diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Lei non sa chi sono io

Parla con lei

 

La domanda è di quelle che fanno scattare, mi arriva come una frustata, inaspettata, giusto su una ferita ancora aperta. Non è la prima, ma certo è di quelle che lasciano il segno. “Perché voi del Sindacato non provate a ..” Cosa non ha importanza, fa parte delle parole che arrivano dopo la fitta di dolore che provoca l’essere interpellata in questo modo: “voi del Sindacato.” Non ho memoria di quante volte mi è capitato; nell’attuale crisi della politica è frequente incontrare chi ti richiede una superiore capacità per risolvere quei problemi che in prima persona non sa o non vuole affrontare. So riconoscere queste situazioni, sono quelle che più di altre generano impotenza. L’urlo, però, scatta nel profondo quando questa espressione viene da amiche che dicono di fare della relazione con l’altra una fonte di misura per orientarsi nel mondo. Delle loro parole l’eco non si perde, risuona nella mente, puntuale e tagliente come una lama. Mi ha accompagnato per anni fino a quando, non so cosa sia scattato, una rabbia sorda ha preso il suo posto. E’ salita piano come una nebbia dai fossi,
inarrestabile si è addensata a banchi e le parole, senza sapere bene dove andare, si son fatte ingorgo. Una sorpresa sentirle senza timore o riverenza alcuna ricomporsi in una sequela di domande: “Perché ti rivolgi a me in questo modo? Non sai delle parole, della loro capacità di dare la vita o la
morte? Voi, dici? Non mi vedi? Non senti la mia vita, la donna che sono? Non sai della lotta perché la differenza femminile abbia esistenza? Che ne è di anni di scambi, di ricerca, di elaborazione politica in un “fra donne” scelto non per caso?
Mi chiamo Oriella Savoldi, il nome l’ha scelto mia madre ed il cognome si sa, viene da padre. Faccio la sindacalista. Nella mia vita il sindacato c’era già prima del femminismo, prima che “diventassi donna”, come dire, prima che del mio essere donna prendessi coscienza. E’ stata la casa che mi sono scelta per incontrare altri, altre che come me non sopportavano mortificazioni e costrizioni, quelle ben presenti nel mondo del lavoro subordinato. Anche oggi, più sottili in alcuni luoghi, in altri più violente. Ai tempi della scuola ero convinta che, una volta diplomata, questo mondo mi sarebbe venuto incontro pronto ad accogliermi. Che in esso avrei potuto esprimere il meglio di me e, insieme allo stipendio, ne avrei guadagnato riconoscimento. Non che non sapessi di rapporti gerarchici, delle molte ingiustizie che vi si consumavano; gli operai nelle assemblee con gli studenti ne parlavano spesso. Avevo conosciuto forme di autoritarismo a cui mi ero ribellata e pensavo che non sarebbe stato difficile difendermi e farmi valere. Sbagliavo; il bisogno di lavorare, quello dei poveri che non hanno alternativa per guadagnarsi di che vivere, toglie slancio e fa ingoiare lacrime amare. Le offese arrivano sotto gli occhi di chi lavora al tuo fianco, ti umiliano quando meno te l’aspetti e non necessariamente perché ti è capitato di sbagliare qualcosa. A volte solo per il gusto di chi vuol farti sapere chi comanda. Se non ci fosse da piangere sorriderei ai commenti sui quotidiani di questi giorni, di chi riconduce agli operai la responsabilità degli estintori risultati vuoti alla Tyssen Krupp di Torino.

