diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Il Punto di Leva

Pratiche politiche, conflitti e creatività nei centri interculturali delle donne in Italia

Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere (Calvino 1972:155).

 

Quest’articolo nasce dalle relazioni con alcune donne incontrate alla Casa di Ramia di Verona durante i quattro mesi (aprile-luglio 2008) in cui questo centro interculturale è stato al cuore della mia prima esperienza di ricerca su campo in quanto apprendista antropologa. Soggetto della ricerca sono le pratiche politiche e le forme di mediazione che donne native e migranti elaborano e sperimentano insieme per fondare una cultura delle differenze e gestire, o schivare, il conflitto sociale innescato dalle retoriche dell’insicurezza, del ‘clandestino’ e dello scontro tra culture.

Casa di Ramia (una fibra vegetale tessile) può essere considerata l’esempio veronese di un processo esteso a tutta l’Italia, al Centro-Nord soprattutto, dove negli ultimi quindici anni donne dalle molteplici appartenenze hanno avviato diverse forme di collaborazione ed azione politica: l’apertura dei centri interculturali, spazi pubblici progettati da gruppi di donne e sostenuti finanziariamente dalle istituzioni regionali o comunali, ne costituisce l’esito più dirompente. Le modalità dell’incontro tra migranti e locali, i  centri d’interesse e le attività delle associazioni sono state modellate caso per caso, secondo le esigenze singolari del territorio, dalla tipologia di immigrazione femminile, dalla tradizione femminista, e più in generale culturale, dal clima politico istituzionale di alcune città[1].

La scelta di ritagliare il mio campo d’indagine a Verona trae origine dall’assenza, almeno a mia conoscenza, di legami politici tra native e migranti nella mia città d’origine, Palermo, dove è molto attiva una rete antirazzista che coinvolge uomini migranti, e dal desiderio di  fare  esperienza invece della specifiche modalità della politica delle donne. Quest’ultima possibilità mi si è fatta presente per merito di  Valeria Andò che, amica di Diotima, mi ha messo in contatto con Giannina Longobardi, portavoce su Via Dogana dell’apertura di Casa di Ramia. Oltre che per quest’opportunità, ci tengo ad esprimere il mio debito verso Diotima, nel cui alveo ho maturato insieme ad altre[2] il coraggio del mio agire politico.

Elaborare un progetto di ricerca non è stato semplice a causa del mio essere alla prima esperienza, ma anche del genere di attenzione che il mondo universitario dedica all’immigrazione femminile e della tipologia del materiale disponibile sull’argomento. Infatti, da una parte abbondano gli studi sulle condizioni di vita e di lavoro delle migranti in quanto prostitute, colf e badanti, fino a creare un filone di ricerca sull’immigrazione femminile fondato su un paradigma interpretativo strutturalista che spiega la mobilità femminile facendo coincidere percorsi migratori con i destini occupazionali[3]. Oppure, alcune sociologhe, contestando l’identificazione delle migranti in quanto vittime di forze strutturaliste che governano il sistema mondiale, hanno condotto delle inchieste sui percorsi e le reti transnazionali della mobilità femminile e messo in evidenza le ambizioni, le competenze delle migranti; a partire dalla centralità dei ruoli delle migranti all’interno delle loro famiglie, queste ricerche sono centrate sull’importanza della migrazione per la continuità sociale delle comunità d’origine e sulle complesse dinamiche di riconfigurazione dei gruppi familiari e dei rapporti di genere su scala globale (Decimo 2005). Se questi studi hanno contribuito a screditare certi stereotipi sulla migrazione femminile, pochissima attenzione è stata indirizzata alle migranti in quanto soggetti politici[4] e l’associazionismo dei migranti è stato preso in considerazione come un fenomeno neutro oppure maschile[5]. A partire dalla presa in conto della complessità delle condizioni materiali e delle reti relazionali in cui ciascuna è integrata, la mia ricerca volge lo sguardo alle relazioni politiche tra donne native e migranti, non  riducibili al rapporto patronnes-travailleuses, alle trasformazioni delle pratiche politiche e ai conflitti da esse fioriti. Innanzitutto mi sono dovuta quindi confrontare  con la singolarità delle fonti di informazione e la loro scarsa/difficile reperibilità. Si tratta nella maggior parte dei casi di documenti a carattere informale, testi dattilografati e/o disponibili solo presso i centri interculturali, anche se negli ultimi anni, grazie alla creazione di siti internet[6], questi luoghi godono di un’accresciuta possibilità di circolazione del sapere elaborato. D’altra parte, il carattere informale di trascrizioni di dibattiti, atti di convegni, risultati di laboratori e bilanci sui progetti,[7] rappresenta una grande ricchezza perché offre la possibilità di cogliere le difficoltà, le contraddizioni, i desideri, i processi di elaborazione e i momenti di valutazione delle attività: la vita di questi centri in fieri e da un punto di vista interno.

