diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Dicono di noi

Note a margine di L’ombra della madre

Ripubblichiamo questa recensione al nostro libro

 

 

Questo libro è l’occasione per un esercizio di conoscenza dell’alterità: alterità di genere in primo luogo; ma, subito dietro, l’alterità di ciò di cui il femminile e il materno sono rappresentanti nel mondo degli umani.

C’è una asimmetria, forse, tra la conoscenza del virile da parte del femminile, e quella del femminile da parte del virile. E’ vero che figlio e figlia – uomo e donna – nascono nello stesso modo da corpo di donna, e di questa hanno entrambi una conoscenza carnale, non simbolizzata. In seguito, però, in questo mondo, la donna può conoscere questo maschile dispiegato, espresso attraverso tutta la storia del patriarcato e delle sue manifestazioni, ampiamente simbolizzato: il mondo così come è nella produzione, nella politica, nell’arte, nel pensiero. Può anche conoscere ciò che questo ordine ha fatto e fa del femminile: compagne, madri, ma anche mogli sottomesse, manager, puttane, soggetti e oggetti di piacere, di moda e di consumo.

L’uomo non ha invece una uguale opportunità di conoscere il femminile dispiegato, nella sua realizzazione concreta, pur sempre prodotto di una specifica storia. Esso resta in gran parte segreto: nel suo esprimersi, in questo mondo, deve infatti guardarsi da ciò che già si è organizzato per non correre il rischio di repressione, alienazione, formattazione indotta. Il fatto che per molti uomini non sia interessante ciò che una donna è, e che preferiscano alla fatica della scoperta coprirla con stereotipi, proiezioni e desideri, insieme la nega e la protegge dall’essere presa nel discorso dominante; consentendole forse di conservare, e praticare, una parola altra.

Quando è costretto a mostrarsi, a entrare nel discorso maschile, il femminile che insiste nella sua diversità deve scontrarsi o ritrarsi: come fanno altre forme del vivente, se osservate troppo da vicino o con attenzione equivoca.

La parola femminile accetta di essere ambigua: è quella della Pizia e della Sfinge. Quella maschile invece si vuole definitoria e univoca. Vuole portare, per sempre, luce[1]; ma questa luce fissa genera un’ombra densa, che la accompagna specularmente, con la quale prima o poi, se vuole davvero sapersi, deve fare i conti.

Della specificità della parola femminile vi sono esempi già nella Prefazione: “il senso libero dell’autorità” quasi un ossimoro, introduce la riflessione su autorità e autorevolezza; qualcosa “va a male tra le donne”, riferendosi alle crisi della relazione tra loro (e questo “qualcosa”, posto tra l’una e l’altra, è come una personalizzazione di Eros) mentre la parola corrente direbbe “va a finir male” indicando così la dimensione progettuale, di alleanza operativa, che segna piuttosto le relazioni maschili; o quando la parola è considerata sorgente di “godimento”, invece che di efficacia in quanto arma, utensile, sgorbia che delinea la cosa.

Questo libro è quindi intanto occasione per avvicinarsi a una alterità, quella di genere, che dopo essersi chiusa nella fase separatista del femminismo per trovare dove mettere piede, si sente oggi sufficientemente forte per potersi aprire al dialogo col diverso, dimostrandosi capace di evitare le trappole della contaminazione non voluta, della mimesi indotta dallo slivellamento del potere, della clausura autovalorizzante e narcisistica.

Dei dodici saggi contenuti in questo libro, mi riferisco qui, citando alcuni nodi tematici, solo a pochi, quelli soprattutto vicini ai temi che in questo momento mi interessano; la scelta dunque, del tutto soggettiva, non ha a che fare con la qualità e la densità degli scritti.

 

 

Vincoli, scioglimenti.

 

C’è qualcosa di specifico nella storia della relazione figlia/madre, rispetto a quella figlio/madre. Il ricatto affettivo che sfrutta la dipendenza del bambino condizionando l’accoglimento amoroso, l’accudimento e quindi la sopravvivenza, all’obbedienza del figlio/a alle aspettative materne (e, per altro verso, paterne) viaggia, quando si tratti di una figlia, insieme alla proposta/prescrizione di modelli identitari; con rischio di alienazione, svuotamento ed edificazione di un falso sé.

