diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo numero 16 - 2019

Fuorigioco

Parterre[1] sui Mondiali di calcio femminile

 

Pretesto

 

Il calcio mi è sempre piaciuto. L’ho praticato per anni e ora lo osservo solamente. Nel 2015, grazie a una intuizione di Maria Livia Alga, è nato “Fuorigioco”,[2]: “una rubrica di tattiche, movimenti e conflitti, che raccoglie interviste e racconti autobiografici di vissuti sportivi da un punto di vista non strettamente agonistico”. All’interno di “Fuorigioco” c’è un racconto dal titolo “Questione di centimetri”[3]: una narrazione filosofico-esperienziale di una passione calcistica. Il testo scaturisce da una intervista, la cui rielaborazione a quattro mani, interroga le genealogie calcistiche impreviste, la geografia della socialità in cui si inserisce il campo da calcio, e lo spogliatoio, inteso come luogo essenzialmente eterotopico.

“Fuorigioco” rappresenta un punto di partenza sempre fondante per nuovi inizi: una riflessione stimolante il cui intento è quello di invitare a leggere lo sport, le discipline sportive e le pratiche corporee avendo presente il contesto in cui si sviluppano e i vissuti di chi le pratica. Per farne pensiero. La rubrica è lo sfondo, il pretesto per riannodare fili che possono, di volta in volta, essere ripresi e intrecciati.

I punti su cui desidero sostare e rilanciare sono essenzialmente tre. Innanzitutto, fare una narrazione che si pone come autorevole rispetto a un dominante che ha il potere e l’arroganza di dirsi e ripetersi, e quando, raramente, cerca una interlocuzione lo fa spesso (auto)rappresentandosi allo specchio. In secondo luogo, vorrei dare voce alle protagoniste -le ragazze della Nazionale di calcio- alle loro storie, che non cercano raffronti con la visione maschile; infine, desidererei mostrare la forza eccedente, quella di queste giocatrici, che sta dentro un altro movimento. Tutto questo abbisogna di una narrazione dal linguaggio diverso. Di questi fili e di questo linguaggio cercherò di fare trama.

L’argomento su cui voglio riflettere sono i Mondiali di calcio femminile dell’estate 2019.[4] Il mio sarà, usando un’espressione di Antonietta Potente, “un racconto inquieto di una visione non (propriamente) chiara”.[5] Questa espressione molto bella allude, come suggerisce Potente, a una indicazione, a delle “note di metodo”,[6] a una metanalisi, piuttosto che rappresentarsi come il metodo per risolvere determinate questioni. È da questa prospettiva, cioè attraverso una narrazione “inquieta”, che riprendo i tre fili presentanti e descrivo i Mondiali di calcio femminile.

Mi sembra il modo di procedere più fedele all’esperienza[7]: per la sperimentazione, la discontinuità, l’inquietudine e la non chiarezza iniziale. Ma non solo. Ciò che mi propongo è anche di vedere come questo evento si disponga secondo una temporalità tutta da scoprire e necessiti di parole singolari che non siano già state pensate e dette dall’ordine dominante del discorso.[8]

 

Tempo

 

Prima di addentrarmi nel tema, mi soffermo sul tempo. Insieme alle tattiche, con cui si esprime il gioco corale, e le competenze delle singole giocatrici, del gioco del calcio mi interessa l’aspetto del tempo.

Alcune delle riflessioni che ho letto sullo sport, in generale, e sul calcio, nello specifico, tendono soprattutto a privilegiare nell’argomentazione il concetto di tempo.[9]

La dimensione temporale, nel gioco calcio,[10] per me si distingue tra il tempo programmato del pre-partita, che comprende la fase di preparazione, il tempo del pre-partita immediatamente antecedente l’inizio della competizione e il tempo dopo la partita.

Il tempo del prepartita è un tempo pianificato, organizzato, ritmato. Tempo della preparazione precampionato; tempo della preparazione settimanale, per intenderci. Un tempo di durata, che ha a che vedere con il calendario, con l’agenda. Il fine è già insito nei propositi, si tratta allora di farci i conti, di strutturarlo, di farne tabella. Con la speranza che i conti fatti in qualche modo quadrino.