A partire dal materiale reperito mi sembra si possano individuare dei nodi e delle consapevolezze, da cui, nei centri interculturali, donne dalle diverse appartenenze, hanno iniziato ad interrogarsi sulle pratiche da elaborare. Un guadagno fondante è considerata la possibilità di nominare la forma delle relazioni politiche tra native e migranti in termini di asimmetria di posizioni nella cittadinanza e di condizioni materiali. In generale, infatti, dalle autorappresentazioni delle frequentatrici dei centri emerge che se le italiane sono di mezza età, hanno lavori, redditi stabili e godono di una approfondita conoscenza del contesto, le migranti più giovani sono lavoratrici precarie, senza diritti di cittadinanza riconosciuti, discriminate, e considerano l’associazionismo  soprattutto una possibilità per trovare occupazione e migliorare le loro condizioni di vita. Il dibattito sulla progettualità dei centri risulta basato su una riflessione sui rapporti interconnessi di dominazione sessisti e razzisti, in cui le migranti denunciano la loro subalternità ed estrema vulnerabilità nel contesto italiano, mentre le italiane cercano di destrutturare il ‘maternalismo’ loro attribuito e di allontanarsi dalla logica ‘bianca’ – nel senso di colonizzatore –  del ‘loro’ femminismo. Sono state dunque elaborate strategie di ‘ribaltamento’, pratiche che consentissero alle migranti la produzione di reddito, la realizzazione di percorsi professionalizzanti, l’avvio di cooperative, nello spirito di un’idea rinnovata di lavoro conciliante il bisogno, il sapere e il desiderio.

La condizione di asimmetria tra migranti e native è ritenuta costituire una fonte di conflittualità molto complessa da gestire, cui è attribuita tuttavia una grande fecondità, come sostiene Maria Teresa Battaglino, secondo la quale i luoghi interculturali sono innanzitutto luoghi per la sperimentazione di azioni positive sui conflitti[8]. Partire dall’idea di conflitto mi è allora sembrato prezioso per mettere in evidenza più che la fissità dei posizionamenti i processi di costruzione dell’alterità, di negoziazione delle soggettività politiche in gioco; come scrive l’antropologa palestinese-americana Lila Abu Lughod nella sua teorizzazione di un’etnografia del particolare, by focusing closely on particolar individuals and their changing relationships, risulta evidente come individuals are confronted with choices; they struggle with others, make conflicting statements, argue about points of view on the same events, undergo ups and downs in various relationships and changes in their circumstances and desirs, face new pressures and fail to predict what will happen to them or to those around them (Abu Lughod 1993: 14). Dal materiale che ho raccolto durante i quattro mesi di ricerca su campo – un lungo quaderno di appunti, registrazioni di interviste, conversazioni, incontri, volantini, ricordi – ho quindi selezionato tutti quegli episodi in cui mi sembrava emergessero forme svariate di conflittualità all’interno di Casa di Ramia: l’esperienza ha messo in luce come le pratiche politiche vadano avanti a forza di ripensamenti, momenti di autenticità, ricerca di nuovi linguaggi e creatività. In che modo si sposta e fluisce l’asse della conflittualità a Casa di Ramia? Quali i punti di leva da sfruttare e gli scacchi da rielaborare?

La realtà della Casa presenta infatti in parte alcune delle costanti appena descritte comuni agli altri centri interculturali, ma anche delle specificità. Il centro, secondo le intenzioni iniziali, doveva essere un luogo per dare vita a relazioni tra migranti e native non strumentali, non mirate necessariamente alla risoluzione di problemi economici e legali o alla realizzazione di progetti professionali, ma il cui valore consistesse nello scambio di parola vissuta. Questa intenzione originaria ha spostato in qualche modo l’asse della conflittualità; se infatti solitamente le discussioni sulle relazioni all’interno dei centri interculturali si focalizzano sulle ineguaglianze e sulle esigenze di redistribuzione economica, l’esperienza a Casa di Ramia fa risaltare invece le dinamiche di riconoscimento tra le donne e l’importanza di prendere in conto le tensioni fra queste due diverse istanze. Nancy Fraser, che sostiene la necessità di risituare il culturale nella sua relazione con il sociale e di prendere in conto le tensioni tra redistribuzione economica e riconoscimento per sciogliere il nodo che lega identità e differenza (Fraser 1997), definisce il riconoscimento ‘multiculturale’. Vedremo che è proprio rispetto al contenuto del riconoscimento che le donne di Casa di Ramia provano ad operare degli spostamenti simbolici importanti per sottrarsi all’ideologia del multiculturalismo, dell’esistenza di molte culture che staticamente si affiancano.

Accennerò soltanto ad alcune delle pratiche cui ho avuto la possibilità di partecipare, cercando di metterne in luce il guadagno di cui ho io stessa approfittato.

