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per amore del mondo Numero 15 - 2017/2018

La rivolta linguistica (Grande Seminario 2017)

Parla come mangi

  1. I linguaggi burocratici

 

Parto dal titolo, che è un detto comune, popolare, non privo di una certa sfumatura di volgarità che io non disprezzo. Per me, questo detto significa che occorre farsi capire, stare nella semplicità del linguaggio che tutti parliamo. Allude a una lingua buona come il pane, il più semplice dei cibi, una lingua che ha sapore e che nutre e che si nutre a sua volta della creatività degli esseri parlanti. Potrei dire che il “parla come mangi” allude alle risorse nutritive della lingua materna, ma preferisco affermare, come dice Luisa Muraro in Lo splendore di avere un linguaggio, che quello che manca a noi oggi è il linguaggio necessario, un linguaggio che già da tempo abbiamo perduto e che stiamo perdendo sempre di più.[1]

Per me, il linguaggio necessario, che era in origine il dialetto che parlavo con mia madre e in famiglia, si era già perduto con l’apprendimento dell’italiano a scuola, un italiano insegnato da maestre animate da sentimenti risorgimentali e che disprezzavano vagamente il dialetto anziché fare da ponte fra esso e l’italiano scolastico. Tuttavia, ancora prima e anche dopo, la lingua necessaria si era persa con l’omologazione del linguaggio televisivo, con i mass media e con la rivoluzione tecnologica, e soprattutto con l’afasia e il linguaggio ripetitivo e vuoto di fronte a tanti fatti e drammi della nostra contemporaneità. Uno degli ultimi segni della perdita del linguaggio necessario è per esempio l’eufemismo “violenza di genere” per significare la violenza di uomini su donne: con l’espressione “violenza di genere” si passa al neutro e il linguaggio non afferra più la realtà. Molte parole del linguaggio oggi più diffuso nascondono la realtà, la occultano. Come ha scritto recentemente Ida Dominijanni, insorgendo contro questi eufemismi linguistici, uno stupro è uno stupro e una lapidazione è una lapidazione.[2] Pane al pane.

Perché evoco questo detto popolare “parla come mangi”? Perché la lingua che tutti comunemente parliamo, in fondo nemmeno la lingua necessaria ma semplicemente la lingua corrente oggi è ampiamente tradita, travisata, portata all’insensatezza soprattutto dai linguaggi burocratici che imperversano in ogni ambito.

Parlerò soprattutto dell’università, che è la realtà che conosco meglio, ma non solo di quella. Parto da un nodo di sofferenza che per me sta diventando veramente intollerabile: l’imperversare dei linguaggi burocratici e il moltiplicarsi di acronimi spesso incomprensibili nella vita quotidiana dell’università, il tutto per lo più per via informatica. Questo o qualcosa di molto simile è accaduto già da tempo nella scuola di ogni ordine e grado – una tendenza da cui forse solo le maestre elementari, che hanno a che fare con le creature piccole, sono riuscite almeno in parte a salvarsi, come attesta il film “L’amore che non scordo”.[3] Questo processo che ora appare irreversibile è stato anche in parte contrastato dall’autoriforma della scuola[4] e, a suo tempo, dall’autoriforma dell’università.[5] Però, da allora sono passati molti anni e le cose sono veramente cambiate, in modo radicale.

Per collocare il cambiamento in corso, possiamo dire in generale che questo sia il frutto italiano di un processo di adeguamento europeo iniziato con il processo di Bologna (1999) e con l’agenda di Lisbona (2000), che hanno proposto di fare delle università delle imprese gestite in modo manageriale, secondo i principi concorrenziali del neoliberismo. In Italia, dell’applicazione di questi principi si è fatta carico soprattutto la riforma Gelmini del 2010: io con molti altri, docenti e studenti, l’avevo fieramente combattuta, in un movimento politico ben consapevole di quello che stava avanzando, ma siamo stati sconfitti; e i risultati si sono visti, più che al momento di approvazione della legge, la quale è stata comunque approvata in un Parlamento asserragliato e sordo alle proteste di quasi tutte le università, gli effetti, dicevo, si sono sentiti non subito, ma man mano che venivano messe in atto le circolari applicative destinate a dare consistenza a quel disegno di fondo: fare delle università delle aziende in concorrenza fra loro e mettere i docenti stessi in competizione gli uni con gli altri, fare degli studenti dei clienti chiamati a valutare anonimamente i docenti stessi e il loro insegnamento, con una perdita secca di autorità di questi ultimi.