Il ritmo in questo tempo è ciò che fa la differenza. Come afferma Peter Brook, “senza la preparazione, l’evento risulterebbe poco gratificante, confuso, privo di significato, ma la preparazione non ha il potere di imporre una forma. Questa emerge nel momento più caldo, nel momento stesso in cui l’atto (sportivo o teatrale) viene compiuto. Una volta accettato questo principio risulta facile capire che tutti i nostri pensieri devono avere come punto di partenza proprio quell’unico momento di vera creazione”.[11]

Questo tempo del pre-partita assomiglia per molti versi a quello che avviene durante un laboratorio teatrale.[12] Si tratta di un tempo preordinato e ordinato nel suo dispiegarsi processuale che presuppone solo in potenza una forma. Tra la preparazione prima della competizione, “che non ha il potere di imporre una forma” e la partita “l’evento che avviene in un preciso momento”,[13] c’è uno scarto che è quello tra la forma in potenza e l’atto puro.

Cosa avviene durante la preparazione sportiva o teatrale? Chiara Zamboni, riprendendo Tecniche originarie dell’attore di Jerzy Grotowski, lo spiega bene. Avviene che le azioni diventano del corpo. Sembra che gli esercizi si svolgano da soli “senza che ci sia la soggettività implicata”, le tecniche vengono “rese sapere corporeo ed esatto, preciso in ogni momento, senza più consapevolezza”. E aggiunge che quelle che Grotowski chiama tecniche sono per lei, e sono d’accordo, più delle pratiche. “Una tecnica infatti è un percorso di azioni fisse formalizzato e definito in ogni parte essenziale […] È frutto di una consapevolezza acquisita. Al contrario una pratica è esattamente quel che ne dice Grotowski, parlando di tecnica, cioè porta ‘alla consapevolezza anziché essere il frutto della consapevolezza’; è un percorso nel quale si acquisisce sperimentalmente la comprensione di quello che sta avvenendo nell’azione e insieme di come ci si dispone in essa; lo si impara nel fare”.[14] Nella preparazione di una partita o nella sperimentazione teatrale si impara agendo, così che poi, nella competizione o in scena, si agisce quasi senza pensare. Ricordo, ad esempio, il training continuo e ripetitivo nel battere le punizioni durante gli allenamenti. Pratiche precise ripetute da più angolazioni del campo da gioco, posizione del pallone sotto il ginocchio, angolatura della gamba destra (il piede con cui calcio) di quasi quarantacinque gradi, e presa del pallone con l’interno collo del piede per dare precisione al tiro. Non ho mai avuto potenza nelle gambe, per questo mi sono sempre allenata con pratiche di precisione, di cui imparavo il significato nell’azione.

Il tempo antecedente e dopo la partita è, invece, un tempo che ha a che vedere soprattutto con un luogo: lo spogliatoio, inteso come spazio altro. Qui avviene quello che Foucault enuncia come uno dei principi delle eterotopie: quello legato al tempo.

 

“Nella maggior parte dei casi, le eterotopie sono connesse a dei tagli del tempo, cioè sfociano in quelle che potrebbero essere chiamate, per pura simmetria, le eterocronie. […] In una società  come la nostra, generalmente l’eterotopia e l’eterocronia si organizzano e si combinano in modo abbastanza complesso. Vi sono, innanzitutto, le eterotopie del tempo accumulato all’infinito, per esempio i musei e le biblioteche […] Accanto a queste eterotopie, connesse all’accumulazione del tempo, vi sono eterotopie che, al contrario, sono connesse al tempo in ciò che esso ha di più futile, di più transitorio, di più precario, e questo nella forma della festa. Queste eterotopie non aspirano all’eternità, ma sono assolutamente legate al tempo”.[15]

 

Foucault riporta due esempi di connessione tra eterotopie ed eterocronie. Riprendendo il filosofo, aggiungo che una è legata a una percezione indefinita del tempo che si fa densa e corporea, tendente all’eternità; l’altra, invece, è legata alla transitorietà e precarietà del tempo. Lo spogliatoio per me è il luogo dove queste due percezioni del tempo convivono.

Lo spogliatoio è uno spazio altro caratterizzato e sovversivo: si respirano gli odori dei corpi, le tensioni di sguardi e muscoli, concentrazione, nervosismi, sorrisi, ferite aperte, dolori, stanchezza e rilassatezza, nudità esposte, reticenze, vergogna, pudori, eccessi e fiducie.[16]