 

 

Ma già il termine ‘alterità’ è una dichiarazione di pigrizia filosofica o almeno di scacco di chi rinuncia a tentare di ‘comprendere’ il mondo altrui  (Maher 2007:xxx).

 

 

Una delle esperienze più intense che ho condiviso a Casa di Ramia sono state delle mattine trascorse con una dozzina di altre donne tutte originarie dell’area mediterranea (dall’Italia fino alla Palestina) di svariate condizioni socio-economiche: erano presenti una danzatrice, delle attrici, delle casalinghe, delle studentesse, una narratrice, un’assistente sociale, e tre mediatrici culturali. L’occasione ci è stata data da un progetto europeo, Reconcart, Reconciliation through Art: Perceptions of Hijab che, come si legge nella presentazione, si proponeva di esaminare come l’hijab è percepito dalle donne, musulmane e non, attraverso una molteplicità di forme artistiche  per offrire alle donne, velate o no, la possibilità, ciascuna a partire dalle proprie esperienze, di presentare il proprio punto di vista e le modalità di riconciliazione con l’altra (in inglese ‘with the other’)[9]. Anche se Rosanna, l’attrice responsabile del gruppo ci aveva comunicato che il fine degli incontri previsti era la raccolta di materiale (storie di vita, canti, favole, musiche) per la realizzazione di uno spettacolo teatrale, non mi è sembrato che nessuna di noi tenesse particolarmente a mente il motivo delle riunioni, tanto è stato il gusto che subito abbiamo preso a raccontarci a partire dal primo incontro in cui la mediatrice culturale italiana ci ha domandato di narrare le nostre prime percezioni del religioso, quelle della nostra infanzia. Da lì abbiamo iniziato a scivolare insieme nelle memorie senza porci il problema di che senso avesse questo sprofondare e dissotterrare: il guadagno era lì presente a tutte.

Questa pratica, quella di incontrarsi e dare parola e sensi nuovi alla propria esperienza tra donne, non è una pratica nuova al femminismo italiano, ma è risultata innovata grazie al di più della mediazione culturale. Si potrebbe dire che prende il relais dalla pratica dell’autocoscienza, per come questa è raccontata da chi l’ha vissuta,  nel senso che parte da uno dei suoi risultati più importanti, cioè l’acquisizione della consapevolezza delle differenze tra le donne e dell’insufficienza di un rispecchiamento omogeneizzante.

Capitava, quindi, che se di racconto in racconto non mancavano le eco e a volte appariva di sfuggita la possibilità di rivedersi l’una nell’altra, la sensazione era soffiata via dalla descrizione di un paesaggio straniero, di un rito mai festeggiato, di una parola incomprensibile e spesso intraducibile. Preziosa è stata allora la presenza di Jamila, Najat e Susanna, le mediatrici culturali, immerse come le altre nel gioco della memoria, ma mettendo a disposizione di tutte noi le acquisizioni della loro esperienza professionale. Consapevoli dell’esistenza di una differenza ‘culturale’ tra le presenti, era necessario andare oltre: come parlare di queste ‘culture’? Le coordinatrici, ci hanno suggerito, con le domande che ponevano all’inizio di ogni incontro[10], di annacquare questa parola astratta per cogliere in trasparenza invece le genealogie in cui ci iscriviamo, i legami affettivi che hanno influenzato e ispirato le scelte di vita e le appartenenze. Difficilmente si saprebbe parlare della propria cultura, ma tutte conosciamo la nostra storia. I racconti ci hanno stupite, commosse, divertite, incuriosite; esporsi non è stato naturale né sempre indolore, la parola non è stata sempre fluida e rileggendo le trascrizioni degli incontri talvolta si coglie come i discorsi andavano avanti per svelamenti progressivi, abbandoni di timidezze e non sono mancati neppure l’ansia di soddisfare le richieste dell’altra o i condizionamenti dovuti alle norme sociali di riconoscimento attive tra le presenti.

Una delle considerazioni che, volendo schematizzare, si possono fare è che dall’ascolto delle nostre storie sono emerse due traiettorie, l’una propria alla italiane, l’altra alle musulmane. Le donne italiane, tutte ad eccetto di una, hanno vissuto un allontanamento forte e conflittuale – uno strappo – verso la fine dell’adolescenza dalle forme rituali della religione cattolica cui erano state educate, in coincidenza spesso con uno spostamento dai luoghi d’origine (in diversi casi la provincia). Ricerche di spiritualità  alternative  hanno condotto alcune lontano dalla tradizione cattolica alla conversione ad altre fedi (bahai, buddista), altre si professano atee, altre ancora sono ancora in cerca di una dimensione spirituale. In ogni caso condividere il proprio percorso ha messo in luce la difficoltà, a volte anche la rabbia, che si prova quando si tenta di fare i conti con l’educazione cattolica ricevuta, di metterne a fuoco i guadagni e le perdite;  in molte ci siamo lasciate stupire dall’inconsuetudine di parlare tra donne di religione, sentendo che finalmente una zona d’ombra si svelava e c’era uno spazio in cui mostrarla ad altre.

