diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

La passione consumante

Non si vive di solo pane, ma anche: non basta digiunare per essere anoressiche

Entrare in contatto con il mondo femminile studiato da Waltraud Pulz mi ha messo molta allegria.

Immediatamente mi è parso chiaro che poteva essere l’occasione per reinterrogare le possibili diverse posizioni del soggetto anoressico del nostro tempo, al di fuori delle categorie mediche e diagnostiche che, sole (purtroppo), cercano di opporre resistenza ad una omologazione e ad una banalizzazione per la quale digiuno, magrezza, conformità alla moda e alla dieta è uguale ad anoressia.

Fra le donne del sedicesimo secolo, di cui ci parla Waltraud Pulz nel suo libro, e le anoressiche del nostro tempo possono essere rintracciate delle analogie, ma anche una distanza abissale che le separa.

Vorrei provare a far luce su queste analogie e queste differenze, che possono risaltare proprio perché gli “ingredienti” sono gli stessi: corpo femmina/ spirito o Ideale/ visibile-invisibile/ rapporto con lo ‘spirito del tempo’/ rapporto con il sistema simbolico dominante….

Nelle storie interrogate da Waltraud il corpo femminile diventa l’icona di strategie del digiuno sostenute da moventi appassionati e appassionanti, in un arco di possibilità che vanno dall’esperienza più ispirata in senso mistico, all’esperienza dell’imbroglio deliberato per ottenere vantaggi altrimenti non ottenibili dalle donne in quel tempo, con uno spettro di possibilità di mescolamenti fra questi due estremi che costituiscono una vera e propria zona grigia.

Ci troviamo di fronte cioè ad elementi di ambiguità che sono peraltro inevitabili, dato che abbiamo a che fare con un segno; in questo caso il corpo, il corpo digiunante come segno, segno che rimanda o vorrebbe rimandare alla santità. In queste donne, fra il soggetto femminile e il suo desiderio (di eccellenza – come ha sottolineato Chiara Zamboni-) esiste in ogni caso una mediazione simbolica, pur essendo essa diversa per le ispirate, per le imbroglione e per tutti i gradienti possibili che stanno fra le ispirate e le imbroglione.

Il tratto comune di queste mediazioni simboliche è dato dal situarsi fra l’umano e il divino, in una dimensione di somiglianza, di imitazione, che non abolisce mai la differenza. La irrinunciabilità della differenza è peraltro sostenuta in modo sostanziale dal fatto che l’Imitatio Christi che contrassegna il percorso di santità non può mai essere perfetta, l’essere umano, pur nella santità non può sostituirsi a Dio, non può essere Dio.

La santa anoressia dunque, qualunque sia il suo eventuale contrassegno (grazia divina, autoconvincimento appassionato o imbroglio) appartiene ad un sistema simbolico femminile che, attraverso il percorso del digiuno, rimanda sempre a qualcos’altro, a un gradiente di somiglianza e di differenza sia sul piano dell’orizzontalità – rispetto alle altre donne e rispetto al genere maschile – , sia sul piano della verticalità – rispetto al Cristo, e Dio e uomo.

Qui il corpo delle donne, fattosi icona di santità, rimanda sempre a qualcos’altro, a qualcun altro. Ha sia la possibilità di generare simbolico, sia la possibilità di mobilizzare il simbolico dominante, correndo il rischio di chiamarlo a interrogare il corpo femminile ‘spiritualizzato’, (e come tale capace di occupare un posto anche fuori dalle cosiddette ‘leggi di natura’), per negoziare la propria posizione femminile, con la capacità, in qualche caso, di utilizzare i codici del simbolico dominante per metterlo fuori gioco. Sono soggetti femminili capaci di occupare felicemente i territori ambigui cercandovi creativamente le opportunità per trasformare la loro vita e la loro condizione.

Non a caso queste sante o finte sante mantenevano un rapporto stretto con la comunità sociale, con possibili forme di sostegno reciproco… in fondo anche la comunità poteva godere della loro eccellenza attraverso forme di identificazione e appartenenza.

Colpisce poi, nella trattazione di Waltraud Pulz, la sottolineatura sul carattere particolare di questi mondi simbolici come mondi che non sono contrassegnati da logiche binarie di aut-aut , di dualismi disgiuntivi, oppositivi, o da sillogismi del tipo se-allora. Troviamo infatti oltre al fra, il sia-sia, il così-ma anche, in ogni caso una possibilità di relazioni inclusive, di sospensioni degli opposti, di rovesciamenti paradossali (forse più evidenti nei casi di simulazione, quando le imbroglione scoperte attribuivano alla possessione diabolica la loro condizione e chiedevano di esserne liberate).