Ammesso che se trovati pieni avrebbero potuto salvare quelle vite, i commenti con cui vengono rimbalzate le responsabilità sembrano accreditare l’idea che i compiti, i rapporti in una fabbrica, quella come in altre, siano liberi. Non è vero! Vero è invece che solo il bisogno di lavorare, materiale e simbolico, come costrizione per avere di che vivere, può renderti sopportabile la peggiore condizione e lasciarti più esposto a prepotenze ed angherie. Le offese che si patiscono, pesanti o sottili, arrivano con una violenza – dice Naomi Klein[1] – dal potere scioccante. Riprendersi chiede tempo e, ammesso di trovarla, una cura giusta. Nel mio caso mi ha aiutato l’invito di un operaio a partecipare ad una riunione, sì, “per parlare dei problemi che abbiamo”. Parole che hanno fatto da ponte per uscire dall’isolamento a cui costringono organizzazioni del lavoro basate sulla rigida divisione dei compiti e su rapporti gerarchici. Certo, perché le parole facciano da ponte, occorre sia chiaro chi le offre e chi le raccoglie non solo nel chiuso di un luogo di lavoro, ma ben oltre i suoi confini.

Occorre ci sia una dimensione di apertura, un circolo di fiducia; credere che dall’incontro, dallo scambio può venirne qualcosa di positivo per la propria vita. Che della libertà si può fare esperienza anche nelle peggiori condizioni. E’ cominciata così la mia attività sindacale, con un incontro che ne ha favorito altri, dalla fabbrica fino alla casa sindacale, in tempi in cui chi lavorava si nutriva di un riconoscimento politico e sociale che faceva fare balzi da gigante nella lotta per il rispetto personale, maggiori libertà e condizioni di lavoro più dignitose. Non ho perso dentro di me il significato di questa attività che continuo a svolgere, in ascolto della molta sofferenza che ne deriva a uomini e donne dentro sistemi produttivi pensati per realizzare profitti, che tutto piegano a questo scopo. Questi sistemi non sono un destino, sono opera umana, per lo più di uomini, ma anche di donne. Efficace la vignetta di Pat Carra a commento di espressioni come “Le donne devono avere lo stesso potere degli uomini” “Sì”, fa dire Pat a una delle due protagoniste della vignetta “ma che sesso devono avere quelli che il potere lo subiscono?”[2]. Sono uomini e donne quelli che lavorano. L’affermazione non è retorica, occorre ricordarlo per togliere il velo che ne copre l’umanità, spesso ai loro stessi occhi. Quanto coraggio e muta pazienza ci vogliono nell’alzarsi ogni mattina che piova, ci sia vento o sole con la prospettiva di entrare in fabbrica, in uffici, in ospedali, a scuola, a ripetere compiti non sempre e non tutti scelti o di quelli che si svolgono con piacere o che, definirli autonomi, fa la differenza. Quali significati possono far muovere passi così pesanti se non i rapporti, prima dei guadagni, quelli che animano le nostre singole vite? Settanta Km per andare a lavorare alla Tissen Krupp, settanta per tornare da una moglie che per lui temeva il pericolo della strada, tre figli piccoli. Tutto lì il mondo del primo operaio che ha trovato la morte nell’incendio del suo reparto, nello stabilimento di Torino. Non c’è all’origine di questo andare e tornare quotidiano, di quella vita, il senso di quegli affetti? Cosa manca perché ci si possa guardare in faccia, parlarne e fare mosse per restare vivi? Prima che il dolore colpisca, prima che sotto lo sguardo sfili, nella
manifestazione come pure ai funerali, la dignità di quegli operai, compagni di lavoro colpiti a morte. E’ per questo che continuo a fare il lavoro che faccio, per passione o compassione di quell’umanità sofferente di cui faccio parte. Già, è la parte che mi è toccata venendo al mondo. Non ho in mente un mondo a pezzi, diviso in tante parti, ma so leggere le condizioni dispari, ben presenti nei contesti dove si convive. A volte sono persone ricche che ricordano a quelle povere di essere povere; quando lo si è e non è la fame a ricordarlo o la pretesa che tutto è dovuto, si preferisce dimenticarlo; l’ambizione di ricchezza che si respira in questo tempo fa vergognare delle proprie ristrettezze. Mi viene in mente la domanda della signora Lavinia Borromeo[3], quando al giornalista che le chiedeva perché fra la cerchia dei suoi amici non ci fossero dei poveri, ha risposto: “Dipende da che cosa si intende per povertà. Parliamo di persone che debbono lavorare per mantenersi?” Di questa condizione, quella di dover lavorare per mantenersi, non è l’impatto con il lavoro che fa prendere coscienza, ma le sofferenze che si patiscono, la cui realtà prende corpo nel confronto con altri, con