Non rimpiango l’università che c’era prima, su cui già l’autoriforma dell’università si era pronunciata in modo molto critico, cercando però al tempo stesso di salvare e di promuovere le buone pratiche che comunque c’erano e di dare loro visibilità. Non rimpiango l’università delle gerarchie, delle clientele, della cooptazione mascherata da concorsi quasi sempre fasulli. Lo stesso meccanismo si è riproposto recentemente, con lo scandalo dei concorsi truccati a giurisprudenza all’università di Firenze – ma questa è solo la punta di un iceberg di un malcostume generalizzato, che continua tuttora, qualsiasi meccanismo concorsuale sia in vigore. In generale, quello che sta avanzando ora è, se possibile, ancora peggio di quello che accadeva un tempo: è una sorta di dittatura burocratica, che fa dei luoghi che dovrebbero essere democratici, di coinvolgimento di tutti nei processi decisionali secondo i principi della governance o dell’autogoverno, in cui ciascuno è chiamato a partecipare, fa di questi luoghi dichiarati falsamente democratici, come i Consigli di Dipartimento, delle semplici catene di trasmissione di ordini che vengono dall’alto. E’ un disegno su cui Foucault avrebbe avuto molto da dire, è la realizzazione di un Panopticon in cui il controllo dall’alto lascia tuttavia l’illusione che siano i soggetti stessi ad autogovernarsi. In più, la perdita del linguaggio necessario e anche della stessa lingua corrente è evidente nell’abuso di tecnicismi e di acronimi che impedisce a molti, a me per esempio, di comprendere le cose che, dette nel linguaggio comune, risulterebbero un po’ più semplici o quantomeno intellegibili.

Faccio qualche esempio, che parte dall’università ma che non riguarda solo quella, perché questo è un processo che investe l’intera società. Non “traduco” gli acronimi nel linguaggio comune perché voglio rendere tangibile il senso di spaesamento che mi, ci investe quotidianamente. Il Consiglio di Dipartimento deve periodicamente elaborare la SUA (o forse è la mia, la vostra, la loro?), ogni docente deve inserire i propri prodotti, preferibilmente pubblicati su riviste di fascia A, in IRIS e nel sito del MURST per essere sottoposto alla VQR (che a me fa sempre venire in mente, per reminiscenze scolastiche del liceo, SPQR, Senatus PopulusQue Romanus). C’è il CEV, da non confondere con il GEV, che è un’altra cosa. Più promettente, apparentemente, è il progetto TECO (che forse vuol dire con te, un abbraccio dell’acronimo, ma temo che non sia così). Misterioso resta invece il GAQ, che non mi fa venire in mente proprio niente. L’ANVUR ha elaborato un algoritmo per la valutazione degli Atenei e il nostro Dipartimento, grazie a questo nuovo algoritmo (perché le procedure di valutazione cambiano continuamente) risulta messo male. Pazienza. Gli organi di governo dell’Ateneo sono il CDA e il SA e i docenti si chiamano, a seconda del grado gerarchico, PO, PA, RDT di tipo A e RDT di tipo B. Poi si sono l’RD, il CDS, il CLA, ecc. ecc.

Potrei andare avanti molto a lungo, mi sono limitata agli acronimi più ricorrenti, ma mi fermo qui. Kafka, Nel Castello, aveva previsto profeticamente l’imperversare della burocrazia, ma almeno lì, pur di diniego in diniego, s’incontravano persone d’infimo rango che avrebbero dovuto mettere in contatto con i capi, anche se poi non lo facevano mai. Noi siamo andati ben oltre. Ci incontriamo non con delle persone, ma con delle sigle, degli acronimi, e quasi sempre per via informatica.

Vengo dunque a quello che è il primo effetto dell’imperversare di questi tecnicismi e acronimi: è un attacco diretto alle relazioni vive, in presenza, sempre più sostituite da contatti impersonali via mail o tramite supporto informatico. Il secondo effetto, non meno grave del primo, è la deportazione in un linguaggio che non ha più nulla a che fare con la lingua comune.

Per ciò che riguarda il primo aspetto, io mi regolo generalmente andando di persona a parlare con il personale amministrativo anche solo per cavarmela e per non trovarmi da sola come un’idiota davanti allo schermo di un computer senza sapere come trarmi d’impaccio. Ricordo un paio di episodi. Uno riguarda la domanda d’incentivazione una tantum che è stata concessa qualche anno fa ai docenti “meritevoli” (tot esami, tot tesi, ecc.). Come ha osservato Chiara Zamboni, che faceva parte di una delle commissioni valutative, la cosa grave era che stato deciso a priori che il 50% dei docenti non doveva ricevere l’incentivo, il 50% doveva essere bocciato: e se i docenti meritevoli fossero stati il 60% o il 40%? No, dovevano essere il 50%. Chiara ha poi scritto con altre e altri una lettera politica di protesta, che ha fatto circolare fra i colleghi, esprimendo il suo dissenso: questo è stato interpretato dall’organismo universitario come un elemento di sofferenza del personale, da curare, immagino, psicologicamente. Avvitamento di assurdità su assurdità.

