” E’ un’immagine che configura ciò che Ingeborg Bachman definisce come “l’alleluia della sopravvivenza nel nulla”.

Tutte queste figure del dolore della mancanza e dello scaturire della vita dal deserto diventano lo spunto, nelle scrittrici che le creano e nella lettura di Wanda Tommasi, per parlare della scrittura femminile del deserto, scrittura che ruota intorno ad una lacuna originaria, costeggia un’esperienza di cui non è possibile dire e riscatta il desiderio di dirla nella consapevolezza di non esaurire tale desiderio in una realizzazione. Si tratta di una scrittura nella quale il vuoto non è mai saturato, ciò che fa dire a Marguerite Duras che nella scrittura femminile “è racchiuso anche il silenzio”.

In un sogno una donna colloca l’azione e il movimento tutt’intorno al bordo di una piscina: “c’era una piscina molto bella, con mosaici; tutt’intorno c’è come un bordo leggermente cavo in cui scorre l’acqua; io sto camminando sull’acqua di questo bordo. E’ al bordo della piscina che l’acqua scorre, nel sogno è irrilevante se la piscina è piena o vuota: ciò che conta è il bordo, giocare al bordo, e posso percorrerlo come in una danza”.

La scrittura è questa soglia, è questo bordo e per ciò stesso può condurre, come sostiene Marguerite Duras, dalla disperazione al dolore in un possibile itinerario di salvezza.

La scrittura, la parola, hanno funzione dunque di soglia, ma anche di ponte come la dimensione della speranza nella “filosofia medicinale” di Maria Zambrano.

Per Maria Zambrano la speranza non è trasformazione del negativo in positivo, bensì una posizione senza oggetto: “speranza che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza”. La speranza per Maria Zambrano nasce insieme all’accettazione della realtà fatta anche di dolore, di mancanza, di malattia, di esilio. La speranza è “un ponte che lascia vedere”. C’è un’allusione alla passività dello sguardo. E’ un elogio di uno sguardo passivo che lascia vedere, in luogo dello sguardo controllante che opera, o con lo sguardo nero o con lo sguardo zenithale, un controllo sulle paradossie dell’umano.

In un sogno di guarigione una donna sogna: “ con un’altra, un’amica, attraversavo un deserto. Dappertutto c’erano animali morti o agonizzanti, avevano le teste erette e inclinate all’indietro presentando la gola. Lo attraversavamo tutto arrivando in un altro luogo, diverso, pieno di gente. Lì ero piena di quelle immagini di morte del deserto che avevo attraversato. Ma poi, non so come, mi sono fatta prendere dalla vita”.

Solo guardando la morte in faccia può capitare di riscattare la passività e farsi prendere dalla vita.