È uno spazio del mio vissuto con altre donne: luogo dove gioca la differenza sessuale. Nello spogliatoio si crea una complicità tra compagne. Questa connivenza è fatta e si alimenta di tantissime chiacchiere (si parla di tutto nello spogliatoio), di autorevolezza circolante (ognuna, con i propri limiti, viene riconosciuta per le sue competenze e il ruolo che ricopre in campo, per il posto dove siede nello spogliatoio, che non è causale e una volta preso rimane sempre quello), di amicizia forte e affetto, di infatuazioni e innamoramenti più o meno duraturi. Ma questa complicità può anche generare pettegolezzi, invidie, gelosie e conflitti che “spaccano” lo spogliatoio.[17] Quando questo avviene, l’equilibrio lo si ritrova tra donne all’interno di questo spazio protetto. Lo spogliatoio, nel bene e nel male, è un luogo che chiede di rimanere chiuso agli sguardi maschili. Nella mia esperienza calcistica tutti gli allenatori sono stati maschi. Quando entra nello spogliatoio un uomo con il suo sguardo avviene sempre una rottura di questa diveniente stabilità. L’allenatore entra prima e dopo la partita: prima per dare la formazione e le indicazioni di gioco, dopo per l’analisi della competizione.  Questa entrata rompe la confusione, il gioco creativo e inventivo tra compagne, spegne le chiacchiere, ricopre le nudità dei corpi. Rompe l’atmosfera vitale per creare un tempo di ascolto e di silenzio. Ho sempre preferito gli allenatori che si fermavano lo stretto necessario nello spogliatoio.

E torno al tempo; ai due tempi che convivono nello spogliatoio, di cui accennavo prima. Qui, in questo spazio, prima della partita, il tempo si approfondisce. Sembra che lo spogliatoio sia fuori dal tempo e impenetrabile al suo trascorrere. Questa percezione ha a che vedere con il sentire e, parafrasando María Zambrano, con una particolare forma di sentire che è quella di “un’intimità in cui sentire se stessi”.[18] Si vive una sorta di incanto che tuttavia non è straniamento. È un sentire sia individuale, legato al proprio corpo: un pesare su se stesse -un esserci eternizzato-, sia un sentire collettivo: di condivisione e relazione con le altre in una intuizione del tempo corposa, densa e indefinita.

Ma nello spogliatoio c’è anche un altro tempo: quello transitorio e precario del dopo la partita. Dopo il gioco, il tempo viene percepito come transitorio, veloce, rapido. E questo sia nel caso che la partita sia andata bene che male. Questo tempo, che prende i connotati del dramma o della festa, è un tempo precario: c’è il desiderio di vivere il meno tempo possibile lo spogliatoio, c’è voglia di scappare, di andarsene. Si ha quasi timore a fermarsi troppo a lungo. Questa precarietà del tempo è legata anche a un altro aspetto che ha a che vedere con l’ostilità, la riluttanza che ha il corpo a lasciarsi andare completamente dopo la partita. Dopo uno sforzo molto intenso -come quello di novanta e più minuti di gioco- tutto ciò che hai dentro di vitalità, adrenalina, dolore, fatica non lo puoi sciogliere e vivere completamente, quindi non riesci e, per certi versi non vuoi, che il tuo corpo si rilassi totalmente. C’è la necessità e anche una sorta di godimento nel portare con sé la fatica e il dolore; lasciarsi andare troppo vorrebbe dire aumentarla quella sofferenza. Il corpo fa resistenza per non affaticarsi ancora di più. Anche l’esplosione della festa diventa momentanea perché se il corpo non si rilassa totalmente c’è voglia di andarsene e di vivere la festa in un altro momento.

 

Nella partita: l’accadimento della grazia

 

La Nazionale allenata da Milena Bertolini è arrivata ai quarti[19] della competizione mondiale grazie a uno spogliatoio coeso e una competenza tattica in cui il gioco corale e la grande intesa tra i reparti (difesa, centrocampo e attacco) hanno avuto un ruolo importante. Questo è certo e vale come discorso in generale. C’era bellezza nel vedere giocare la squadra. Una bellezza che stava agli schemi e kantianamente procurava piacere e diletto nella spettatrice. Anch’io ho percepito questa bellezza. E non solo. Per me, dall’esterno, le partite sono state anche un momento di grazia.

Alia Guagni e Aurora Galli sono due giovani giocatrici della Nazionale italiana che hanno disputato i Mondiali in Francia del 2019. Perché nomino loro? Perché entrambe, nel loro differente e creativo modo di stare in campo, hanno portato la potenza della forma all’atto puro. Grazie a loro, vedere giocare la Nazionale era sublime, non più bello. Guagni e Galli, pur conoscendo e applicando gli schemi, pur avendo introiettato moduli e regole attraverso un lavoro di esercizio e disciplina, sul terreno di gioco hanno fatto e dato vita ad altro, portando alla massima intensità la forma di gioco. Giocatrici geniali, le cui creazioni di gioco sono l’espressione, la mostra del sublime. Hanno creato un accadimento che è grazia. La grazia di cui parla Heinrich von Kleist nel Teatro delle marionette.[20] Seguendo il ragionamento di Kleist, Guagni e Galli giocano libere da ogni forza di gravità, con azioni e geometrie in cui non si intravede sforzo alcuno. La manifestazione della grazia consiste nell’annullamento della coscienza: i loro movimenti non sanno di raggiungere la grazia, semplicemente la impersonano.[21] Le loro giocate rompono le regole, diventano autonome, creano discontinuità, evento. Sono l’impossibile che diventa possibile.