 

…diversamente da ciò che accade nel bambino, nella bambina, per la quale il primo oggetto d’amore è dello stesso sesso, il modellarsi delle regole interne che riguardano ciò che è lecito e ciò che non lo è, così come il modellarsi di ciò che costituisce l’ideale di riuscita, di realizzazione (quindi quell’insieme di regole e di aspirazioni che sostanziano il funzionamento della dimensione psichica definita super-io/ideale dell’io) avviene in rapporto alla minaccia di perdita dell’amore o addirittura della sopravvivenza della relazione. (Faccincani Gorreri C. 2007 “Paradossi del materno”, in Diotima op. cit., pp 5-16, p. 6)

 

La relazione tra figlia e madre, inoltre, porta con sé di necessità un campo quanto meno trigenerazionale. Nella figlia, cioè, si manifestano, criptati e attualizzati, contenuti inconsci della madre in rapporto alla propria madre. Ogni figlio è portatore di una istanza riparatrice, è cioè una occasione per suturare una ferita di cui il lignaggio o la psiche collettiva soffre; è incaricato di saldare il debito di cui la coppia parentale è portatrice rispetto al vivente[2]. Altrove ho accennato all’importanza del mandato di cui ogni neonato, e neonata, è portatore e di come, a volte, questo mandato possa essere nefasto, irrealizzabile, o troppo debole; e di come spesso tocchi ai figli maschi essere gli eroi della madre, investiti del riscatto della sua miseria[3]. Tale investimento costituisce un motore potente di continuità culturale, un fattore principale di quella antropopoiesi, funzione generale delle culture, destinata a costruire umani specifici. Il mandato di cui il neonato è portatore comprende infatti anche una componente di gruppo, che affida alle nuove generazioni il compito di salvaguardare, e sviluppare, la propria diversità nel quadro più generale della sperimentazione del vivente.

Nel caso della catena trigenerazionale femminile (che comprende la generazione della nonna, della madre e della figlia, anche se a volte le rappresentanti delle tre generazioni in questione non sono quelle biologiche) opera però qualcosa di specifico.

 

… il residuo psichico non elaborato, rimasto impermeabile, non modificato dalle diverse relazioni, comprese quelle con il maschile, passa in questo stato grezzo dall’una all’altra (di madre in figlia) fino a quando produce una ferita manifesta, fino a quando incontra una disponibilità a vivere la ferita, una disponibilità a scongelarla, aprendone la crisi. (ibidem)

 

Vi è un limite, qui, tra situazioni che consentono esistenze “normali” e altre che determinano una sofferenza eccessiva che rischia di intralciare, o intralcia, lo svolgimento, l’evoluzione della peripezia della figlia. In linea generale questa è chiamata a svolgere una “funzione materna retroversa”, e cioè, attualizzando il non vissuto della madre nei confronti della propria madre (la nonna) e trasformandolo attraverso il lavoro culturale e collettivo (specialistico o meno), consente alla madre di “nascere a sé stessa”, abbandonare cioè il “falso sé” che abita il vuoto di cui è portatrice, in seguito alla sua malandata esperienza figliale. Viene quindi proposto alla ripetizione il prototipo relazionale che ha caratterizzato la disavventura materna, in cerca di una soluzione che renda finalmente possibile quel nuovo nella relazione tra madre e figlia, quella “creazione relazionale” inedita e non più determinata dalle ombre gettate sul presente dai non vissuti che hanno segnato il passato.

Ma se l’ombra è troppo densa, e il non-vissuto riguarda dinamiche fondamentali, il rischio è la sua amplificazione, ormai sconnessa dal senso di ciò che la aveva determinata, fino alla follia della figlia. Quello che accade, per esempio, a figlie di “madri caotiche”, di “madri depresse” e di “madri folli” è determinato anche da ciò che comporta questa catena trigenerazionale.

