diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Professioni

Modelli e tecniche regolative della libertà religiosa nel lavoro: analisi e prospettive

* Articolo pubblicato sulla rivista Il Diritto del Mercato del Lavoro, 2006

 

 

  1. Libertà religiosa e organizzazione

La libertà religiosa non è che una delle facce della libertà soggettiva, il cui riconoscimento – al pari di altre rilevanti espressioni di questa libertà (si pensi alla libertà/diritto di procreare; libertà/diritto ad avere una famiglia; libertà/diritto a seguire il proprio orientamento sessuale) – trova espressione in una pluralità di discipline. Fra queste è certamente da annoverare anche quella lavoristica: il fattore religioso, è infatti elemento irriducibile dell’umanità di ciascuna/o, e non può certo essere annullato nella relazione negoziale di lavoro. In proposito, la legislazione del lavoro si è sviluppata secondo linee di disciplina divenute nel tempo sempre più complesse e sofisticate (v. oltre, § 2.). Del resto, esempi inerenti la materia lavoristica si possono rinvenire anche nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Si pensi alla discussione incentrata sulle c.dd. imprese di tendenza e sui licenziamenti dei dipendenti di istituzioni religiose per avere espresso opinioni o aver tenuto comportamenti incompatibili con i valori religiosi propri del loro datore di lavoro[1].

La libertà religiosa è dunque un tema che si riflette in una pluralità di rapporti giuridici, fra i quali rientrano non soltanto (e comunemente) quelli tra il cittadino e lo Stato ma, altresì, quelli che si instaurano tra privati[2]. Rispetto ai rapporti interprivati di lavoro, il problema ineludibile per l’interprete – a me pare – è quello di come salvaguardare la libertà/diritto di ciascuno di esprimere e praticare il proprio sentimento religioso nella stessa prospettiva in cui si salvaguardano altri diritti individuali e che nel loro insieme costituiscono il diritto di ciascuno alla fioritura della propria soggettività e umanità. L’assunzione di questa prospettiva nell’ambito degli assetti negoziali di lavoro – e cioè quella che riflette sul nesso tra religiosità/umanità della persona che lavora – significa, inevitabilmente, riflettere sul rapporto, e, soprattutto, sui problemi che da esso discendono, tra soggettività e lavoro in quanto strutturato dalle esigenze dell’impresa (o del “capitale”), in primis organizzative.

 

  1. Libertà religiosa e tutela antidisciminatoria.

Per introdurre utilmente il tema che ci interessa giova richiamare il significato della “libertà religiosa”: essa implica la facoltà di avere o di non avere una fede religiosa, di appartenere alla confessione che si preferisce o di non appartenere a nessuna confessione, di mutare in ogni tempo la propria fede, e infine di manifestare la propria credenza o miscredenza. La libertà religiosa comporta infatti anche la facoltà di osservare ovvero disattendere le norme di una determinata confessione e la facoltà di conformare la propria esistenza, nella sua interezza, ai precetti della confessione a cui si aderisce, ovvero a tutte quelle azioni o omissioni (rectius, comportamenti materiali) imposte ad un soggetto che siano determinate da convinzioni attinenti alla sua Weltanshauung[3].

Il diritto del lavoro, ancora di recente emanazione (v. oltre, q. §), in via di principio, impone una sostanziale indifferenza del fattore religioso rispetto a tutte le fasi che caratterizzano il rapporto di lavoro (assunzione, svolgimento e cessazione)[4]. In particolare, scopo di questo insieme di discipline è la tutela della religiosità del lavoratore, della lavoratrice, vissuta essenzialmente in interiore hominis, anziché la tutela di una religiosità che si esprime dinamicamente e, cioè, mediante comportamenti materiali, all’interno delle relazioni sociali (rectius, di lavoro). Sotto tale profilo, a venire in considerazione sono anzitutto gli articoli: 1, 8, come integrato dalle successive disposizioni a tutela della privacy (v. ora d.lgs. n. 196/2003), 15 e 16, l. n. 300/70; 43 e 44, d.lgs. 286/1998; 3, l. n. 108/1990 (e, ivi, il riferimento all’art. 4, l. n. 604/66), nonché, da ultimo, le norme di cui al d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216 attuativo nel nostro ordinamento della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 diretta a stabilire il quadro generale della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro[5].