Tutto in campo gira intorno a loro.

Guagni, secondo il modulo, gioca in difesa, ma è una giocatrice eclettica. “Per me giocare a calcio -dice in un’intervista- è un giocare facendo qualcosa che ti viene naturale, qualcosa che ti svegli e senti che sei nata per fare questo”.[22] Ogni sua giocata infatti appare involontaria, in senso letterale, cioè senza volontà.  Lascia spesso il reparto difensivo per spingersi in attacco con una progressione di falcata dove piede e pallone sono un tutt’uno. Non si limita alla fascia, non ha uno spazio privilegiato del campo dove agire, si muove ovunque, libera. Conduce la palla con l’esterno destro e sinistro del piede, accarezza il pallone, danza mentre corre. I movimenti sono leggiadri, mai esplosivi. Anticipa le avversarie con doppi aggiramenti, non con la forza. Entra con naturalezza nelle trame altrui, si inserisce nelle traiettorie dei passaggi delle avversarie rubando il tempo. E riprendendo palla, in una sorta di palleggio in movimento, la appoggia alle compagne. Quando non ha il pallone, i suoi smarcamenti sono funambolici. Si eleva in alto senza fatica, i suoi colpi di testa sono parabole che si alzano in cielo per discendere leggere in rete.

Galli è una centrocampista.  Il suo talento si esprime nelle finte, nel dribbling e in un tiro che non è per niente potente ma sempre angolato. Tutti i suoi gol sono traiettorie che lambiscono il palo per entrare in porta. Galli ha il dono dell’invenzione: ogni volta che le arriva la palla accade qualcos’altro. Rompe, con giocate inattese e non pensate, le manovre di gioco con un ardire che si fa scherno della riuscita. In Galli, l’indefinibile, l’imprevedibile si attualizzano. La sua doppietta più bella al Mondiale l’ho vissuta così: Galli si smarca, allarga le braccia, riceve palla, l’addomestica con il collo del piede e senza pensarci un attimo calcia, il pallone entra sul sette, l’incrocio dei pali alla destra della portiera della Giamaica; il secondo è una giocata inventiva verso la porta, un taglio del campo, e quando riceve palla con una finta dribbla e segna.

Guagni e Galli: giocatrici geniali spontanee, ogni loro giocata un misto di sregolatezza, autonomia e invenzione. Nella differenza di ruoli e abilità, entrambe hanno generato ad ogni tocco sorprese.

 

Dal parterre: “un punto di vista in movimento”.[23]

 

Non ho visto i Mondiali allo stadio. Li ho seguito in televisione. Se avessi potuto li avrei guardati dal parterre. Il posto meno caro e più interessante dal mio punto di vista per guardare una partita di calcio. “Viste dall’alto, le partite di calcio sembrano tutte uguali- scrive Peter Brook- eppure nessuna partita sarà mai riproducibile tocco per tocco”.[24] Ogni partita, infatti, ha una la sua storia, ogni partita è diversa dalle altre anche se finiscono a reti inviolate, anche se annoiano tremendamente. Se ogni competizione è diversa, ci sono anche modi differenti di vedere una partita. Io, forse perché sono una ex calciatrice, privilegio la vista a ridosso del campo da calcio: dal parterre, la parte più bassa delle gradinate, quella sotto le tribune. Qui si ha la stessa visione dell’allenatrice, meno panoramica rispetto alla visione dall’alto, però più vera, più reale, più vissuta e sentita. Si toccano con mano e si respirano l’agonismo, lo sviluppo del gioco orizzontale, lo stesso di cui si ha consapevolezza quando si gioca, le difficoltà, bravure, le intuizioni che ogni azione comporta. È una visione più incisiva che privilegia al contempo singola e squadra tutta. Ogni gesto, ogni azione, ogni movimento visto dal parterre diventa “stereoscopico”. Il parterre, parafrasando Brook presenta la partita “in più dimensioni contemporaneamente”. È una visione che permette di “rimpiazzare un unico punto di vista (lo svolgimento di una partita) con una pluralità di visioni differenti”.[25] Visione diacronica. Fotogrammi sequenziali. Eventi, nell’evento, in rilievo.