In quella circostanza, io ho avuto un altro disagio, forse non meno grave: non capivo letteralmente come dovevo fare a estrarre dal computer i dati che mi riguardavano e così, mentre avevo diritto a due incentivazioni per due anni, ne ho avuta una sola. La prima domanda infatti l’ho sbagliata completamente ed è stata giustamente bocciata. La seconda invece l’ho fatta giusta, perché sono andata da una segretaria amministrativa che in cinque minuti mi ha tirato fuori i dati necessari e così ho avuto l’incentivazione per il secondo anno. Per fortuna l’incentivazione era una tantum, cioè, se il latino non mi tradisce, una volta soltanto: ma giuro che se dovesse uscirne un’altra analoga, non farò domanda, mi tirerò indietro fin dall’inizio. Naturalmente, sono stata riconoscente verso quella segretaria amministrativa, che ha avuto pietà di me e della mia inettitudine, e le ho regalato una pianta. Così pure a un informatico molto bravo che lavora in università e a cui ricorro ogni volta che mi si inchioda il computer o che la posta elettronica non funziona, regalo ogni tanto delle confezioni di cioccolatini. Potrei tenere una riserva di piccoli doni da elargire a questo o quel tecnico o segretaria amministrativa per riuscire a cavarmela. E a salvarmi l’anima guardando in faccia qualcuno anziché stare incastrata per ore come un’ebete davanti allo schermo di un computer.

Per ciò che riguarda il secondo effetto, quello di deportazione in tecnicismi incomprensibili e che io mi rifiuto d’imparare, mi riconosco in parte nella narrazione che Chiara Zamboni faceva, in Prima di tutto la lingua materna, di una studentessa che ambiva, come fanno spesso le donne, a ritrovare le pulsioni passive vissute insieme alla madre nell’infanzia. Questa studentessa si era trovata di fronte al compito d’imparare una serie di linguaggi specialistici: le sembrava però che questi linguaggi la alienassero da se stessa. Si sentiva costretta a imparare questi linguaggi specialistici: altrimenti sarebbe stata tagliata fuori dal rapporto col suo tempo e sarebbe stata sospinta sempre più ai margini; ma li apprendeva con risentimento.[6] Lo stesso risentimento che provo io quando vado ai Consigli di Dipartimento, dove talvolta esplodo e faccio interventi polemici o chiedo il significato degli acronimi o infine sto zitta, ammutolita dall’enormità dell’estraneità che provo. E’ il legame con la lingua materna che ci permette di attraversare i linguaggi in cui ci imbattiamo, dice Chiara Zamboni:[7] ma, di fronte a questi linguaggi burocratici, io non sento nessun legame con la lingua materna; non voglio impararli, mi rifiuto, il mio corpo e la mia mente si ribellano, accumulo solo un’aggressività omicida.

Come scrive Eva-Maria Thüne nello stesso libro, c’è una sofferenza nella propria lingua quando questa è coperta da linguaggi imparati a memoria senza legame con la propria esperienza. Tante, soprattutto donne, in questa situazione finiscono col patire un vuoto fisico e psichico. Sembra che in questi momenti una libertà possibile esista solo al di fuori della lingua oppure nella ricerca di un linguaggio diverso, come a volte si trova nell’espressione artistica.[8] Infatti, nei momenti in cui sono più arrabbiata e angosciata per l’imperversare di questi linguaggi burocratici, io mi metto a dipingere – male, ma dipingo, e la mente si svuota di VQR, ANVUR, SUA, ecc. ecc.

Vorrei riportare un piccolo esempio di resistenza a questo linguaggio. Con molti altri docenti sono stata nominata preposta (addetta) alla sicurezza in università. Bisogna dire che hanno scelto una persona sbaglia, ma loro non lo sanno. Infatti, per ben due volte io ho rischiato di dare fuoco a un’università, una volta a Padova e una a Verona – in tutti e due casi involontariamente, s’intende – ma la potenza dell’inconscio è grande. In entrambi i casi, per fortuna, non ci sono state conseguenze gravi. Comunque sia, preposta alla sicurezza in università, dopo aver perso quattro ore per superare i test informatici, io e diversi docenti siamo stati convocati per una lezione di altre quattro ore tenuta da due informatori, promotori della cosa. Questi erano pieni di buona volontà, ma, ahimè, erano convinti assertori di quei linguaggi burocratici che non sono solo io a detestare. Devo dire che quella lezione è stato uno spasso assoluto, un vero divertimento: noi docenti questi informatori li abbiamo messi alla graticola, soprattutto un collega di giurisprudenza e uno di economia ma anch’io e alcuni altri, al punto che gli informatori non vedevano l’ora di finire quella lezione così contestata. Gli informatori hanno terminato la loro lezione mezz’ora prima del previsto e hanno dato a tutti – abbiamo preteso – il 6 politico nel test finale.