 

In queste zone psichiche di annodamento oscuro tra madre e figlia, annodamento incastonato nelle generazioni femminili precedenti, più l’annodamento è intricato e vincolante, più è probabile che un prototipo relazionale vada a ripetersi e conservarsi, e il futuro finisca per essere investito più meno pesantemente come attesa delle condizioni di un ritorno di ciò che è avvenuto prima, nell’illusione di poterlo sanare. In questo annodamento tra madre e figlia può succedere così che i tempi di mescolino e può venire a mancare la possibilità di una cesura, di una differenza, di una opposizione o di un accostamento tra il tempo di un soggetto e il tempo dell’altro, il che equivale a una dimensione di assenza di storia e … di sicurezza identitaria. (idem, p. 12)

 

Si intuisce qui quella sospensione del divenire storico in seguito al precipitare della relazione in una sequenza ripetitiva, che in altri casi, quando è voluta, costruita sapientemente e indirizzata, può  portare alla ripresa del processo creativo, e quindi alla apparizione dell’ingenuo, dell’inedito.

In alcuni recenti sistemi di cura della psiche è stato proposto il superamento della concezione solo negativa della coazione a ripetere come dinamica psicopatologica. Là dove la continuità transgenerazionale è considerata un vettore realmente attivo (per esempio nella psicologia umanistica e transpersonale, o nel dispositivo delle costellazioni famigliari) la riproposta della situazione disfunzionale o patologica è vista come una richiesta, da parte della dinamica evolutiva, di affrontare una buona volta e risolvere un tema, un nodo tuttora attivo e nocivo[4].

La follia della figlia può quindi risultare sanante, se incontra le condizione idonee, nei confronti della figlia, della madre e del passato, ma può anche, in condizioni sfavorevoli, presentando il nodo, esagerarlo ed eternizzarlo. Rispetto alla imposizione da parte della madre di un falso sé e di una modalità di esistenza sentita dalla figlia come non propria, aliena, ma necessaria per la sopravvivenza (perché imposta, in fasi precoci, sotto ricatto dell’abbandono o della negazione) la follia può essere l’unico sbocco verso una esistenza non prevista, che contenga un margine di creazione, sia pure non integrata e ammansita. In questi casi, il discorso della figlia può finire per risultare totalmente incomprensibile nella situazione in cui avviene.

A questa sospensione del divenire, può rispondere l’intervento del terapeuta, rivolto prima di tutto a produrre, tra figlia e madre, una cesura introducendo la temporalità (“non siete nate insieme”) come elemento curante e antifusionale.

 

Il male materno è custodito e sequestrato come in una enclave all’interno della figlia e lì si confonde con quello proprio della figlia, con quello che la figlia ha bisogno di incontrare per incarnarsi in sé e liberarsi della falsa identità, funzionale alla relazione con la madre. … E’ dalla crisi dunque che il percorso di analisi può cominciare come percorso di incarnazione in sé attraverso una rifondazione del tempo e della storia, separando, in una sorta di microchirurgia degli affetti e delle identità, la sostanza psichica della figlia da quella della madre, anche attraverso la separazione del tempo della madre da quello della figlia, attraverso la rinuncia a  eliminare la lacuna, attraverso la rinuncia a una onnipotenza del materno tanto più ricercata quanto più il materno è lacunoso.  (idem, pp. 15-16)

 

Rinunciando alla presunzione di un materno onnipotente, le protagoniste di simili vicende possono finire per accettare che non tutto è sanabile, e che ci sono dei lutti (di sé) che occorre integrare ed elaborare in quanto tali.

 

 

Dipendenza e sopraffazione

 

Il discorso delle donne di Diotima è possibile, sostengono, dopo due mosse: la sottrazione della figura della madre all’immaginario maschile e la sua interrogazione a partire dall’esperienza vissuta dalle donne; e l’invenzione di pratiche che valorizzano nel magma della contiguità con la madre elementi simbolizzabili.

 

La prossimità al materno è presente come qualcosa di ambiguo nel processo simbolico. Senza misura, senza definizione e limite: enigma irresolvibile, che sta tra la madre e la figlia e che vediamo proiettato se pure in forma diversa nei legami delle donne tra loro. (Zamboni Robotti C. 2007 “Né una né due: l’enigma di un eccesso nello spazio pubblico”, in Diotima op. cit., pp 17 – 32, p. 17)

 

Un esempio di ciò che si ritrova nel rapporto tra donne e che ha a che fare con il lato magmatico del materno, è la pratica dell’autorità femminile. Una riflessione su questo può aiutare a immaginare forme di ordine non così rigide, autoritarie e gerarchiche come quelle proposte dall’autorità patriarcale.