altre. Per intenderci, occorre che siano viste, sentite, raccolte con tutto il senso dell’umanità di cui si è capaci, facendo a pugni con quell’indifferenza che spesso si presenta come via preferibile. Per alleviarle, a partire dalle mie, si rinnova in me il movente che tuttora anima le mie giornate. Nel
sindacato, ma forse avrebbe potuto essere anche un altrove se qui non fossi arrivata in virtù della mia storia personale. Che forse mia madre per la povertà materiale in cui versava ha avuto paura di mettermi al mondo? Come potevo restare insensibile a tanto amore, per sé stessa, per me e per il
mondo a cui mi ha consegnato? Nulla a che vedere con l’ espressione “voi non sapete chi sono io” offerta come spunto per questo scritto. Non è sull’io che mi sbilancio. E’ per lo stesso motivo per cui quel “voi” mi fa soffrire ogni volta. Al suo posto con un balzo repentino si mette la vita nel suo farsi parlante; quella che, al contrario, l’espressione “voi del sindacato” vorrebbe catalogare, e dunque rendere insignificante. La casa sindacale è come un grande arcipelago, molto popolato; in esso convivono uomini e donne dalle differenti esperienze e orientamenti; diversi i rapporti, anche
gerarchici che neanche qui si risparmiano, diverse le pratiche che si confrontano. Pesanti e dolorose sono state le sconfitte subite e i prezzi da pagare per far vivere il senso della differenza femminile. Non lo scrivo certo per fare del vittimismo; si tratta di essere realiste nel fare i conti con la propria vita alle prese con il tempo che è capitato di vivere- “A conti fatti” ha affermato Joni Mitchell[4], sessanta quattro anni, cantautrice famosa, alle prese in questi giorni con l’uscita di un suo nuovo
disco,”credo di non aver avuto più del due per cento del capitale che ho generato” E fra i motivi, l’essere stata truffata, aver subito un contratto che fu un disastro, ha premesso “Perché sono una donna”. Già, si tratta di saperlo. Sono critica rispetto a molte delle posizioni o comportamenti che
si confrontano nella casa sindacale, ma nel mio rifiuto del “voi” non c’è alcuna sua riduzione, né del mio lavoro. Mi muove la pretesa che l’originalità di una vita, a partire dalla mia, e con essa la differenza femminile che concretamente sono, sia parlante. Non basta essere una donna, occorre saperlo perché lo sguardo possa orientarsi nella lettura della realtà di questo mondo, da quello più vicino a quello più lontano; perché le azioni, a partire dalla presa di parola, possano muoversi nell’attenzione a cogliere ciò che si presenta sotto gli occhi evitando il rischio, sempre presente, di
accreditarne un’altra. Stai parlando a me, che centra “Voi del sindacato”? Come può farsi gioco libero lo scambio quando si viene continuamente ricacciate nella necessità di rimettersi al mondo, tenersi presenti a se stesse e a chi sta di fronte? Non è questo il continuo raccontarsi di una
donna? Una lotta estenuante perché la realtà della propria singola vita possa esistere, perché possano prendere corpo i propri significati e legami. Non c’è in quel “voi” l’appiattimento in rappresentazioni che agiscono al proprio interno e a cui si permette, consapevoli o no, di venire prima della vita palpitante degli essere umani, uomini e donne, che si vanno incontrando? Di cosa parla quel raccontarsi di cui capita di perdere il filo, di non sapere più dove andare a parare. Di quali derive si sta facendo esperienza? Certo raccontare per una donna – si dice – è congeniale, ma all’origine c’è sofferenza! Saperlo cambia il movimento. Ascoltare, ascoltarsi, allora non è un mettersi in sintonia o la ricerca di conferme di ciò che si è, si fa e si pensa: è una tensione che preannuncia uno scatto. Quello che da una intuizione, una indicazione minima, dà inizio al movimento. “Osservare a lungo, capire profondamente, e fare in un attimo. Sono regole in cui mi riconosco – ha confidato Giovanna Marinelli[5] a La Repubblica, a proposito di gestione di strutture complesse. I sistemi di rapporti di cui si fa esperienza sono strutture complesse. Lo sono imprese, scuole, ospedali, la famiglia, ecc. In essi, non tutte, non tutti si muovono lasciandosi orientare dal senso dell’umanità che siamo, uomini e donne. Troppo spesso prevalgono divisioni, ottusità e violenza, l’idea di traguardi come denaro, potere, successo, dominio, possibili proprio perché di questo senso dell’umanità ci si fa dimentichi. E’ l’ascolto profondo di un cuore palpitante, in un attimo, che fa fare balzi da gigante. E la mossa viene, fa leva sull’assunzione di responsabilità in prima persona, della propria vita, del suo significato e da essa va ben Oltre i propri confini[6] per incontrare sé e chi vive accanto. Il segreto è tutto lì, in un incontro dove non c’è noi o voi, io o