Naturalmente, va detto che il problema della sicurezza sul lavoro è serissimo, non tanto in università, dove il massimo che può capitare è d’inciampare su un gradino sconnesso delle scale di sicurezza, quanto piuttosto nei cantieri e in tutti i luoghi di lavoro manuale. Secondo quanto hanno riportato recentemente i giornali, gli incidenti sul lavoro, anche mortali, in Italia sono aumentati quest’anno, parallelamente alla leggera crescita che c’è stata dell’occupazione. Ora, secondo quanto riportava “La Repubblica” del 18 settembre 2017, c’è in questo campo una farraginosità di regole, un vero e proprio caos, che definire kafkiano è ancora poco. Conta di più compilare molte carte, che rinviano a loro volta a enti diversi, piuttosto che garantire un’effettiva sicurezza, perché i controlli sono pochi. Molte norme contraddittorie fra loro, molte carte da compilare, pochi controlli (soprattutto per le piccole imprese) rendono il problema della sicurezza sul lavoro estremamente drammatico. Simone Weil ne La prima radice scriveva che occorrerebbero poche norme, semplici, non contraddittorie fra loro, per uno stato ben governato. Quanto siamo lontani da questo! Ricordo inoltre che abbiamo in Italia da qualche anno anche un Ministero per la semplificazione, il quale però finora ha prodotto più enti e organizzazioni di quelli che avrebbe dovuto semplificare.

Infine, prima di chiudere con l’imperversare dei tecnicismi, vorrei ricordare come questo dominio non riguardi solo l’università, ma l’intera società. Porto un paio di esempi che riguardano la sanità, ma potrei toccare legittimamente anche altri campi.

Diversi anni fa, un medico che mi ha visitato al pronto soccorso di Vicenza per un morso del mio povero gatto morente non solo non mi ha disinfettato il dito – prima cosa necessaria e di buon senso – ma non l’ha nemmeno guardato, perché gli avevano imposto un nuovo sistema di registrazione informatica dei casi clinici e quindi aveva tempo solo per quello, non ci stava dietro; mi ha ordinato una terapia antibiotica, sempre senza guardarmi il dito ferito e senza guardarmi neppure in faccia. Più tardi, con un po’ di buon senso, mi ha disinfettato il dito leso un amico fisioterapista, fuori dall’ospedale.

Un altro esempio: circa due anni fa, quando sono stata ricoverata in ospedale a Verona per una grave frattura a un braccio, idem, la stessa cosa. Alcune infermiere erano letteralmente isteriche per un nuovo sistema informatico di registrazione delle medicine da somministrare, per cui noi pazienti aspettavamo una buona mezz’ora prima di vederci dare l’agognato antidolorifico – e i dolori, soprattutto dopo l’intervento chirurgico, sono molto forti. Prima la procedura informatica, ci mancherebbe, poi il paziente. Ed erano delle brave infermiere, solo erano assolutamente in tilt e stressate oltre misura da queste nuove procedure.

Una mia amica medico mi dice (e molte altre testimonianze concordano con la sua) che negli ospedali pubblici è stato ridotto il tempo da dedicare a ogni paziente: di questo tempo, una gran parte se ne va per compilare questionari al computer, per cui questa mia amica sfora i tempi e risulta poco produttiva, perché giustamente vuole visitare il paziente, parlargli (sono pazienti gravissimi) e così sfora i tempi e trasgredisce le imposizioni per poter fare quello che nonostante tutto è ancora il suo lavoro, cioè avere a che fare con i pazienti e curarli.

Mi chiedo: anche noi in università potremo continuare a fare bene il nostro lavoro, cioè fare ricerca e insegnare agli studenti, o sempre più tempo ci sarà sottratto da queste procedure burocratiche e informatiche? E’ una domanda legittima, anche se naturalmente l’università è un posto privilegiato per il poco tempo “obbligato” di presenza sul luogo di lavoro.

 

  1. L’egemonia dell’inglese

 

Vorrei ora parlare dell’uso dell’inglese come lingua scientifica internazionale: nelle università europee questo si è imposto fra gli altri motivi per via degli scambi Erasmus, che permettono agli studenti di fare preziosi soggiorni di studio all’estero; questi ultimi possono così trovare i programmi dei corsi sia nella lingua del paese ospitante (per es. l’italiano) sia in inglese. Quindi, noi docenti dobbiamo tradurre tutto in inglese: i programmi per gli studenti, gli abstracts, i riassunti degli articoli, preferibilmente anche la sintesi dei testi pubblicati da sottoporre periodicamente al giudizio della VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca).

Ora, questa egemonia dell’inglese come lingua della comunità scientifica internazionale si giustifica sicuramente in molti ambiti, come la medicina, la psicologia e l’informatica, per fare solo alcuni esempi, ma non in filosofia. Per me, che pure ho studiato inglese a scuola, la filosofia parla francese (quello del pensiero della differenza sessuale alle sue origini, di Luce Irigaray per esempio, ma anche quello di Simone Weil e di Maurice Blanchot), talvolta parla tedesco (per via della grande filosofia tedesca dell’Ottocento e del Novecento), talvolta parla spagnolo (per via di Maria Zambrano e delle intense relazioni che noi di Diotima abbiamo con diverse studiose spagnole). Naturalmente, talvolta la filosofia che m’interessa parla anche in inglese: penso ad es. a Judith Butler, per fare solo un nome; ma è anche vero che, per il prestigio internazionale della cultura anglosassone, i testi in inglese più significativi vengono quasi subito tradotti in italiano.