La relazione di autorità ha come scommessa politica quella di fare ordine in modo aperto e fluido nel contesto in cui si agisce. La sua efficacia dipende dalla elasticità: dal restare un processo senza cristallizzazioni né ripetizioni statiche. Questa pratica – come altre – è tanto più elastica quanto più si mantiene in rapporto con l’aspetto ambiguo della sua complessità. E’ la potenza materna a costituire ciò che è latente in questa pratica. Una latenza che può essere risorsa, ma che a volte può risultare minacciosa. (idem, p. 19)

 

Il materno è visto in genere nella cultura filosofica e letteraria maschile come nostalgia dell’origine: desiderio e insieme paura di fusione. Nella cultura occidentale dire “io” significa distinguersi dalla madre, e dagli altri umani vicini. Ma c’è forse una differenza tra il dire “io” al maschile e dirlo al femminile. Al femminile è più aperto, dischiuso, comporta il saper stare con l’enigma della duità. Corrisponde anche a una biologia femminile aperta nel ciclo del sangue, nell’accoglienza genitale, nell’esperienza dell’essere uno-due-uno della gravidanza e del parto. Al maschile “io” taglia con maggior nettezza, si presentifica attraverso la separazione (e difatti l’esito del patriarcato è il mondo delle separazioni) e concepisce l’assunzione della responsabilità (intesa come obbligo, e capacità, di rispondere a chi chieda conto) nell’isolamento, come si fa col Dio nelle religioni monoteiste.[5]

 

Se nel contesto della soggettività maschile l’ombra del materno è l’altro da sé rimosso, per una donna l’oscuro del legame con la madre è portato dentro di sé, perché non si è mai un’una nettamente distinta da lei. … L’identità di sé a sé è solo una crosta sottile, sotto la quale – nel silenzio – c’è ben altro. L’ “io” è un amo che pesca in un fiume in movimento. (idem, p. 25)

 

Questa constatazione porta con sé una riflessione sulla dipendenza. Il pensiero politico prevalente, e l’ideologia che lo accompagna, non pensa in termini di dipendenza reciproca, non è capace, nonostante tutto, di una consapevolezza ecologica. Sullo sfondo di questa incapacità, contraria a ogni evidenza, sta

la questione della dipendenza primaria. Nella tradizione occidentale, la salute è concepita come emancipazione assoluta dell’ “io”; e la dipendenza dalla madre, soprattutto quando psichicamente malata, possessiva e gelosa, incapace di lasciar andare e pronta a esercitare il suo potere nel ricatto relazionale (nell’ambito della accoglienza nutritiva, della disponibilità del corpo affettivo, della conferma della positiva libertà dell’altro) è sentita come dipendenza mortale. L’amore dipendente del bambino dalla madre, quando prende questa piegatura (sopravvivenza contro rinuncia alla libertà) è il prototipo dell’assoggettamento a qualsiasi istituzione che si proclami dispensatrice di sicurezza, confort, sopravvivenza.

 

Quando si parla politicamente di dipendenza reciproca viene evocato inconsapevolmente il fantasma del materno, e con esso viene scatenata la paura del nostro consegnarci all’altro come a una madre distruttiva e onnipotente. Come se dietro i patti che si possono fare con altri per il bisogno che abbiamo di loro, sorgesse quel fantasma di potere e il nostro essere inermi, cioè alla lettera senza armi, spogliati di ogni difesa. La minaccia che noi sentiamo dell’onnipotenza materna non è relegata all’infanzia. L’inconscio – e Freud l’ha tanto ripetuto – non ha tempo. Ciò che è passato è presente. La difficoltà di accettare il bisogno che abbiamo degli altri nell’agire politico e di andare a scambi con loro dipende da un fantasma arcaico che la ragionevolezza non può sconfiggere. Può solo venirne a patti attraversandolo. (idem, p. 27)

 