Dall’altra parte, nelle storie assai varie di donne musulmane ricorrevano certi elementi, come l’essere cresciute in famiglie non particolarmente praticanti, l’evento della migrazione e la nostalgia per l’inevitabile distacco dal contesto relazionale rispetto al quale la religione è considerata un ponte privilegiato. Le migranti musulmane in Italia hanno dunque avviato delle ricerche di fede rinnovata all’interno dei precetti della tradizione islamica, animate dal desiderio, non senza contraddizioni, dubbi o incoerenze, di una maggiore religiosità secondo l’ortodossia.

Il valore di riconciliazione annunciato dal progetto ha subito quindi una sorta di piccola rivoluzione. Se infatti nella presentazione si leggeva che il progetto era da considerare come una possibilità di riconciliazione con l’altra, a partire dai dibattiti infuocati sull’hijab in Europa, si può dire che in realtà la partecipazione a Reconcart ha rappresentato soprattutto un’occasione per avviare una (ri)conciliazione, non con l’altra, ma ciascuna con se stessa e il suo proprio vissuto, uno spazio dove mostrare all’altra i propri conflitti e desideri a volte contrastanti. Per esempio una donna musulmana, Soussen, in Italia da più di 15 anni e che non aveva ereditato lungo la sua genealogia una forma di religiosità ortodossa, durante una discussione sul velo islamico svoltasi in presenza di donne italiane e musulmane non velate ha manifestato apertamente e con convinzione le sue paure e la sua disapprovazione rispetto alla possibilità di indossare il velo, che considerava come una forma di chiusura rispetto al mondo. Eppure la stessa donna in occasione di un altro incontro, rivolgendosi ad una donna musulmana velata ha espresso con tutta sincerità il desiderio di indossare il velo in quanto simbolo di una spiritualità purificata, e la speranza di riuscire un giorno a essere convinta di questa scelta. Questi tentativi di rendere conto di sé all’altra – e in questo caso direi di rendersi simile all’altra e quindi riconoscibile – svelano le modalità stesse di negoziazione della propria riconoscibilità (Butler 2007). L’esposizione di sé si rivela in parte un atto performativo che, secondo l’interlocutrice, legittima l’espressione di desideri e preoccupazioni diversi, talvolta contradditori e incoerenti, mettendo in luce anche le norme e le pressioni esterne in cui il soggetto narrante stesso è preso.

La ricerca di una religiosità di un islam ‘ortodosso’ che dovrebbe culminare con la scelta di indossare il velo, è d’altronde una traiettoria molto diffusa tra le musulmane immigrate in Italia, come rivela anche un’inchiesta condotta Giovanna Campani: rappresenterebbe, secondo i casi, una reazione a un ambiente sociale percepito come ostile e razzista, il desiderio di proporre e incarnare dei modelli di donna e di femminismo (Salih 2006) e dei percorsi di spiritualità altri rispetto a quelli italiani, l’iscrizione di un’appartenenza per rinsaldare le proprie radici.

Mi sembra inoltre che il conflitto vissuto e esposto da Soussen possa essere considerato un sintomo della situazione sociale attuale; nello scontro tra culture così proclamato, tra un Occidente che continua a racialiser e marginalizzare le musulmane e un Islam che tende a servirsi del corpo delle donne per condurre una campagna di difesa-attacco contro l’Occidente, ognuna è chiamata a prendere posizione.  Soussen e le donne di questo gruppo di parola hanno potuto tuttavia posizionarsi in modi obliqui – né da una parte né dall’altra – rispetto a questo conflitto ed esporre/esibire i termini di quest’ultimo è già a mio parere un modo per schivarlo e non esserne vittima o complice.

Il guadagno, credo importante, risiede allora nella possibilità che ad esempio questa donna ha avuto partecipando al progetto, di rilanciare la ‘sua’ questione, ‘quali sensi può avere indossare il velo in Italia?’, insieme a delle musulmane come lei migranti ma anche a delle italiane. Così uno degli effetti di questi incontri è stato che paradossalmente mentre ci si esponeva parlando delle proprie esperienze originarie e delle proprie appartenenze, ci si poteva allontanare da esse fino a sciogliersene per diventare altra, quella che si può divenire quando parti ombrate di te tralucono in presenza delle parole di altre donne.