tu. Solo cuori palpitanti dentro corpi di donne, corpi di uomini, che si sentono, si percepiscono sanno che possono farsi male. E’ un incontro non facile, tanto esporsi senza strutture e a rischio di un contatto così ravvicinato, può risultare spaventoso. Lo sanno più donne che uomini. Della paura maschile lo testimoniano migliaia di regole, tese a indicare, prescrivere, orientare i comportamenti. L’idea di rinunciare a questo spogliarsi ravvicinato per risparmiarsi dal molto smarrimento che ne può derivare, è una carezza insidiosa. Non che sia sempre nelle nostre mani, ma accogliersi, scoprirsi nella propria fragilità e sopportarsi in tanto sbilanciamento è condizione essenziale nella ricerca di ponti. Quelli su cui passare, nel farsi della propria vita, oltre la sofferenza. Per trovarli,
perché vengano incontro nel cammino. Li si possa attraversare, avanti e indietro, mettersi da parte e far passare, indicare una direzione o soffermarsi per guardarsi negli occhi, parlarsi senza nascondersi, anche litigare senza uccidersi, per condividere. E’ la vita che poi guadagna in qualità, profondità ed altezza. Ne parlo per diretta esperienza, so dei momenti di felicità, quelli che ti colgono come un bacio in fronte inaspettato, al pari dei moti di allegria. Non è di questo che ha bisogno la politica? Di disfare strutture più che costruirle, perché gli esseri umani
possano stare in contatto ravvicinato. Certo, bisogna saper perdere qualcosa, fare dei bilanci veritieri e continuare ad interrogare significati e moventi che animano la propria vita. Senza dimenticare che per amore di una donna si viene al mondo, per amore si possono vivere tutte le case,
anche quelle tutte a misura del padre, le più ostiche per una donna, quasi come le chiese. Tutte quelle dove porta la propria vita, che resta l’unico appuntamento impossibile da mancare. Forse è arrivato il tempo “di sapere di sapere”. Di considerare che “diventare donna” o, in altri termini, l’avvento della libertà femminile, è dato; ora si tratta di far sì che resti, non se ne vada sotto i colpi a cui continuamente sono esposte donne che della libertà fanno esperienza viva. Il miglior modo, chiede, più che raccontare, una nuova stagione di ascolto, nella tensione a dare esistenza a ciò che di
nuovo si va formando sotto i nostri occhi. Con fine accortezza, si tratta di non cancellare o farlo precipitare con il ricorso a parole che per farsi spedite, propongono rappresentazioni conosciute, ma ormai inefficaci per dire la modifica avvenuta. Mi chiamo Oriella Savoldi, lavoro al sindacato, della battaglia perchè la libertà femminile abbia corso faccio esperienza quotidiana. Mi sostengono quelle che condividono la stessa battaglia e, anche se non nello stesso contesto, ovunque siano, come direbbe Marina Terragni[7], tengo presenti “in spirito”. Dirlo al posto di “noi, del sindacato” chiede ascolto. Non intende la stessa realtà, ma quella in cui la differenza femminile è presente e si fa parlante, che fa sì che il sindacato non sia più lo stesso. Non più quella realtà tutta contenibile nella sola rappresentazione maschile; quella accreditata da coloro che l’hanno pensato e fatto nascere o che continuamente la ripropongono. Per tanti motivi: per convinzione, bisogno di sicurezza, pigrizia mentale o per ostilità verso la differenza femminile, sentita come minaccia, ecc. Non basta considerare, cosa ovvia, che la realtà sindacale non sia monolitica, immobile e sempre uguale nel tempo. Chiede di più. A chi sa della differenza sessuale e ne fa una lente per orientarsi, chiede di più. Altrimenti si resta nella posizione di quel gattino che si mordeva la coda. La favola, ascoltata non so in quale occasione, ma mai dimenticata, racconta di un gattino che passava intere giornate a rincorrersi la coda, girando su sé stesso, fino a quando, spossato, si accasciava a terra per poi riprendere non appena guadagnate le forze. Mentre il gattino era così preso, un altro gatto, un gattone più vecchio e saggio, sopraggiungeva e, dopo averlo osservato a lungo, spazientito, chiedeva: “Perché continui a rincorrerti la coda”? “Perché mi hanno detto che nella coda sta la felicità. Voglio prenderla!” fu la risposta. Nel sentirla il gattone aveva sorriso e ripreso la sua strada
senza mancare di replicare: “Dai retta a chi ne ha viste tante, anziché girare a tondo, vai avanti e la coda – la felicità – ti seguirà sempre.”