In più, l’egemonia dell’inglese come esperanto europeo è entrata in crisi con la Brexit, con l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. E anche gli Stati Uniti, con un individuo come Trump alla guida di quel paese, non stanno poi tanto bene ultimamente dal punto di vista dell’egemonia culturale (e non solo). Forse sarebbe più sensato, anche se molto più difficile, per via del crescente sviluppo economico della Cina, tradurre i nostri programmi per gli studenti in cinese. Potrebbe essere un’idea. La butto lì come semplice provocazione.

Dico qualcosa di più sulla lingua inglese, che tra l’altro è l’unica che ho studiato a scuola, mentre le altre (francese e spagnolo soprattutto) le ho imparate passivamente leggendo in lingua originale gli scritti di Simone Weil, di Maurice Blanchot e di Maria Zambrano. L’inglese è una lingua abbastanza semplice dal punto di vista della struttura sintattica e grammaticale, ma estremamente complessa per via delle moltissime espressioni idiomatiche che essa incorpora e che produce continuamente, per cui forse solo le persone di madrelingua ne possono apprezzare tutta la ricchezza. Tuttavia, per quel po’ di inglese che ho studiato, neppure io dimentico che l’inglese è la lingua di Shakespeare, di Jane Austin, di Virginia Woolf, di Emily Dickinson e di molti altri scrittori e scrittrici che amo.

Tuttavia, l’inglese che ci viene richiesto come esperanto internazionale non è niente di tutto questo: è una lingua standard, spesso tradotta malamente con i traduttori di Google, e come tale, come ha scritto Veronika Mariaux, in quanto lingua internazionale, funzionale e neutra, implica, così come viene impiegata oggi in molti paesi europei, “un profondo sradicamento”: ha cioè l’effetto di liberarci dai legami con la nostra cultura a favore di una lingua standard “con l’intento dichiarato di omologazione di tutte le culture”.[9] A quest’osservazione, che condivido, ne aggiungerei un’altra: l’inglese, capace di inglobare moltissime espressioni idiomatiche e velocissima nelle sue trasformazioni, sembra congiurare con quell’accelerazione dei tecnicismi, con il cambiamento continuo delle procedure di cui ho parlato prima.

L’effetto di tutta quest’accelerazione, di questo cambiamento continuo, è, dal punto di vista politico, quello di farci stare fermi, ferme, immobili nell’agire insieme con altre e altri: in questo, l’egemonia dell’inglese e il dilagare dei linguaggi burocratici, anch’essi in continua modificazione, vanno a braccetto, sembrano congiurare nel rendere difficile, se non impossibile, una pausa di riflessione, una sosta, e quindi anche l’inizio di una rivolta politica. L’accelerazione neoliberista impressa all’università ma anche a tante altre parti della nostra società fa sì che non si sappia mai quale sia il momento giusto per opporsi, per agire politicamente. Le direttive si susseguono, le procedure si complicano e cambiano di continuo e richiedono sempre più competenza informatica, l’inglese standard e anch’esso in continuo mutamento imperversa, e questo movimento continuo e incessante ottiene il risultato di farci stare ferme, fermi, troppo impegnati a inseguire le nuove modalità, a capire come cavarcela. Non è possibile trovare il tempo e l’agio per riflettere e per agire politicamente. Nell’accelerazione continua, nel moto perpetuo in cui si è inserite, non si capisce mai qual è il momento in cui si può cercare di fermare la macchina. Occorre che tutto cambi perché tutto resti come prima, scriveva Tomasi di Lampedusa: questo è l’effetto dell’accelerazione continua che neoliberismo, procedure burocratiche in continuo cambiamento ed egemonia dell’inglese contribuiscono a creare. Politicamente, l’effetto è l’immobilismo più assoluto.

Da docente, resisto come posso: per es., memore dei dieci anni d’insegnamento dell’italiano nelle scuole superiori che ho fatto prima di arrivare all’università, mi ostino a insegnare un italiano decente alle studentesse e agli studenti che fanno la tesi con me. Salvo rari casi, molte e molti studenti faticano a scrivere in un italiano corretto, scorrevole, incisivo. Se ne è parlato recentemente sui giornali, con diversi interventi di intellettuali autorevoli, poi tutto è caduto nel vuoto ed è stato dimenticato. Perché mi ostino a correggere l’italiano di tesi che alla fine leggo solo io, visto che, almeno per le tesi triennali, è stata eliminata la figura del correlatore, uno sguardo terzo che era prezioso perché esterno alla coppia docente-studente? Lo faccio per me e per la studentessa. Per me perché soffro se leggo una tesi scritta male, che non riesce ad argomentare, che non sta in piedi linguisticamente (e sono così puntigliosa nel correggere l’italiano che talvolta non mi accorgo degli errori concettuali che sarebbe propriamente mio compito individuare). E lo faccio anche per la studentessa, che magari, alla fine della tesi, avrà imparato a scrivere un po’ meglio in italiano: chissà!