La maggiore scommessa che riguarda il cambiamento di paradigma qui e oggi dominante, è quindi non solo la consapevolezza ecologica, ma anche l’accettazione del fatto che siamo creature che hanno bisogno degli altri, e di conseguenza che dobbiamo conquistare la capacità di rischiare nell’affidarci, avendo ben chiare le condizioni e i limiti dell’affidamento. Di questo, in definitiva, si tratta nei diversi laboratori dell’amore. Il pensiero delle donne di Diotima si collega qui a quello di diversi gruppi ecologisti e a quelli che ritengono prioritario, in questo passaggio della storia d’Occidente, imparare a costruire e alimentare reti relazionali complesse e in continua evoluzione; sapendo che si tratta non solo di interconnessioni, ma anche di legami e dipendenze reciproche. Questa consapevolezza deve continuamente misurarsi con la sua ombra, con la paura di essere sopraffatti o sopraffare passando dal riconoscimento del potere dell’altro, per via della sua potenza, alla accettazione della relazione di dominio, di cui la relazione fondamentale con la madre malata è il primo caso, quello che funge da prototipo.

 

L’icona che, nell’Occidente cristiano, è stata posta come ideale di maternità, la madre infinitamente buona e accogliente, vergine e immacolata: Maria, è certo un forte antidoto posto a occludere l’aspetto ombra della donna madre, sia nella sua valenza guerriera e tranciante vicina al mondo maschile (Atena, figlia di solo padre), che per la sua selvaggia, scatenata volontà di potere e distruzione, tremendamente vicina a quella degli esseri “di natura” (Baccanti; ma anche divinità viventi in altre tradizioni, africane e orientali). E’ quindi in Occidente, dove la rimozione del lato ombra del femminile e del materno ne impedisce, nei fatti, l’elaborazione collettiva e il suo ammansimento, che è più difficile superare la paura della dipendenza dalla madre accettando il crinale della sua ambiguità.

 

In altri luoghi e in altre epoche, l’interdizione di chiudersi nel legame totalizzante con la madre è stato ed è oggetto di pratiche e in-formazioni collettive[6]; ma nel nostro mondo quel lavorìo intenzionato è stato risolto con un colpo di mano che ha preteso la rimozione e, una volta per tutte, il seppellimento del lato oscuro della donna madre. Occorre invece, secondo Diana Sartori Ghirardini, lavorare “con lo spirito materno”, restituire alla madre un po’ della sua ombra, non riducendola però alla doppia icona patriarcale del materno: da un lato luminosa, benefica e nutriente, dall’altro oscura, minacciosa e divorante. E’ compito delle donne, e oggi possono farlo, portare la madre “… al di là del bene e del male del patriarcato” (Sartori Ghirardini D. 2007 “Con lo spirito materno”, in Diotima, op. cit., pp. 33 – 64, p. 42). In questo lavoro, avviene alle donne figlie di infrangere l’icona materna tutta luminosa e splendente, e rendersi conto che c’è qualcosa di irreparabile “… nella relazione originaria con la madre, che è connesso alla stessa sua natura non simmetrica e non pareggiabile … Così come c’è qualcosa che non si può riparare alla madre: il negativo della sua vita, parlando della nostra madre reale, e l’offesa che la madre, simbolicamente, ha subito. C’è un torto non redimibile, cui non possiamo fare giustizia se non con la giustizia che riusciremo a portare nella nostra vita. Il salto di tigre nel passato di Benjamin, quello spinto dalla ‘lotta per il passato oppresso’ e dalla consapevolezza che ‘anche i morti non saranno al sicuro dal nemico se egli vince’ può salvare i vivi e i loro morti, ma non resuscita i morti. … L’ombra della madre, l’oscuro della relazione con la madre, torna a ricordare questa impossibilità della chisura, di chiudere il cerchio… il pozzo dove la madre ha precipitato la figlia rimane aperto, di lì torna un male che non può essere annientato, solo spostato, nemmeno la riconciliazione e il riconoscimento basta, il suo fantasma andrà attraversato. … Il ciclo riparativo infinito delle ripetizioni della storia del materno non si chiude con una ripetizione finale, forse si apre all’infinito riconoscendo proprio ciò che ha di irreparabile.” (idem, pp. 45 – 46)

La presunzione della onnipotenza sanante trova qui la sua misura, e lascia il posto alla necessaria convivenza con una ferita, o amputazione (non inevitabili, non necessarie all’ominazione come voleva S. Freud per la castrazione, ma prodotte da specifiche storie) alle quali non si può rimediare. Passaggio obbligato per uscire dal ciclo coatto in cui si trovano tante e tanti, imprigionati nel mandato di una missione impossibile che li allontana dalla propria originale vocazione.