Considerato che il quadro vigente in materia di divieto di discriminazione religiosa è destinato a mutare per effetto del d.lgs. 216/2003, pare utile ricordare come mediante la legislazione delegata – sulla base di quanto stabilito dalla direttiva 2000/78/CE – siano stati esplicitamente interdetti al datore di lavoro tutti i comportamenti di discriminazione religiosa diretta (che si configura – ai sensi dell’art. 2.1. lett. a) – allorché il dipendente o l’aspirante, in ragione della sua religione ovvero delle sue convinzioni personali sia trattato meno favorevolmente di quanto lo sarebbe stato un altro dipendente ovvero un altro aspirante in posizione analoga) e di discriminazione religiosa indiretta (che sussiste – ai sensi dell’art. 2.1. lett. b) – allorché una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio i dipendenti o gli aspiranti che professino una determinata religione o ideologia di altra natura rispetto ad altri dipendenti o aspiranti). In coerenza allo schema proprio ai divieti di discriminazione, il d.lgs. 216, poi, precisa che non costituiscono atti di discriminazione: a) le differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione ovvero alle convinzioni personali, qualora per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima (v. art. 3.3.); b) le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali, per la natura dell’attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscono requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività (v. art. 3.5.).

 

  1. Libertà religiosa e il diritto “diseguale”

 

Alla luce della suddetta legislazione antidiscriminatoria, come si accennava (v. sopra § 2.), il fattore religioso risulta, dunque, relegato alla sfera privata del singolo, della singola e come tale non in grado di incidere nella sfera pubblica della quale il lavoro è certamente una componente essenziale. Essa, più esattamente, risponde ad un modello regolativo nel quale la religiosità trova riconoscimento in quanto patrimonio esistenziale intangibile del singolo, della singola, ma non in quanto istanza che domanda di esprimersi nell’esercizio di pratiche o comportamenti concreti. Così vorrebbero i più convinti sostenitori del principio della laicità come neutralità (v. oltre, § 4), e così ugualmente vorrebbero i sostenitori di uno schema concettuale che considera la libertà religiosa una mera libertà negativa. Di conseguenza, ogni enunciato positivo che voglia significare il rapporto di ciascuno/a con la propria religione non sembra essere ammesso[6].

Questo modello regolativo non esaurisce quindi le forme di tutela ipotizzabili. In via di principio possono infatti essere previste una serie di misure valorizzanti in positivo il credo e l’appartenenza a gruppi religiosi in cui, di fatto, si articola il tessuto sociale delle (nostre) democrazie pluralistiche. Si pensi per esempio agli strumenti volti a favorire l’occupazione di soggetti appartenenti a gruppi religiosi di minoranza e/o ad incentivare mutamenti delle modalità organizzative e gestionali dei luoghi di lavoro al fine di rimuovere eventuali ostacoli che di fatto pongono i soggetti appartenenti a minoranze religiose in condizioni di svantaggio e disparità nell’accesso al lavoro[7]. Più esattamente, si tratta del modello regolativo – già ampiamente noto (e sperimentato) per tentare la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel mondo del lavoro – ascrivibile alle azioni positive[8] o al cosiddetto diritto diseguale o materiale in quanto specifica attuazione del 2° comma dell’art. 3 Cost.

Vale inoltre la pena di sottolineare come il diritto diseguale, anche in subiecta materia, operi solo in presenza del rispetto di specifici presupposti, e cioè anzitutto allorquando si è in presenza di un manifesto squilibrio sociale alla cui rimozione esse risultino preordinate. Oltre che giustificate, le azioni positive devono essere irretroattive, pena il contrasto col principio di affidamento, ovvero la compressione di diritti ed aspettative dei soggetti esclusi; i loro interventi debbono necessariamente essere graduali e ragionevoli, cioè commisurati a un equo contemperamento fra realizzazione della (futura) parità e (attuale) compressione dei diritti delle categorie non protette; infine, esse devono avere carattere provvisorio e ciò proprio perché, avendo come obiettivo il conseguimento della parità di opportunità per il gruppo socialmente svantaggiato, una volta che questa sia stata raggiunta, essere perdono la loro ragione d’essere[9].