Un’altra forma di resistenza o meglio di scelta di fondo è il cercare di farmi capire il più possibile a lezione, facendo tesoro della pratica del partire da sé che il femminismo mi ha insegnato. Qui in verità non si tratta solo di resistenza: è l’intera scommessa di Diotima e del femminismo della differenza che è in gioco. Nell’epoca nostra, del neoliberismo e dei linguaggi tecnici e specialistici, rischia di essere messo del tutto ai margini quello che considero l’apporto più prezioso del pensiero della differenza: la capacità di mettere in parole la propria esperienza, di partire da sé per arrivare a toccare anche l’esperienza di altre, di altri. Questo richiede l’attraversamento di diversi specialismi, o meglio la contaminazione fra i vissuti, le emozioni e i saperi. L’università attuale si sta rinserrando invece negli specialisti più chiusi e autoreferenziali. Ciò che sfugge a questi schemi viene sistematicamente messo ai margini e considerato poco scientifico, mentre io credo che proprio noi di Diotima facciamo un’opera fondamentale di civiltà nel mettere in gioco noi stesse e nell’aprirci allo scambio con altro e con altri e con ciò che è fuori dall’università. Questo rientra in verità in quello che in gergo burocratico si chiama terza missione, cioè il riuscire a parlare a un ambito più vasto di quello universitario, essendo la prima missione quella strettamente scientifica e la seconda missione la trasmissione del sapere agli studenti.

Parla come mangi, ho voluto intitolare la mia relazione: non sto facendo l’elogio del parlare facile, che può rischiare talvolta un’eccessiva semplificazione. Conosco pregi e difetti del parlare facile e difficile. Personalmente, più passa il tempo, più sono convinta della scommessa di farmi capire dal maggior numero di persone possibile, anche se riconosco anche l’attrattiva del parlare difficile. Mi sembra che più donne che uomini si collochino su questa linea del parlare in modo ampiamente comprensibile. Riconosco d’altra parte che c’è anche il fascino del parlare difficile, in modo quasi incomprensibile: lì c’è un’attrattiva, perché questa è una sfida all’intelligenza. Ne è un esempio sublime Jacques Lacan. Vedo che per lo più alcuni colleghi maschi alla moda seguono il metodo del parlare difficile, quasi incomprensibile: attraggono, hanno molto ascendente sugli studenti più bravi, che sono affascinati da qualcosa che non capiscono ma che proprio per questo intuiscono che sia importante. Questo mi sembra un aspetto dell’agire della differenza sessuale in università, anche se ciò che dico non va preso in senso assoluto: pensate ad esempio come era difficile, quasi incomprensibile, un testo fondativo del pensiero della differenza sessuale come Speculum di Luce Irigaray: eppure è stato capito nel vivo di un movimento politico disposto a riconoscere autorità anche a un linguaggio arduo, impervio. La mia rivolta non è tanto conto i colleghi che parlano difficile – è una loro scelta, una loro strategia non priva di fascino –, quanto piuttosto contro l’imperversare dei linguaggi burocratici, che mi sottraggono moltissime energie, mi irritano, mi scatenano l’aggressività e mi fanno soffrire.

 

  1. La rivolta linguistica

 

Ho proposto allora, al ritiro di Diotima del giugno 2017 che ha preceduto questo seminario di Diotima, una rivolta linguistica: avevo deciso di cominciare da quest’anno a tradurre i miei programmi per gli studenti non in inglese ma in francese (lingua verso cui ho un debito a causa delle origini del pensiero della differenza sessuale). In realtà non è stato possibile, perché l’obbligo dell’inglese è tassativo, e lo è tanto più quest’anno in cui dovrebbe venire all’università di Verona un’ispezione ministeriale per controllare, fra le altre cose, se siamo in linea con le direttive europee. Allora, con Chiara Zamboni, che mi sosteneva in questa rivolta linguistica, abbiamo deciso di tradurre i programmi, oltre che in inglese, anche in un’altra lingua europea: io li ho tradotti in francese, Chiara in spagnolo. Chiara Zamboni si propone inoltre di organizzare un convegno che rifletta sull’egemonia dell’inglese in una materia come la filosofia e che rilanci la scommessa secondo cui, almeno per le lingue neolatine, ognuno parli la propria lingua e si sforzi di capire quella dell’altro, cosa assolutamente fattibile e sensata. Diciamo comunque che, a questo punto, la nostra è stata una mezza rivolta linguistica, visto che l’inglese non è stato del tutto eliminato dai nostri programmi, come io avrei voluto inizialmente.