 

Nell’evento dei Mondiali

 

Immagino allora di guardare i Mondiali dal parterre cercando un’altra visione, meno globale, rispetto a quella che è stata presentata da media, giornali, social e blog. Il dibattito dominante si è concentrato perlopiù su due aspetti. Il primo, quello a cui la stampa e l’opinione pubblica hanno riservato molta attenzione, era incentrato sul linguaggio. Come nominare i ruoli delle giocatrici in campo? Portiera, ad esempio, suona stonato? È meglio dire arbitro (tutte le direttrici di gioco erano donne) o signora arbitro? E per Milena Bertolini, l’allenatrice: ct,[26] la ct, la/il mister? Si è creato nel giro di poco un muro contro muro tra chi sosteneva la declinazione neutra del ruolo,[27] nonostante si trattasse di giocatrici donne, e chi invece proponeva la declinazione al femminile. I primi, appellandosi alla bruttezza di alcuni termini declinati al femminile, erano per lo status quo; gli altri desideravano e auspicavano un cambiamento sociale a partire dal linguaggio. Sono una pensatrice della differenza e sono contraria e critico la tendenza a neutralizzarla.[28] Tuttavia, il mio intento è di andare oltre, perché qui il dibattito si è arenato e non ha creato nulla di nuovo. Sostare su questo punto sarebbe ripercorrere una strada cieca, perdendo una buona occasione per vedere la politicità dell’evento dei Mondiali di calcio femminile. Una politicità che tocca e genera altre questioni diventando più efficace rispetto alla sterilità con cui sono state sprecate risorse per parlare del linguaggio. Milena Bertolini una schivata rispetto a questa impasse l’ha fatta. È stata una invenzione: ha chiesto di farsi chiamare miss.[29] E questa invenzione ha un effetto politico. Utilizzando un termine che tra l’altro non appartiene al gergo calcistico si smarca dalla diatriba con autorità, dando vita a un altro ordine di discorso creativo e libero.

L’altro aspetto su cui media e stampa hanno puntato l’attenzione è stato l’audience: il numero dei/delle telespettatrici che hanno seguito le partite della Nazionale. Audience favorito anche dal fatto che le competizioni della squadra italiana sono state trasmesse dalla televisione di Stato. Numeri alti, altissimi in alcune occasione, tanto da fare notizia più della notizia stessa. I protagonisti diventavano spesso gli spettatori che si erano entusiasmati (l’aggettivo più circolante) al calcio femminile. Certo che c’è una corrispondenza: le ragazze hanno entusiasmato di conseguenza hanno creato fidelizzazione e seguito nel pubblico. È un bene, non lo nego, che molte donne e soprattutto uomini (i maggiori denigratori del calcio femminile) abbiano seguito le partite, che al bar se ne parlasse, anche se in modo spesso impacciato, che ci fosse più visibilità, ma questo poi non è stato articolato in pensiero altro.

Il dato numerico si è trasformato nella richiesta di maggiori sponsor e pubblicità, sistema che porta inevitabilmente all’omologazione con il calcio maschile; l’entusiasmo ha aperto, invece, la strada al dibattito sul professionismo.[30] Questione quest’ultima che ha condotto il discorso sulla parità delle donne con gli uomini, “su un confronto unilaterale di lei con lui, senza scintille né sorprese”.[31] Il professionismo sportivo è un diritto che va riconosciuto alle donne che fanno sport. Punto. Ma anche in questo caso ha fatto da tappo.

Come la questione della parità, anche la visibilità, di cui parlavo prima, invece di scardinare luoghi comuni e stereotipi ha portato anch’essa al raffronto unilaterale con la visione maschile.

C’è stata una costante tendenza a paragonare il calcio femminile con quello maschile.[32] Le domande più frequenti poste alle calciatrici avevano come ritornello: “A chi ti ispiri, chi è il tuo modello di calciatore? Carolina Morace, colei che ha fatto la storia del calcio femminile, tracciandone la genealogia, ha risposto così: “Mi risparmio le cazzate del confronto tra maschi e femmine. Nessuno paragona Serena Williams a Nadal”.

L’altro lato di questa deriva è stato da parte di molti il tentativo di fare un discorso “politicamente corretto” e paternalistico sul calcio femminile. Con la conseguenza che deve piacere a tutti. Il giornalista Emmanuele Atturo l’ha detto bene, mettendo in evidenza un paternalismo giornalistico (sfociato nell’emblematico titolo del Corriere della Sera “Confesso di avere urlato”), in cui la Nazionale veniva “elogiata per le sue qualità emotive, morali, persino per tutta la sua italianità, raramente per l’organizzazione di gioco, la qualità tecnica o fisica. Come a volere sottolineare l’impegno in qualcosa che fondamentalmente continua a non appartenerle”[33]: il gioco del calcio. Perché? Perché è troppo difficile stare e argomentare politicamente la differenza espressa dalle atlete.