Il senso del mio discorso non vuole essere quello di respingere il conflitto fuori dal pacifico cerchio di donne, ma vorrei mettere l’accento su come si dia per scontato che un certo genere di conflitto – tra noi e le altre, tra le donne che indossano il velo e quelle che non lo indossano, ad esempio – esista. D’altra parte, il fatto che non si sia parlato in termini oppositivi o dicotomici, non implica che si fosse sempre d’accordo, né che si potesse accogliere in ogni caso quanto veniva detto. Erano le modalità stesse in cui il tema era affrontato a non portare all’opposizione, ma alla curiosità e di conseguenza a giocare con gli immaginari, spesso veicoli di pregiudizi: proprio perché le differenze erano evidenti, semplice può risultare proiettare i nostri immaginari sull’altra. (Ad esempio io, attraverso le domande che mi sono state poste sul Sud Italia, mi sono resa conto che l’idea che in molte, italiane e migranti, hanno della Sicilia è quella di un luogo dove tutt’oggi le donne vanno a messa con il velo ricamato, oppure sanno di magia, e gli uomini sono possessivi e burberi). Spesso è capitato a qualche donna di dovere fare un lavoro molto delicato per non sentirsi schiacciata dall’immagine, a volte distorta, rimandata dalle altre e per riuscire a parlare invece a partire dalla propria esperienza.  Ma è stato anche il caso, su suggerimento di una delle mediatrici, di interrogare i nostri immaginari incrociati, ad esempio sul valore del velo indossato dalle suore cattoliche, così tanto presenti nei racconti d’infanzia delle italiane, per vedere da una parte in che modo le donne musulmane interpretassero questa figura e come dall’altra, nell’immaginario delle italiane, si confondessero inconsciamente i veli delle suore cattoliche e delle musulmane.

In ogni caso il tentativo era quello di smettere di tradurre semplicemente da una ‘cultura’ all’altra, nel desiderio di dare esistenza propria ad ogni vissuto e di mostrare le contraddizioni interne e i processi di soggettivizzazione di ognuna. Questo è stato garantito soprattutto dalla presenza delle mediatrici che assicurava tra l’altro la possibilità di mettere al centro parole e lingue diverse.

 

Che una chiave per una cultura delle differenze sia ancorarsi ai vissuti, raccontarsi attraverso parole piene di senso e secondo modalità non previste, l’ho sperimentato insieme ad altre anche nel  gruppo in cui la mediazione scelta era la poesia. Il presupposto, come mi ha detto Lisa, l’ideatrice di Poesiadalmondo, era quello di andare verso, oltrepassare una frontiera, toccarsi o soltanto suggerire  qualcosa di sé all’altra, quel poco possibile visto che le partecipanti sono originarie di continenti geograficamente lontani: al gruppo partecipano una mediatrice culturale brasiliana, una mediatrice culturale marocchina, un’attrice e una badante bulgare, una psicologa, una poetessa ed un’insegnante italiane, due professoresse tedesche, un giornalista-camionista serbo. L’idea era di parlarsi attraverso la poesia, ascoltare l’altra/o senza intervenire, in silenzio, cogliere la bellezza dell’incontro per creare un’intesa minima possibile in uno spazio di incomprensione (conversazione con Lisa). La necessità di rivolgersi al linguaggio poetico, attingendo al tesoro della lingua materna, nasce dall’esigenza di sfuggire alla povertà delle parole mediatizzate sul fenomeno ‘immigrazione’, aprendo varchi per parlare di sé, di migrazione, di viaggi, e per entrare relazioni con il mondo dell’altra, senza ricalcare i percorsi della retorica del multiculturalismo.

La ricchezza mi è stata immediatamente chiara quando mi è stata posta come condizione per partecipare agli incontri la condivisione di alcune mie vecchie ‘poesie’, di cui trascuravo assolutamente il valore: è stato come entrare in un cerchio magico.

Tuttavia, contrariamente a quanto si possa immaginare, la poesia non mette a riparo da malintesi, contese, istanze di riconoscimento e da linguaggio accogliente tutte le differenze si è presto trasformata in campo di battaglia; eppure, proprio su un conflitto all’interno del gruppo si è misurata l’ulteriore efficacia di questo linguaggio. E’ accaduto, infatti, che la parola poetica sia stata contestata quando una poesia è risultata nel contenuto e nella forma incompatibile rispetto alle norme della cultura musulmana di una partecipante; ciò ha generato un conflitto che ha contrapposto due ‘culture’, la bulgara, ‘occidentale’ e atea, e la musulmana profondamente ortodossa, entrambe in competizione per il riconoscimento della propria identità ‘etnico-culturale’ da parte delle altre del gruppo. Se in un primo momento il comportamento della donna bulgara è stato tacciato di mancanza di insensibilità e rispetto, una poetessa italiana, ha messo in luce un’altra prospettiva grazie alla quale è stato possibile risolvere quasi del tutto il conflitto. Si trattava infatti di prendere atto del fatto che se di solito le relazioni tra donne native e migranti sono marcate da un’asimmetria di cui è necessario cogliere le ragioni per elaborarla e superarla, nel caso del gruppo di poesia non si trattava di dare atto di un tale squilibrio: il gesto riparatore non poteva consistere nell’esclusivo riconoscimento della cultura della donna musulmana dando legittimità al suo mondo di valori,  ‘incompreso’ o ignorato da una maggioranza. Morena ha invece proposto di ‘spostare’ l’oggetto del riconoscimento. ‘Schierandosi’ dalla parte della donna bulgara, non ha sostenuto il riconoscimento della sua cultura bulgara, ma ha suggerito di abbandonare l’idea del riconoscimento dell’‘identità culturale’, dal momento che riconoscerne una implica spesso l’esclusione dell’altra. Pur nel rispetto di ognuna, Morena ha proposto di stabilire che la sfida di Poesiadalmondo fosse piuttosto quella di nominare vissuti esprimibili se non attraverso il linguaggio della poesia, nell’ottica di una sostanziale parità delle partecipanti, data dal dono che si fa di sé quando si legge ad altre una propria poesia. Il riconoscimento non consisteva più in un contenuto, ma nella qualità del gesto: il dono poetico, e nel valore della mediazione: la consapevolezza della molteplicità semantica del linguaggio.