 

Fine del patriarcato?

 

Nel 1995 le donne di “Via Dogana” annunciavano la lieta novella: la fine, in questo mondo, del patriarcato. Se è vero, si tratterebbe, come sottolinea Sartori Ghirardini, certo di una benvenuta fine: ma c’è poco da ridere. Infatti, “ … con la venuta meno del patriarcato viene meno anche il suo ordine, ma il risultato non è immediatamente un nuovo ordine, quanto piuttosto un aumento del disordine, e il ritorno di forme di regolazione, concettualizzazione, azione, emozione, più arcaiche, sempre più spesso elementari e violente…” (idem, p. 49)[7] Si assiste infatti alla “…liberazione di un immaginario patriarcale ormai non più regolato dall’ordine simbolico del padre.” Che quell’ordine debba essere sostituito da forme di ordine che si possono riportare alla “autorità materna” o da altri tipi di ordine, inediti e risultanti da una creazione collettiva, resta solo una intenzione; mentre quello che si afferma è l’ordine delle cose, che copre e fa sua ogni intenzione umana[8].

E’ dunque morto, dopo Dio, il Padre che lo rappresentava in terra; ma perché si sgombri l’orizzonte è necessario seppellire dopo di loro anche la madre patriarcale, le sue realizzazioni terrestri e le sue icone proiettate nell’iperuranio. Si tratta, secondo Sartori Ghirardini, delle “sembianze della ‘madre spettrale’, dove si confondono le vecchie paure e le nuove, le tradizionali matrifobia e idealizzazione materna e le più recenti fobie e nostalgie innescate dalla nuova libertà femminile[9]. Il tutto nel tempo di un post-patriarcato che prende le forme di un fratriarcato preso da una conflittualità sregolata ….” (idem, p. 56)

“La confusione è grande e c’è chi grida che tutto vacilla, e che si cade nel vuoto. Ma non è nel nulla che si cade perché non è dal nulla che veniamo.” (idem, p. 63) Con queste parole l’Autrice sembra evocare un ritorno salvifico a ciò da cui siamo venuti in questo mondo. Tuttavia, aggiungerei, non sempre si cade indietro, a volte si cade in avanti: e, se non veniamo dal nulla, nel nulla possiamo sempre finire se, nel frattempo, il lavoro degli umani non crea, alimenta e rende potenti le necessarie reti, i necessari limiti, appigli e legami.

 

Ciò che pretende la Dea

 

Delfina Lusiardi Sassi (2007, “Demetra e il figlio della regina”, in Diotima op. cit. pp 125 – 150) riprende, a illustrare alcuni aspetti del complesso madre-figlia, il mito di Demetra, e in particolare l’Inno a Demetra dagli Inni Omerici. Come è noto, Core-Persefone, la figlia che Demetra ha avuto dal fratello Zeus, è stata data dal padre, all’insaputa della madre, ad Ade, dio degli Inferi. Così Ade la rapisce, mentre con altre fanciulle raccoglie fiori, e la porta nel suo regno sotterraneo. Demetra, dea del grano e dell’agricoltura, artefice del ciclo delle stagioni, venuta a conoscenza dell’accaduto, affranta e irata, lascia l’Olimpo e vaga, nelle spoglie di una vecchia donna derelitta, tra le città umane, vivendo il suo lutto. Fino a che, ritrovata la sua potenza di dea, rende sterili i campi, minacciando così l’ordine delle cose. Allora Zeus scende a patti: Persefone starà per un terzo dell’anno negli Inferi, e per due terzi con la madre e gli altri immortali.