In ogni caso, la nostra piccola rivolta linguistica è contro l’egemonia esclusiva dell’inglese standard, ma, nel mio sentire, è anche e soprattutto contro i linguaggi burocratici di cui ho parlato a lungo. Può sembrare solo un piccolo gesto di ribellione, una cosa minimale: ma questo gesto, se accompagnato dalle parole giuste per significare una rivolta più generale, rientra perfettamente in quella che il pensiero della differenza sessuale ha chiamato politica del simbolico. È un gesto simbolico, ma accompagnato dalla consapevolezza del senso della posta più grande che è in gioco. E la vera posta in gioco è che in questo periodo storico l’esperienza viva di una insegnante universitaria impegnata nel femminismo, cioè volta alla contaminazione fra vita e sapere, conta sempre meno rispetto ai linguaggi specialistici, neutri, burocratici. Come ho già accennato, veniamo messe ai margini soprattutto noi di Diotima, che abbiamo cercato di dire l’esperienza, i vissuti, le emozioni, e che per questo abbiamo dovuto contaminare fra loro saperi diversi e cercare costantemente lo scambio con il nostro sentire e con molto di ciò che è fuori dall’università.

La rivolta linguistica, questo gesto simbolico, se accompagnato dalle parole giuste, può acquistare senso anche per altre e altri. Cerco di trovare le parole giuste per dire un disagio di stare all’università che non provavo più da quando, neo-assunta nel 1988, venendo da dieci anni di insegnamento nella scuola superiore, vidi quanta ingiustizia, clientelismo, spartizione di posti, concorsi truccati c’erano lì in università (e ci sono tuttora): questo da fuori non si vedeva altrettanto chiaramente, anche se si intuiva. In quel periodo, provavo un forte disagio anche perché, dopo due anni e mezzo dalla mia assunzione con un concorso da ricercatrice, si minacciava di annullare il mio concorso e di licenziarmi, cosa che poi invece si è risolta positivamente per me anche grazie all’intervento di un legale. In quei primi anni, tenevo nell’ultimo cassetto della mia scrivania un sampietrino. Era un gesto puramente simbolico: non avevo nessuna intenzione di usarlo, serviva solo a ricordarmi che io con quell’università delle gerarchie, dei concorsi truccati o proditoriamente annullati quando non andavano come ci si aspettava, non ero d’accordo. Poi sono diventata più vecchia e il sampietrino l’ho tolto. A un certo punto mi sono un po’ adattata all’università, almeno un pochino, quel tanto che bastava per togliere il sampietrino.

Recentemente, ne ho raccolto un altro per strada e l’ho rimesso di nuovo nell’ultimo cassetto della mia scrivania.[10] Intanto è l’ultimo cassetto, quello in fondo, extrema ratio, e lì serve come fermacarte. Serve anche per piantare qualche chiodo per appendere alle pareti i quadri che dipingo. Il suo significato simbolico è quello di ricordarmi che con questa università del neoliberalismo, della concorrenza fra atenei e della competizione fra docenti, dell’egemonia dei linguaggi burocratici e dell’inglese standard, io non sono d’accordo. Lo tengo ben nascosto. Io di sampietrini non ne ho mai tirati, nemmeno nel ‘68, quando non era inconsueto farlo durante le manifestazioni, a cui ho partecipato, di fronte alle cariche della polizia. Tantomeno mi propongo di tirarne ora. E’ solo un modo simbolico per ricordarmi una rivolta che non è solo linguistica, ma è una rivolta complessiva contro i lati più deteriori del sistema università: contro i suoi tecnicismi, i suoi acronimi, il suo inglese standard, le sue competizioni fra docenti da cui io mi tiro fuori, e infine contro la cancellazione delle relazioni a favore di procedure informatiche.

Vorrei chiudere con un sogno, uno dei molti che ho fatto ultimamente riguardo all’università. In questo sogno, io sono con Chiara Zamboni e lei dice che fin da bambina, siccome a casa sua arrivava il “New York Times”, lei, insieme con suo padre, lo identificava con la statua della libertà. Poi, sempre nel sogno, io dò a Chiara una cornice per un quadro, in cui le dico che dovrebbe mettere un collage fatto di immagini e anche di testi scritti, ma soprattutto di immagini. Lei usa invece questa cornice per metterci degli articoli accatastati; non è il collage che io le avevo consigliato di fare.

Il sogno è mio, Chiara non c’entra, naturalmente. Lo interpreto così: nella prima parte, c’è il sogno o l’utopia dell’inglese non come lingua standard, funzionale, anonima, ma come immagine di libertà (la statua della libertà). Quando sono stata a New York, qualche anno fa, quando l’ho vista avvicinandomi col battello, mi sono commossa, non tanto per la statua in sé, quanto perché quella era la prima cosa che vedevano i tanti migranti in quel paese, fra cui moltissimi italiani, arrivando a Ellis Island. E ora i migranti arrivano da noi pericolosamente, a rischio della vita, attraversando il mar Mediterraneo. Finito il sogno della libertà che era legato al migrare. Certo, con l’era Trump, è finito male anche quello che era per i migranti di allora in USA il sogno della statua della libertà.