L’utilizzo dello strumento del diritto diseguale, valido in linea di principio così come ha affermato lo stesso giudice delle leggi[10], per altri versi, configurerebbe un’opzione affatto pacifica. Ciò in base all’obiezione difficilmente superabile riguardante la compatibilità delle azioni positive nell’ambito che ci interessa con il principio di laicità dello Stato italiano[11]. A tale proposito, si è notato che il principio di laicità sembra impedire che lo Stato possa operare “per la “promozione” di singole specificità emergenti tra le formazioni di minoranza all’interno del più ampio genus del fenomeno religioso, proprio perché il carattere laico dello Stato impedisce ad ogni potere di prendere parte in qualsiasi modo e per qualsiasi fine alla “competizione” tra le credenze e le confessioni. In quest’ottica sarebbe, dunque, vietata per il legislatore ogni disparità di trattamento, ogni azione di diritto diseguale: il principio di laicità sottrarrebbe infatti al medesimo “ogni apprezzamento di merito in ordine al fattore religioso e quindi la possibilità di apprestare (…) tutele discriminanti”[12].

Ecco, allora, che il principio di laicità per dispiegare appieno la sua efficacia dovrebbe comprendere l’ulteriore elemento della neutralità[13]. Come si è, autorevolmente, sostenuto, regola della società retta dal principio di laicità è infatti quella “di mai chiedere al cittadino le sue convinzioni religiose, così come mai lo Stato interverrà aiutando o ostacolando i raggruppamenti religiosi”[14]. E’ nella società, se essa lo ritiene, che si esprimono e si manifestano i caratteri del fenomeno religioso, che per sua natura, oltre che individuale è anche fenomeno collettivo, e non può ridursi in alcun modo ad una manifestazione della vita dello Stato. In questo quadro, pertanto, la via non può che essere quella di fornire alla società gli strumenti giuridici opportuni per favorire la più libera e incondizionata espressione del fattore religioso e non quella di confondersi o peggio, identificarsi con esso[15].

 

  1. (segue). La retorica del principio di laicità come neutralità.

Per vero, è questo un modello di Stato difficile da riscontrare in Europa[16]. Prova ne è il vivace dibattito generato dalla redazione della Costituzione Europea sulle tradizioni giudaico-cristiane o, più semplicemente, sulle “radici cristiane” europee[17]. Per quanto poi concerne il nostro Paese gli esempi dai quali è possibile evincere il mantenimento della sovrapposizione tra sfera religiosa e Stato non sono affatto pochi, sia nella recente legislazione sia in giurisprudenza.

Sul piano legislativo, è sufficiente considerare la recente l. n. 40/2004 recante norme in materia di fecondazione assistita nella quale, già a partire dall’articolo di esordio[18], è senz’altro rintracciabile una palese violazione del principio di laicità[19]. Peraltro, analoghe conclusioni devono essere tratte in relazione alla annosa questione dell’esposizione del Crocefisso in luoghi come le scuole statali, i Tribunali o i seggi elettorali. Ne sono un chiaro esempio le celebri sentenze n. 1150 del 2005 del TAR Veneto[20] e n. 556 del 2006 del Consiglio di Stato[21], nonché altre pronunce espresse in diversi Tribunali civili[22], le quali, nel tentativo di assicurare una giustificazione giuridica rispetto a pronunciamenti assai discutibili sotto il profilo del principio di laicità, si sono addirittura avventurate in vere e proprie labirintiche ricostruzioni dal punto di vista filosofico-culturale[23] o, più semplicemente, si sono basate su mere argomentazioni di carattere statistico[24].