Chissà se il gattino della favola ha seguito l’indicazione, mi piace pensare di sì. L’immagine che seguiva, da piccola, ripensandoci, era quella di un gatto che rincorreva le farfalle, non le acchiappava, ma in quei salti, come le farfalle, mi pareva toccasse la felicità del liberarsi in volo. Si tratta di andare avanti, di sapere la necessità di avanzare. Non che sia facile, più a dirsi che a farsi. Comprendere che la realtà sì è modificata è cosa ovvia e sotto gli occhi; renderne parlante la modificazione tanto da farne punto di partenza da cui si orientano i comportamenti, è cosa ben più
complicata. Non risparmia da sofferenze e conflitti. Forse aiuta pensare che le parole, come i significati da cui attingono o che generano, vengono da esseri umani. Mettersi fra questi, parlare ed ascoltare nella tensione a cogliere ciò che si fa palpitante, che è vivo e chiede di essere visto e detto, di essere rilanciato. Come il rifiuto di un “Voi”. Perché una nuova civiltà più rispettosa dell’umanità che siamo, come per incanto, possa prendere il sopravvento.

Chissà che, con questa tensione, l’opera irriducibile della libertà femminile, costretta a far capolino qua e là, come il sole costretto da nuvole inquinanti, possa arrivare in tutta la sua dirompenza ed energia. Per restare vive e parlanti. Per restare vivi e parziali.

[1]              Autrice di No Logo e, più recente, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri.

 

[2]              La bella addormentata fa il turno di notte.

[3]              Dall’intervista dopo il matrimonio con John Elkann, Vicepresidente della Fiat, di Claudio Sabelli Fioretti, pubblicata su Magazine.

 

[4]              Dall’articolo Joni Mitchell – La vita riparte a sessant’anni di Giuseppe Videtti, La Repubblica, 30.12.2007.

[5]              Da la Repubblica, 31.12.2007 di Rodolfo di Giammarco. Giovanna Marinelli neo direttrice del Teatro di Roma; 5 anni di direzione dell’Eti e 6 di conduzione del Dipartimento Cultura del Comune di Roma.

[6]              Luce Irigaray, Oltre i propri confini. Parole sulla differenza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.

 

[7]              Marina Terragni, Pescara 30.11.2007. Iniziativa promossa da Chiara Eusebio presso la Camera del Lavoro. Presentazione di Maria Bucci del libro La scomparsa delle donne, Mondatori, Milano 2007