Ciò che interessa qui è l’episodio avvenuto durante la peregrinazione di Demetra-vecchia-donna sulla terra, quando, accolta dalla regina di Eleusi, Metanira, le viene affidata la cura dell’ultimo nato, Demofoonte. Pur nell’apparenza di una vecchia derelitta, Demetra lascia trasparire, a chi sa vedere, segni della sua divinità: qualcosa emana da lei che eccede la condizione umana che esibisce. Il bimbo affidato alle sue mani, per esempio, cresceva simile a un essere divino, senza succhiare latte o prendere cibo. Su questo figlio di umani a lei affidato, Demetra ha un progetto: compiere il rito che lo avrebbe reso immortale. Nel segreto della sua stanza la dea sta compiendo il rito, passando il bambino nel fuoco; ma la madre, che la spiava dalla stanza vicina, grida in preda all’angoscia. La dea allora lascia cadere Demofoonte e, furente, si manifesta in quanto dea. Esige allora un posto suo, un tempio fuori e più in alto rispetto alla città;  lì si ritira a compiere riti per offrire, agli umani sul cammino della iniziazione, e quindi disposti all’affidamento, il suo dono, capace di dominare la paura della morte; di cui la spiga recisa è, insieme, manifestazione e superamento.

Da un lato il mito mette in scena il dramma della separazione dalla madre, quando la figlia venga data, nell’ordine patriarcale, a qualcuno che la porta lontano, in questo caso addirittura nel regno delle ombre, sottraendola alla vocazione che condivideva con la donna madre, quella di vivere la gioia delle germinazioni. E propone però una soluzione, un compromesso: una parte del tempo nell’Ade, una parte con la madre e gli altri immortali. Una soluzione che consenta, quindi, di partecipare alle due qualità così diverse, senza confonderle. Dall’altro, sottolinea Lusiardi Sassi, il mito racconta la potenza della dea-madre, e le condizioni di cui essa ha bisogno, tra gli umani, per essere attiva. “In Demetra c’è una polarità di sentimenti, che sono le sue qualità d’essere, in perfetta opposizione: la gaiezza, l’allegria possono trasformarsi nella più cupa tristezza, la gentilezza può rovesciarsi in un furore terribile, in una rabbia indomabile qualora venga offesa, violentata, maltrattata, fraintesa, bloccata la sua naturale disponibilità al dono, lo spontaneo fluire della sua fecondità…” (idem, p. 141) Il potere della Dea non è su, ma è potere di trasformare, illuminare, far crescere: che si tratti del bambino Demoofonte o di chi si rivolga a lei nel tempio, per ricevere il suo insegnamento. Questo potere necessita però di condizioni che se non vengono rispettate generano il rovesciamento della fecondità in sterilità, della trasformazione positiva in distruzione. Una di queste è il rispetto del silenzio, della discrezione, della segretezza nella quale questa potenza lavora. L’altra è la fiducia, l’affidamento alla sua efficacia e intenzione: è quando Metanira, che non capisce e non si fida, la spia e lancia il grido, che Demetra si infuria, interrompe il rito e lascia cadere il bambino. Infine, quando questa potenza si manifesta, allora ha bisogno di uno spazio fuori e sopra la città degli uomini, per concentrarsi e svolgere i suoi effetti. Ciò che i Misteri Eleusini hanno insegnato a così tanti uomini e donne nell’antichità ha bisogno di questo per manifestarsi, e pretende di essere riconosciuto e non dimenticato.

In fondo, il Mito avvertiva, vari secoli prima dell’inizio dell’Era Cristiana, e qualche millennio prima dell’avvento della modernità: neppure Zeus, re dell’Olimpo, può prendere, senza conseguenze, decisioni che riguardano la Dea e ciò di cui ella è rappresentante. Altrimenti, la Signora della vita sulla terra, capace di favorire ma anche di interrompere le generazioni, precipita distruzioni e carestie tali da compromettere la sussistenza degli umani, e degli dei che essi onorano. Occorre quindi riconoscere ciò che essa vuole per poterne ammansire la terribile potenza.