Siamo dunque di fronte a pratiche di astinenza dal cibo che nell’ampio spettro dei moventi e delle loro possibili ibridazioni, e anche nell’ambiguità fra il sacro e il demoniaco, fra il naturale e il prodigioso, fra il visibile e l’invisibile, sono comunque sostenute dal desiderio di trasformare la vita (secondo l’esempio imitato) e di affrontare l’angoscia di morte. Abitano lo spazio dell’ambiguità per arretrare rispetto a posizioni bloccate e tentare di rimettere in moto creativamente possibilità di scambi trasformativi.

Queste donne fra loro diverse ci appaiono dunque accomunate dal fatto di essere digiunatrici per passioni vitali.

 

Devo premettere, prima di passare al tempo presente, che le banalizzazioni del discorso attuale sull’anoressia, tendono a cancellare il fatto che in realtà esiste uno spettro di anoressie: in questo spettro possiamo rintracciare la vera anoressica, l’anoressica isterica, la falsa anoressica (colei che inventa l’essere anoressica). Anche ora sono possibili mescolamenti, gradienti, ma esistono differenze in questo spettro che fanno una sostanziale differenza.

Questa differenza riguarda proprio la presenza o l’assenza di mediazioni simboliche fra il soggetto e la sua realizzazione.

Un dato sostanziale riguarda la cornice di questa differenza, ossia il generale indebolimento del simbolico nella contemporaneità.

È proprio in questo che si sospende l’analogia con la santa anoressia del ‘500, vera e/o falsa che fosse.

L’anoressica del nostro tempo, quella vera, colei che occupa la posizione estrema dello spettro, è consumata da una passione ossessionante, narcotizzante, tossicomanica, che Massimo Recalcati, psicoanalista e studioso di anoressia e bulimia, riprendendo Lacan, ha definito passione del vuoto.

Qui il corpo anoressico è segno, evidenza mortifera di una vita separata dal vivente, ma anche di una morte separata dal vivente. Si tratta di un vuoto di vita e di morte, di un vuoto di inconscio, di un vuoto di desiderio, di un vuoto di mediazioni simboliche, di un vuoto di rimandi. È un vuoto che non viene fatto per qualcos’altro, non viene fatto per liberare spazio al desiderio di qualcos’altro, è un vuoto che non viene cercato per rimettere in moto il desiderio….

È con questo soggetto anoressico che c’è una effettiva discontinuità rispetto alle donne del ‘500 di cui parla Waltraud Pulz.

L’anoressica è presa in un narcisismo onnipotente che la conduce a morte nell’inconsapevolezza della morte: il corpo anoressico realizza, come segno, l’evidenza della morte, nel luogo stesso della negazione onnipotente/delirante della morte.

Si tratta di un sistema chiuso, bloccato nell’autoreferenzialità; nessuna autorità esterna è riconosciuta, nessuna trascendenza è possibile, nessuno scambio, nessun transito della morte dentro la vita e della vita dentro la morte come cifre del vivente.

Il soggetto anoressico realizza una vita saturata da dispositivi, da procedure, in nome di un Ideale totalmente astratto e disincarnato, un Ideale fissato in cui è abolito lo scarto fra immagine ideale e Ideale stesso, un Ideale assoluto, senza alcun possibile rimando, un Ideale in coincidenza assoluta con il Reale, un assoluto terra-terra fuori della realtà.

Con questo Ideale assoluto inchiodato sul Reale, l’anoressica deve coincidere e riconfermare la propria coincidenza e obbedienza in ogni istante, attraverso le prove continue di aut-aut fra mangiare e non mangiare, correre e non correre, prendere lassativi e non prenderli. Questi aut-aut non hanno nulla a che fare con una dimensione di senso che implichi dubbio, spazio di scelta, traversia vissuta: sono infatti una sorta di litania della prova provata di una obbedienza assoluta, di una comprovata conformità all’Ideale fissato assoluto, una sorta di continua certificazione di conformità realizzata attraverso la continua riconferma di una identificazione adesiva.

La cornice, dicevo prima, è quella di un generale indebolimento del simbolico. Nella nostra nuova realtà antropologica la simbolizzazione é minacciata dalla tentazione continua di intrattenere relazioni virtuali/irreali col mondo. Simbolizzare é possibile infatti se c’è una dialettica soggetto/oggetto, io/mondo, sé/altro da sé, se si accetta la realtà psichica come possibilità continuamente riaperta dalla realtà dell’inconscio. Questa dialettica tende ad annullarsi nella nostra epoca definita della informazione e della comunicazione e quindi del controllo, della totale trasparenza, di un consumo onnivoro attraverso le spiegazioni, consumo che satura lo spazio necessario perché i nuclei elementari di relazione con la realtà possano trasformarsi in esperienza.