Per questo è necessario parlare di genealogie, di autorità dell’allenatrice e delle giocatrici geniali, delle relazioni tra compagne di squadra: questo racconto permette di vedere il campo da calcio, ovvero la creatività. E la narrazione diventa così politica, in quanto trasforma questo evento.

La genealogia non è solo temporale: non ha a che vedere solamente con un passato su cui il presente si riflette, ma riguarda soprattutto le soggettività. C’è un doppio riconoscimento: le giovani giocatrici della Nazionale nominano e hanno presenti le donne del calcio femminile italiano degli anni ’70; allo stesso tempo le protagoniste di allora attribuiscono un nuovo inizio genealogico alle atlete di oggi. Ciò si coglie nelle dichiarazioni di Patrizia Panico, attaccante della Nazionale negli anni ’90 e attualmente commissaria tecnica della Nazionale under 15 maschile, che intervistata sul rapporto sull’esposizione mediatica e la grande visibilità di questa Nazionale, risponde così: “I loro successi danno un senso a quello che abbiamo fatto noi prima, i nostri sacrifici, la nostra perseveranza. Sono orgogliosa del loro cammino”. E alla domanda: “Si rivede in qualcuna delle attaccanti di questa squadra, tecnicamente parlando?”, replica, dicendo: “No, hanno tutte caratteristiche diverse. E poi paragonarle a me sarebbe come sminuire quello che stanno facendo loro adesso, da protagoniste”.[34] Se è vero quello che dice Muraro sulla genealogia, ossia che è fondamentale “riconoscere l’apporto di sapere di altre donne che sono venute prima, affinché, il partire da sé, dalla propria esperienza, non precluda, chiudendolo nella settorialità delle rivendicazioni, lo sguardo su tutto il mondo”,[35] Panico aggiunge a questo una circolazione di autorità che è energia nelle relazioni con il presente.

Io appartengo alla generazione che ha giocato negli anni novanta e ho sempre percepito forte nel calcio femminile la forza di una processualità genealogica che si accresce. Nella mia esperienza, fatta di racconti di coloro che già giocavano e che io apprezzavo e vedevo come modelli. A sua volta, anch’io, poi, col tempo, sono diventata autorità per altre più giovani. Tutto questo è avvenuto perché noi, calciatrici, non abbiamo mai dimenticato gli inizi. Gli inizi di quando abbiamo cominciato a giocare. Inizi sempre complicati, mai lineari, ma sostenuti dall’esperienza di altre donne. Anche se non personalmente conosciute, queste donne c’erano perché erano le amiche di qualche amica o semplicemente perché sapevamo che da qualche parte giocavano. E nascevano storie reali e anche immaginate che hanno permesso un contagio di desiderio, passione e creazione.

L’autorità circolante è l’altro elemento che ho percepito in questa Nazionale. Una autorità orizzontale, non articolata secondo una gerarchia, ma fondata e fondante di riconoscimenti liberi e creativi. L’autorità sappiamo che ha inizio e si accresce nelle relazioni, e in questa squadra ogni riconoscimento dei ruoli era reciproco. Il talento delle giocatrici geniali era riconosciuto da quelle che avevano più disciplina, ma allo stesso tempo le talentuose riconoscevano l’insostituibile necessità delle altre. In campo non c’erano primi uomini, ma una tecnica dispiegata in relazioni fluide, con acuti sublimi di Guagni e Galli e la sapienza di miss Bertolini.

La posta in gioco politica del calcio femminile è per me la libertà. La libertà di esprimersi in campo. E non si tratta di un discorso sportivo e tecnico, ma di rimarcare che sono la gratitudine, il riconoscimento e le relazioni di autorità che danno vita alle trame di gioco in campo. Si tratta anche di una libertà che non vuole convincere, né portare a ravvedersi o fare ricredere nessuno, appellandosi a improbabili paragoni con il calcio maschile. Chissenefrega se siamo più lente e meno esplosive. Bellezza e sublime stanno su un altro registro.

 

 

 

[1] Parterre deriva dal francese “par terre”, “per terra”. In uno stadio, il parterre è la parte più bassa delle gradinate, quella sotto le tribune, a ridosso del campo da gioco.