[1]              “A differenza del regno dell’Aurora, quando il sole appare – l’astro unico, il poderoso, potente e decisivo -, appare con lui il suo regno, il regno del potere. Il potere che quando cessa di essere aurorale si converte in imperativo, in imperante, nell’unico. Senza curarsi di stabilire i prolegomeni, i fondamenti di questo suo regno unico; senza mai voltarsi indietro a contemplare la propria apparizione o la propria nascita. Si direbbe che il sole è, senza essere nato. (…) Solo nella penombra si annida, anche per il sole stesso, la liberazione da questo suo regno, in cui rimane, esso stesso, prigioniero del proprio potere.” (Maria Zambrano, Dell’aurora, Marietti, Genova 2000, pp 133-135)

[2]              Si pone qui il problema di come definire quell’ambiente sovraindividuale, forse intenzionato, che comprende e in parte indirizza le singole avventure del vivente. Definizione forse impossibile, visto che una parola non può definire ciò che la contiene, e che di gran lunga la sovradetermina. Un elemento di un sistema (linguistico) che sta dentro un sistema (umano) non può comprendere il sistema che contiene entrambi. Gregory Bateson (Bateson G. – M. C. Bateson 1989 Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano) usa il concetto junghiano di Creatura (in oppposizione alla componente materiale, oggetto della fisica, del mondo: Pleroma); altrove ho usato il termine di psiche, nella sua accezione omerica: forza vitale, vivente in atto, di per sé sovraindividuale.

[3]              Si veda per esempio in Coppo – Consigliere – Paravagna, 2008 Il disagio della inciviltà, forme contemporanee del dominio, Colibrì, Milano, pp. 80-89

[4]              Si veda per esempio la teoria dei Coex in Stanislav Grof, o, più in generale, il valore del sintomo in omeopatia.

[5]              La letteratura che riguarda i passaggi che in Occidente hanno inaugurato, e poi mantenuto e alimentato, la grande separazione (di cui quella tra “noi” e “loro” è un caso) è oggi ricchissima: si veda anche Isabelle Stengers in questo numero della rivista. Un contributo originale al tema è quello di A. David Napier, per il quale la pervasività, quasi l’ossessione nell’identificazione e eliminazione del non-io sarebbe rafforzata, nelle società moderne, dalla metafora immunologica (Napier A.D., 2003, The Age of Immunology: Conceiving a Future in an Alienating World, Chicago, University of Chicago Press). Pochi sono invece coloro che hanno proposto modelli epistemologici altri, con l’intenzione di superare in forze quella separazione; tra tutti, Gregory Bateson e alcuni Autori afferenti all’area etnopsichiatrica.

[6]              Si veda per esempio, nelle società tradizionali africane, la “messa a morte della famiglia” come passaggio antropopoietico (Collomb H. 1977 La mise à mort de la famille, “Psychiatrie del’enfant”, XX, I, pp 247-99). Si veda anche l’Orestea, dove il primo delitto giudicato e non condannato dal primo tribunale umano è il matricidio di Oreste. Le Erinni, che nel processo rappresentavano il diritto materno e il vincolo di sangue, sprofondano sconfitte sotto le fondamenta del supremo tribunale, a segnalare, secondo Luce  Irigaray citata da D. Sartori Ghirardini (op. cit. p. 36) il “seppellimento del femminile” che sta alla base della legge patriarcale, e l’espulsione del femminile dalla politica.

[7]              In continuità con quanto è successo in seguito all’ultima emergenza rivoluzionaria, tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in Occidente. La sconfitta di ciò che lì si andava affermando lasciò un vuoto che non fu colmato dall’inedito che si annunciava, ma da ciò che restava delle forme sociali precedenti, solo ridotte, banalizzate e imbarbarite (si veda per esempio: Coppo P. – S. Consigliere – S. Paravagna op. cit.)

[8]              A proposito delle forme contemporanee di dominio, si veda ancora Coppo – Consigliere – Paravagna, op. cit. Il divenire presente impone però a uomini e donne un “dialogo radicale” per affermare il diritto a esserci di una generica umanità nelle sue diverse declinazioni e del vivente in generale; esistenza che si basa, prima di tutto, sull’acquisizione del diritto a specificità e diversità.

[9]              Tra gli esempi riportati dalla Autrice: madri onnipotenti, intrusive, protettive, soffocanti, esigenti, assassine, impotenti, depresse, irresponsabili, madri a tutti i costi, madri che vogliono diventare madri da sole, madri sacrificali, madri dell’amore e della protezione, e così via…