Da tempo come psicologi, psichiatri, e psicanalisti stiamo osservando una mutazione delle forme psichiche del disagio che corrispondono ad una organizzazione della mente profondamente diversa da quella che é stata il riferimento della nostra formazione. Si tratta di sistemi di relazioni psichiche dove la presenza di istanze di onnipotenza, perfezione, riferimento ad immagini fortemente idealizzate, manipolazione del corpo vuoto d’esperienza e di relazioni con l’altro, é così massiccia, così strutturata in senso narcisistico da comportare la progressiva sparizione di una dialettica di conflitto (il conflitto prevede infatti la costituzione di una alterità interna ed esterna).

L’onnipotenza e la perfezione narcisistica hanno come rovescio l’impotenza assoluta, il crollo, per evitare i quali si può arrivare al sabotaggio, all’atto terroristico immaginario, in una dimensione di sfida narcisistica alla quale l’onnipotenza tende a rispondere con nuovo vigore.

Tendono così a realizzarsi equilibri che si muovono entro polarità opposte, senza mediazioni, senza veri conflitti, equilibri nei quali niente ha più veramente conseguenze, effetti. Ciò é di capitale importanza: l’onnipotenza non conosce e non contempla l’effetto, il limite, l’irreversibilità degli atti, la morte.

Prive di relazioni sostanziali con il vivente, vita e morte, tendono a perdere la realtà costitutiva di posta in gioco, e sembrano quasi assumere un significato di effetto collaterale nel disegno dell’onnipotenza narcisistica.

Il sistema di pratiche sociali occidentale corrispondente a questa nuova ecologia distruttiva della mente comporta uno spostamento verso la manipolazione, il controllo, l’espropriazione della esperienza della vita e soprattutto della morte.

La nostra condizione collettiva attuale, alle prese con una sovrabbondanza di merci da consumare, di segni caotici che proliferano, di riduzione del corpo a segno narcisistico che non rimanda a nulla se non a sé stesso, è così sempre più consegnata a idealizzazioni senza ideali, a pensieri senza pensare, a individualismi senza soggetti, a discorsi sull’altro senza relazioni con l’altro… fenomeni carichi di quelle perversioni del senso che appartengono alla condizione per la quale il discorso tende a sostituirsi alla realtà, occupandone il posto.

In questo contesto, il segno costituito dal corpo anoressico va al centro della questione, costituendone l’emblema. L’anoressica porta all’evidenza questa dimensione maligna, il bluff dell’impero del discorso che denega la realtà, il bluff di un rispecchiamento che non rispecchia la soggettività vivente, la violenza della denegazione del vivente, quando le questioni della vita e della morte hanno distruttivamente sciolto ogni relazione con il soggetto umano come vivente.

Questioni queste che ovviamente riguardano in modo privilegiato il corpo delle donne, e l’ anoressia, sappiamo, attiene prevalentemente, anzi quasi esclusivamente alle donne. L’anoressica per così dire realizza la forma di questo rapporto contemporaneo con la vita e con la morte. La sua denuncia purtroppo non sa essere una lotta, si perde nell’obbedienza narcisistica, nella assoluta conformità, manca all’anoressica quella forza che abbiamo visto presente nelle donne del ‘500 reinterrogate dal libro di Waltraud Pulz, la forza di produrre simbolico.

Le anoressiche ci consegnano, inconsapevoli, le realizzazioni di una sorta di memento mori, come le nature morte del ’600, le cosiddette vanitas, che oggi però non sono più legate, come in quell’epoca, alla carestia, alla fame, all’aggirarsi della peste epidemica, bensì ad una inflazione di benessere materiale, di oggetti-merce, di spinte di conformità ad immagini che asfissiano il vivere.

Attraverso il loro corpo si pongono come portatrici, tramite il rinnegamento stolto della possibile dimensione tragica del vivere, di una verità non riconosciuta e resa irriconoscibile. Ma anche noi come spettatori di questo memento mori rischiamo di non sapere cosa farcene… Esse sono quindi, così, anche il segno emblematico dei rischi della nostra impotenza, di reazioni che, anche quando non siano ridicolmente normative e controllanti (come ad esempio l’eliminazione delle taglie piccole dalle collezioni di moda), non riescono il più delle volte ad andare al di là dello sgomento per ciò che ci accade intorno, reazioni che faticano ad avere una tenuta, a divenire qualcos’altro.

Perché le nostre reazioni possano divenire qualcos’altro occorre riconoscere che qualcosa di loro, delle anoressiche, è anche in noi, qualcosa che può ricordarci il pericolo mortale per la nostra psiche di cedere sul desiderio, sul pensiero e sulla realtà dell’inconscio.