[2] Fuorigioco “intende valorizzare pratiche sportive come esperienze di condivisione, trasformazione e potenziamento in cui i corpi sono pienamente in gioco”, in “Fuorigioco. Un movimento che crea conflitto. Un conflitto che rimette in gioco” di Sara Bigardi e Maria Livia Alga, Rivista online di Diotima Per amore del mondo, La differenza che fa il sesso, n. 13, 2015: https://www.diotimafilosofe.it/larivista/fuorigioco-un-movimento-che-crea-conflitto-un-conflitto-che-rimette-in-gioco/.

[3] “Questione di centimetri” di Cloe Segesta e Sofia Reccella, in “Fuorigioco. Un movimento che crea conflitto. Un conflitto che rimette in gioco”, Rivista online di Diotima Per amore del mondo, La differenza che fa il sesso, n. 13, 2015: https://www.diotimafilosofe.it/larivista/una-questione-di-centimetri/.

[4] I mondiali di calcio femminile si sono tenuti in Francia dal 7 giugno al 7 luglio 2019.

[5] Antonietta Potente, “Il paradiso dipende da noi”, relazione del Grande Seminario di Diotima 2019: “Politica delle donne. Qui e ora”, del 4 ottobre. Il link dell’intervento sul sito: www.diotimafilosofe.it.

[6] “Note di un metodo” è un sintagma di María Zambrano, da cui prende il titolo il suo omonimo testo: Note di un metodo, a cura di Stefania Ferrando, Filema, Napoli 2008. “Queste Note di un metodo -scrive Zambrano- non sono annotazioni ma note nel senso musicale, cosa che impone, più che giustificare, la discontinuità”, Ivi, cit., p. 30.

[7] “L’esperienza precede ogni metodo. Si potrebbe dire che l’esperienza è «a priori» e il metodo è «a posteriori». Ma ciò vale soltanto come un’indicazione, giacché la vera esperienza non può darsi senza l’intervento di una sorta di metodo. Il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura. Ma è stata indispensabile una certa dose di avventura e persino un perdersi nell’esperienza, un’erranza del soggetto nel quale questa si va formando. Un perdersi che sarà poi libertà”, in M. Zambrano, Note di un metodo, cit., p. 35.

[8] Michel Foucault parla di andare “oltre una lineare finalità” dell’evento/degli eventi. E questo è ciò che mi propongo anch’io di fare. Cfr., Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, trad. it. di A. Fontana, P. Pasquino e G. Procacci, in Michel Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1997.

[9] Mi riferisco, ad esempio, al filosofo Elio Matassi con il libro La pausa del calcio, che riprendendo Elias Canetti, parla della competizione sportiva come di un evento sospeso, slegato sia dallo spazio che dal tempo. In pausa, appunto. Cfr., Elias Matassi, La pausa del calcio, Il Ramo, 2012. Bernhard Welte, ne La filosofia del calcio, definisce il gioco “oasi dell’eternità”, cfr., B. W, La filosofia del calcio, a cura di Oreste Tolone, Morcelliana, Brescia 2010.

[10] Ci sono delle analogie rispetto alla questione del tempo anche in altri sport, ma io mi soffermo solo sul gioco del calcio.

[11] Peter Brook, Il punto in movimento, trad. it. di Pietro Dattola, Dino Audino, Roma 2016, p. 12.

[12] Peter Brook parte invece dallo sport e ricava immagini per spiegare ciò che succede a teatro.

[13] Ibidem.

[14] Chiara Zamboni, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni, Liguori Editore, Napoli 2009, pp. 122 e 125, si veda anche la nota 3 a p. 123.

[15] Michel Foucault, Eterotopie 1984, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985 Estetica dell’esistenza, etica e politica, a cura di Alessandro Pandolfi, trad. it. di Sabina Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 313-314.

[16] “L’eterotopia inizia dagli spogliatoi: lì è come se si entrasse e vivesse in un altro mondo. Si creano le solidarietà, nascono le storie d’amore. È una situazione totalmente staccata dalla realtà. Ci sono dei codici, delle parole, dei simboli, dei ruoli che conoscono solo le persone della squadra”, cfr., “Questione di centimetri”: https://www.diotimafilosofe.it/larivista/una-questione-di-centimetri/

[17] “Spaccare lo spogliatoio” è un’espressione molto in uso nel gergo calcistico. Lo spogliatoio si presta all’utilizzo del linguaggio figurato. Oltre ad essere un luogo fisico, materiale, si parla anche dello spogliatoio in senso metonimico. Così nascono espressioni come “le voci, gli umori, le espressioni, gli stati d’animo, l’anima dello spogliatoio”.

[18] María Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, trad. it. di Claudia Marseguerra, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 49.

[19] I quarti sono il terzultimo atto di un torneo, come il Mondiale di calcio, a cui partecipano otto squadre.