Abbandonare la difesa della propria cultura, quella in cui l’ordine sociale ci iscrive, in favore della possibilità di negoziare le proprie parole e i valori di queste parole con l’altra è apparso un guadagno più importante. Questo spostamento simbolico ha innescato l’inizio di un percorso poetico: anche se la poesia risultata offensiva, causa del conflitto, non è entrata a far parte dello spettacolo finale del gruppo, altre poesie sono state scritte dalle donne coinvolte nel conflitto a proposito delle emozioni che esso aveva suscitato, suggellando la riconciliazione.

In ogni caso sostenere che la pratica di lettura e di scambio delle poesie si basi su una sostanziale parità di dono, non implica nascondere la consapevolezza della disparità di ruoli delle donne del gruppo. Come questo genere di conflitto svela, esiste un desiderio e una richiesta di riconoscimento indirizzato da alcune migranti ad alcune donne italiane: riflettere su quale ruolo quest’ultime in quanto native assumono, quale potere simbolico venga loro attribuito mi sembra importante, come anche nominare il conflitto tra migranti per cogliere le ragioni profonde del suo verificarsi.

Questo mi conduce a parlare del nodo in cui le dinamiche di riconoscimento si intrecciano con le esigenze della redistribuzione e il rapporto con l’‘economico’. La conflittualità tra le migranti è infatti connessa  spesso a forme di competizione e delusione che molte donne impegnate nella mediazione culturale sperimentano nello svolgere la propria professione; in particolare essa si verifica tra chi, conoscendo bene il contesto, riesce a valorizzare il proprio sapere ed ha accesso a  finanziamenti e chi non gode invece di tali ‘privilegi’. Questo mi sembra sfumare l’idea che il conflitto a livello socio-economico si giochi soltanto tra native e migranti.

A quattro anni dall’apertura del centro, la mia sensazione è che sia per tutte le donne di Casa di Ramia evidente che il politico e l’economico devono essere pensati insieme – nei loro legami e nelle loro possibilità di essere slegati – e che l’asimmetria socio-economica tra migranti e native può essere vissuta in modi creativi e tutti diversamente efficaci.  Rispetto alle intenzioni iniziali, cioè di evitare la circolazione del denaro all’interno del centro interculturale, e al contendere che ne è nato tra chi pensava ciò possibile e chi lo riteneva una strategia del tutto inefficace, si registrano dei ripensamenti, delle creazioni, delle svolte. Dice dei legami necessari tra soldi e politica, per esempio, il progetto di valorizzazione dei saperi manuali delle donne migranti e italiane, ideato da Elena Migliavacca e finanziato dal Comune, che si propone di promuovere l’artigianato a Casa di Ramia e nelle scuole di quartiere. E dice, invece, delle disconnessioni possibili, la pratica dell’eco-nomia del dono da parte di alcune italiane dell’associazione Ishtar, che hanno creato una rete di sostegno e presa in carico personale nei confronti di alcune migranti; il desiderio di uno scambio non monetario, di donare tempo e attenzione alle altre in quanto persone, che anima questa rete, permette di uscire dallo schema dell’individualismo in vista di una riformulazione del concetto di comunità, confini,  casa.

D’altronde, inoltre, dalla ricerca su campo, risulta evidente che la dicotomia tra migranti, spinte all’engagement associativo unicamente per ragioni economiche mentre le donne italiane sarebbero interessate allo scambio culturale, non illustra esaustivamente la situazione a Casa di Ramia. Le migranti che frequentano il centro non vivono tutte condizioni economiche difficili, ma anche coloro che devono fronteggiare problematiche di questo genere, sono spesso promotrici di attività che investono lo spazio della Casa di valori associativi, non meramente monetari, spesso sacri.