La seconda parte del sogno parla di un lavoro artistico – un collage – da fare con immagini, pezzi di testi, un lavoro creativo e liberante. Quando le ho raccontato il sogno, Chiara mi ha detto che a lei piacciono molto i collages, che questa è una forma d’arte che le è congeniale. Possiamo salvarci con l’arte, con dei collages che ricompongano i frammenti sparsi di noi stesse, o con dei dipinti? Io credo di sì: quanto più il collage o il dipinto è inutile, non funzionale, tanto più sfugge alla presa neoliberista e tanto più recupera un frammento di linguaggio necessario, che ha bisogno anche di ascolto – innanzitutto di noi stesse, e poi di altri. Forse abbiamo bisogno di un collage che tenga insieme la vita e la mente, il corpo e il pensiero. Un collage dove ci sia una contaminazione feconda fra come si è, come si vive e il modo in cui si pensa. Questa è una grande scommessa del femminismo, in particolare del pensiero della differenza, di cui ribadisco ancora una volta l’importanza.

Tuttavia, naturalmente, abbiamo bisogno soprattutto di politica, a cominciare da quella rivolta linguistica di cui ho cercato di spiegare il senso e che appartiene in pieno alla politica del simbolico. Abbiamo bisogno di politica del simbolico, di rivolta (memori di “Rivolta femminile” di Carla Lonzi) per sottrarci alla deriva neoliberista e tecnicista dell’università e per rimettere al centro il senso di noi stesse, le contaminazioni fra i nostri saperi e i nostri vissuti e il nostro dialogo con chi è fuori dall’università. Lo ripeto, anche se è poco riconosciuta attualmente dall’accademia, sempre più rinserrata nei suoi specialisti e in un’istituzionalizzazione e tecnicizzazione mortifera, questa è a mio avviso un’opera di civiltà di primaria importanza: infatti, partendo da noi stesse, noi offriamo il nostro sentire e i nostri vissuti ad altre e altri, che possono riconoscervisi o dissentire, ma possono comunque entrare in dialogo su qualcosa che, io credo, oggi non tocca solo l’università ma l’intera società e che quindi riguarda tutte e tutti noi.

[1]             Cfr. Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, “aut-aut”, n 260-261, 1994, pp. 27-40.

[2]             Cfr. Ida Dominijanni, Solo uno stupro, solo una lapidazione, “Internazionale”, 14 settembre 2017.

[3]             Cfr. il film “L’amore che non scordo. Storie di comuni maestre”, 2008.

[4]             Sull’autoriforma della scuola, cfr. Vita Cosentino (a cura di), Buone notizie dalla scuola, Pratiche, Milano 1998, e più recentemente Vita Cosentino (a cura di), Scuola. Sembra ieri, è già domani. L’autoriforma come trasformazione della vita pubblica, Moretti e Vitali, Bergamo 2016.

[5]             Cfr. AA. VV., Lettere dall’università, a cura di Luisa Muraro e Pier Aldo Rovatti, Filema, Napoli 1996.

[6]             Cfr. Chiara Zamboni, Lingua materna tra limite e apertura infinita, in AA. VV., Prima di tutto la lingua materna, a cura di Eva-Maria Thüne, Rosenberg & Sellier, Torino 1998, p. 119. Sulla lingua materna, cfr. anche AA. VV., Il cuore sacro della lingua, a cura di Chiara Zamboni, Il Poligrafo, Padova 2006.

[7]                   [7] Cfr. Zamboni, Lingua materna tra limite e apertura infinita, cit., p. 119.

[8]             Cfr. Eva-Maria Thüne, Estraneità nella madrelingua, in AA. VV., Prima di tutto la lingua materna, cit., p. 83.

[9]             Veronika Mariaux, Al di là di identità e appartenenza, in AA. VV., Prima di tutto la lingua materna, cit., p. 103.

[10]          Durante il Grande Seminario, un paio di lezioni dopo la mia, una artista mi ha regalato un prezioso manufatto prodotto da lei, per sostituire il sampietrino incriminato e che aveva suscitato non poco sconcerto nel dibattito: si tratta di un grosso sasso ben levigato e preziosamente dipinto in bianco e nero con immagini di pesci che nuotano nel mare. “Questo lo puoi mettere sulla scrivania”, mi ha detto l’artista regalandomelo. Così ho fatto: ora ho un prezioso fermacarte dipinto che sta sulla scrivania; ma non ho tolto il sampietrino dall’ultimo cassetto, dove sta ben nascosto. Il gesto dell’artista: un invito a rendere pubblica la rivolta? o ad affidarmi all’arte, come anch’io avevo in parte suggerito? Non so; comunque è stato un bel gesto che ha fatto seguito alla mia lezione al Grande Seminario.