[20] Heinrich von Kleist, Il teatro delle marionette, il melangolo, Genova 2005.

[21] Esplicative in questo senso delle tesi di Kleist sono le parole di Ugo Leonzio nella postfazione del libro. “È implicito -scrive Leonzio- nella tesi che sostiene [Heinrich von Kleist] che il rapporto tra i movimenti minimi del burattinaio (movimenti “economici” e funzionali) e quelli che manifestano la grazia superiore della danza consiste nell’annullamento della coscienza (…)”. E più avanti aggiunge: “Il gesto meccanico può raggiungere la grazia un’infinità di volte, eternamente…poiché non sa di raggiungerla e si limita a incarnarla”, Ugo Leonzio, “Il cielo e la terra”, in Kleist, Il teatro delle marionette, cit., pp. 30 e 33.

[22] Servizio di Pierluigi Pardo su Alia Guagni, al link: https://www.youtube.com/watch?v=7qRThDXcty8.

[23] È un’espressione di Peter Brook. La utilizzo per spiegare la visione di una partita a ridosso del campo da calcio e letteralmente come punto che si muove (velocemente) verso l’evento dei Mondiali.

[24] P. Brook, Il punto in movimento, cit., p. 12.

[25] Ivi, cit., p. 17. Quello tra parentesi tonde è una mia aggiunta.

[26] C.t. è l’acronimo di commissario tecnico e viene utilizzato per chi allena la Nazionale.

[27] La declinazione neutra del ruolo privilegia appunto il ruolo a prescindere dal sesso di chi quel ruolo ricopre. Si veda a questo proposito Giulia Siviero, Noi nel linguaggio e la portiera della nazionale, al link: www.ilpost.it/giuliasiviero/2019/06/26/noi-nel-linguaggio-e-la-portiera-della-nazionale/.

[28]“Ciò significa non paralizzarci all’autocensura, e neppure, per carità, paralizzare le altre al grido di maschilista o epiteti affini. Significa invece diffidare della pretesa neutralità del linguaggio, della sua oggettività scientifica, e anche della sua bellezza. Affinché in questa bellezza l’essere donna non sia più l’incanto di una creatura muta di fronte alla parola”, Adriana Cavarero, “Per una teoria della differenza sessuale” in Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga edizioni, Milano 2003, p. 78.

[29] “Chiamatemi Miss e non Mister”.

[30] Ad oggi (gennaio 2020) le calciatrici sono ancora delle dilettanti e dilettante per la Treccani è “chi coltiva un’arte, una scienza, uno sport non per professione, né per lavoro, ma per piacere proprio”. Questo sul piano materiale significa che le atlete (non solo del calcio, ma di tutti gli sport) non hanno un contratto di lavoro con un salario mensile, non godono di assistenza previdenziale e di tutele assicurative e non hanno la possibilità di accedere alle contrattazioni collettive del lavoro. Nel dicembre del 2019 qualcosa a livello di politica partita si è mosso. La Commissione Bilancio del Senato ha approvato un emendamento (che si auspica diventi presto legge) che agevola le società e le federazioni sportive nel passaggio al professionismo. La proposta prevede “un incentivo alle società che stipulano con le atlete contratti di lavoro sportivo”. https://www.gazzetta.it/calcio/calcio-femminile/27-11-2019/arriva-emendamento-svolta-il-professionismo-femminile-3501429876805.shtml.

[31] Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carrocci Editore, Roma 2011.

[32] Walter Veltroni nella prefazione al libro Campionesse. Storie vincenti del calcio femminile (Giunti, Milano 2018) di Michele Uva e Moris Gasparri, esordisce dicendo: “Per me il calcio femminile è il football riportato al suo dna essenziale. Sembra il calcio degli uomini di quando ero bambino, quando la bellezza del gesto tecnico e la sapienza dell’estro erano più importanti della strabordante fisicità di oggi. Il calcio era meno frenetico, meno fisico. Più bello. Il calcio delle donne è molto bello da vedere”, cit., p. 7. Perché allora invece di stare sul confronto col calcio maschile,  non interrogare “il gesto tecnico e la sapienza dell’estro”: questa bellezza?.

[33] La rivoluzione del calcio femminile al link: https://www.iltascabile.com/societa/calcio-femminile/.

[34] Intervista a Patrizia Panico su La Gazzetta dello Sport, giovedì 27 giugno 2019.

[35]http://www.treccani.it/export/sites/default/scuola/lezioni/scienze_umane_e_sociali/FILOSOFIE_DIFFERENZA_SESSUALE_2_lezione.pdf