Il caso delle pratiche rituali illustra quest’ultimo caso. Si tratta di pratiche attraverso cui rinnovare lo spirito della comunità d’origine per rielaborare nel paese di arrivo un codice di appartenenza; se alcune pratiche si mantengono, altre sono reinterpretate, iscrivendosi tuttavia nell’immaginario della continuità, e sottoposte ad un lavoro di adattamento alla nuova realtà. L’episodio che adesso racconto mostra come anche le pratiche che possono essere considerate più strettamente veicolanti un’idea di cultura fissa e escludente su base etnica, implicante d’altra parte uno sguardo esterno e distaccato possano essere vissute invece come dei momenti di condivisione o almeno vi si aspirino. Questo mi sembra sia il caso di alcune delle attività svolte dalle associazioni monoetniche.

Per esempio, l’associazione delle donne nigeriane accorda molta importanza all’esperienza della maternità e uno dei riti più importanti è quello della nascita e dell’iniziazione del/la bambino.a. Se al paese di origine lo sciamano vede le ragioni della nascita e prevede il suo futuro, in Italia è possibile soltanto celebrare il fatto che la/il bambina.o sia portatrice di un messaggio alla famiglia e alla comunità.  Nell’ ‘invenzione’ della tradizione, le donne della NWA hanno inserito una festa di accoglienza del/la bambino.a quaranta giorni dopo il parto. La mediatrice culturale ritiene questo rito fondamentale perché le donne nigeriane abbiano fiducia nel contesto italiano al momento della mediazione con le istituzioni e con i servizi sociali (Atti del convegno 2007 p. 42-43) : il lavoro di mediazione e le pratiche rituali si rivelano parti indispensabili di uno stesso processo di soggetivizzazione politica e di cittadinanza delle migranti.

Casa di Ramia è uno spazio attraversato da una molteplicità di donne e risulta essenziale per garantire l’efficacia di ogni rito che il valore di tali pratiche sia riconosciuto non solo da coloro che sono direttamente coinvolte, ma anche dall’insieme di coloro che frequentano il centro nello stesso momento della celebrazione.

Quando sono arrivata a Verona, la mediatrice culturale della NWA mi ha spiegato che l’associazione viveva un momento di crisi. Tra altro, mi ha raccontato che mesi prima, in occasione della festa per la nascita di un bambino, era arrivato un gruppo numeroso di donne srilankesi con bambini e bambine  che immaginavano di potere occupare la sala per il consueto corso di danza. Il rito in corso era aperto a tutti, ma era strettamente necessario che tutte coloro che erano entrate nello spazio della festa partecipassero mangiando qualcosa. Ma le donne srilankesi hanno vietato ai figli di mangiare quanto era stato loro offerto. Rifiutando il cibo, hanno così reso inefficace la celebrazione della cerimonia: il bambino non era stato accolto secondo la tradizione, e in quanto portatore di un messaggio alla famiglia,  tale episodio è stato considerato un cattivo presagio: la madre del bambino non è più tornata a Casa di Ramia e in generale l’associazione ha perduto credibilità. Tale conflitto rivela quanto le frontiere invisibili possano assumere dei significati diversi, secondo i posizionamenti di ognuna. Attraversare la frontiera, la soglia della sala, per le nigeriane comportava l’atto di entrare in uno spazio sacro seguendo delle regole implicite, al di qua di questa frontiera, le donne srilankesi non avevano consapevolezza della sacralità della sala e neppure dell’importanza del loro comportamento e del riconoscimento ( o non riconoscimento) che in quel momento agivano.

Ma di quale riconoscimento si trattava? Era necessario che le srilankesi riconoscessero la Cultura nigeriana? In prima istanza bisogna dire che la NWA è un’associazione interetnica perché accoglie donne provenienti da tutte le etnie della Nigeria, secondo un modello diffuso di associazionismo delle donne africane che va al di là delle appartenenze precedenti la migrazione per rinegoziarne altre, più legate alla contingenza (Quiminal 2000). Un tale associazionismo sarebbe impossibile in Nigeria e infatti si tratta di una reale innovazione se anche nello stesso quartiere di Veronetta, dove si trova Casa di Ramia, i momenti comunitari dei Nigeriani e delle Nigeriane, rappresentati dalle quattro etnie (igbò, edu, yoriba ishan) prevede incontri ‘etnici’(Bertani 2006).

Fare parte della NWA significa dunque l’acquisizione di una nuova identità, in costruzione e debole e il rito stesso rappresenta una tale modificazione rispetto alla tradizione che il comportamento delle Srilankesi è sufficiente a metterle in dubbio. Proprio perché si tratta di un’appartenenza in ‘fondazione’, mi sembra che partecipare secondo le regole al rituale, riconoscendogli un valore non abbia in sé il senso dell’ideologia del rispetto della Cultura dell’altra. Infatti abitualmente tale retorica tende a creare o a rinforzare delle frontiere, mentre nell’episodio esposto in gioco era piuttosto una modalità di partecipazione. Credo che un desiderio simile allo stesso tempo di riconoscimento e di coinvolgimento dell’altra sia in opera ad esempio quando, in altri circostanze,  le srilankesi hanno invitato le donne di casa di Ramia alla festa dell’anno buddista o ancora quando alcune italiane festeggiano il Natale con delle amiche e famiglie migranti. Si tratta, mi sembra, di momenti i cui condividere i riti, da celebrare in presenza dell’altra, con l’altra: rappresenta un modo per confondere le frontiere, rendendole fragili e permeabili più che per affermarle. Se i riti sono spesso celebrati per confermare un’identità, al contrario non escludere le ‘straniere’ da questi riti, ma investirle di un ruolo importante di riconoscimento e offrire loro delle modalità di partecipazione rappresenta, secondo me, un importante spostamento simbolico.

Quanto si è verificato come conseguenza del non-riconoscimento da parte delle srilankesi lo dimostra; in effetti questo episodio di non-riconoscimento si è tradotto in un irrigidimento delle relazioni tra i gruppi monoetnici della Casa e in una richiesta di un rispetto più preciso e rigido degli orari e della divisione degli spazi del centro.

La domanda di frontiere rinforzate nasconde spesso allora la mancanza di spazi terzi di mediazione in cui esplicitare gli impliciti e i diversi punti di vista, e il desiderio di una gestione più condivisa degli spazi.

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

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[1]              Il primo centro interculturale, Alma Mater, è stato aperto a Torino nel 1993, nato dalla convergenza di interessi tra migranti e femministe torinesi per l’empowerment delle donne e la possibilità di creare nuove forme di economia e di lavoro marcate dalla differenza femminile. Sulla scia dell’Alma Mater sono nati Nosotras a Firenze nel 1998, che ha promosso molte campagne sul tema delle mutilazioni genitali femminili, e Trama di Terre a Imola nel 1997. Presso la casa Internazionale delle donne di Roma invece hanno sede alcune associazione di migranti (Candelaria e No.Di.) che collaborano saltuariamente con le associazioni di italiane in particolare sul tema dei diritti internazionali delle donne. Questi sono solo alcuni esempi; strutture di questo tipo, ma anche gruppi informali, esistono in gran numero sparsi sul territorio nazionale.

[2]              Durante gli anni dell’università ho partecipato ad un gruppo di donne, la Società delle Estranee, un gruppo di lettura e riflessione sulla differenza sessuale.

[3]              Uno dei libri più rappresentativi di questo filone è Ehrenreich B., Hochschild R. A. 2003. Per una focalizzazione sulla situazione in Italia, cfr. Andall 2000, Scrinzi 2003 .

[4]              Le uniche ricerche specifiche sull’associazionismo femminile di native e migranti in Italia sono state condotte da due ricercatrici americane Pojamnn 2006 e Merrill  2006, ed una inglese Andall 2007, che ha dedicato un intero numero della Feminist review al femminismo italiano.

[5]              Sull’associazionismo dei migranti in Italia, cfr Caponio 2005, Danese 1998.

[6]              www.tramaditerre.orgwww.nosotras.it; www.ishtarvr.org; www.crinali.org

[7]              Prendiamo la parola (2001), Atti di un campus su femminismi e intercultura; Il bagaglio invisibile; trascrizione del Seminario “Razzismo e sessismo nelle pratiche politiche e nelle relazioni economiche; strumenti di contrasto” tenutosi a Castelfiorentino (Fi) 2-4 giugno 2005 disponibile sul sito di Punto di partenza;    Report Shadow sulla situazione italiana a dieci anni dalla conferenza ONU sulle donne di Pechino, disponibile sul sito www.donne.toscana.it/htm/aree2/htm/shadow.pdf.

[8]              Atti del convegno Casa di Ramia: l’incontro con l’altra nella vita quotidiana, p. 13.

[9]              Si tratta di un progetto europeo in cui sono impegnati la Foundation Academy of Balkan Civilisation de Sophia (Bulgarie), il Centre for Developments  Studies di Atene e la Fondazione Aida a Verona. Le informazioni relative al progetto sono disponibili sul sito: www.reconcart.eu.

[10]            Alcune questioni poste sono state: Quali erano le forme della religiosità di vostra madre o vostra nonna, quali sono le differenze tra la loro e la vostra e, per quelle di noi che hanno figli, cosa trasmettono della pratica religiosa? A partire da una fotografia ci è stato chiesto di parlare del rapporto con nostro padre nell’infanzia, adolescenza, età matura. Ha avuto delle trasformazioni questo rapporto? Differenze nel rapporto del padre con altri fratelli, sorelle. Il padre pratica la religione? Che cosa ci ha trasmesso, in positivo o anche in negativo? O ancora, ci è stato chiesto di portare degli oggetti rappresentativi della nostra pratica religiosa e di raccontarne alle altre la storia.