Rispetto alla materia lavoristica a venire in considerazione è, poi, proprio il d.lgs. 216/2003 che, come si è già ricordato, ha tradotto nell’ordinamento italiano la normativa comunitaria sul divieto di discriminazione sul luogo di lavoro, fornendo una disciplina dettagliata in ordine all’elemento religioso (v. sopra § 2.). In proposito, è sufficiente analizzare l’art. 3, comma 5, la cui formulazione, oltre a forzare i limiti descritti dalla speculare direttiva europea a svantaggio della parte lavoratrice – e cioè nella misura in cui esso sembra avere escluso dai trattamenti differenziati idonei a configurare l’ipotesi della discriminazione gli atti di culto ed i comportamenti (lavorativi ed extralavorativi) direttamente riferibili all’osservanza (o all’inosservanza) di un precetto o comportamento, imposti dal credo di ciascuno/a, anche nel caso in cui tali comportamenti siano nei fatti inidonei a ripercuotersi sul corretto adempimento della prestazione[25] – sarebbe in insanabile contrasto con il detto principio di laicità dello Stato (v. sopra § 5.). Come si è, giustamente, rilevato risulta infatti da escludere che un’istituzione pubblica, la quale, come si è già ricordato (v. sopra § 5.), per sua natura non può essere rappresentativa di alcuni interessi di parte, possa manifestare, per tutte o per alcune delle proprie attività, una specifica identità ideologica o religiosa, che giustifichi la particolare rilevanza delle caratteristiche soggettive del lavoratore ai fini di un’eventuale disparità di trattamento[26]. Per la stessa dottrina, infatti, “un’ipotetica qualificazione di tendenza di un ente pubblico sarebbe in contrasto da un lato con quella “distinzione di ordini distinti” che “caratterizzando nell’essenziale” la laicità dello Stato, impedisce l’identificazione da parte di un soggetto pubblico con qualsivoglia orientamento ideologico o religioso determinato, in quanto la rappresentazione di simili interessi è riservata all’ordine spirituale; dall’altro essa costituirebbe un vulnus per il principio di imparzialità della P.A. che, formalizzato dall’art. 97 Cost., comma 1, non solo àncora alla stessa neutralità le attività verso l’esterno delle organizzazioni pubbliche, ma (a maggior ragione) comporta una rigorosa garanzia di uguaglianza di trattamento nei confronti del proprio personale interno”[27].

 

  1. Modelli e tecniche di tutela tra laicità e non laicità

Da quanto si è appena argomentato, risulta evidente come la  prospettiva volta ad escludere la legittimità delle azioni positive sulla base di un presunto pericolo di derive anti-laiche sia del tutto fuorviante. Ciò non solo perché v’è veramente da chiedersi se questi caratteri della laicità, anche rispetto alla legislazione lavoristica, “alberghino pienamente nel nostro ordinamento giuridico”[28] (v. sopra § 4.) o se essi, invece, siano “buoni solo per la strumentalizzazione politica”[29]. Ma, soprattutto, perché così ragionando, a venire oltremodo limitata è la possibilità stessa  di individuare modelli e tecniche di regolazione cui si può utilmente ricorrere quando è in gioco il bisogno di religiosità del singolo, della singola, fatto anche di pratiche religiose nel lavoro. Detto in altri termini, il problema semmai è: come garantire l’espressione della soggettività nel lavoro – anche nella materia che ci interessa – in positivo (v. sopra § 2.). Ciò in ragione del fatto che al concetto di libertà religiosa inerisce non soltanto l’essere, ma anche l’agire ‘il proprio sé’ nel lavoro. Da ciò deriva l’inevitabile sforzo interpretativo teso al bilanciamento tra libertà religiosa del lavoratore/della lavoratrice e libertà del datore di lavoro di organizzare la propria attività produttiva (v. sopra § 1.)

In realtà sono questi i problemi rispetto ai quali la riflessione giuridica ha già cercato di dare una risposta. Vale in proposito richiamare le conclusioni cui, dopo una attenta disamina del quadro normativo in tema di libertà religiosa nel rapporto di lavoro, è giunta la dottrina lavoristica[30]. Quanto ai modelli di tutela, è anzitutto da osservare come essa propenda per una svalorizzazione o per un’interpretazione debole della legislazione antidiscriminatoria (v. sopra § 2.). Ciò, in ultima analisi, sul presupposto della sostanziale irrilevanza del fattore religioso del rapporto di lavoro come motivo di specifico conflitto. Le vere situazioni di conflitto e di svantaggio, secondo questa stessa dottrina, semmai, riguarderebbero la razza e l’origine etnica, il sesso, mentre il credo professato non costituirebbe nel panorama sociale (ed europeo) un fattore meritevole di protezione[31]. Alla luce di queste considerazioni, ecco, allora, che fuori dal modello debole fornito dalla legislazione antidiscriminatoria, l’unica concreta possibilità di attribuire una specifica rilevanza in positivo del fattore religioso all’interno del rapporto di lavoro, ovvero capace di tenere esente il lavoratore dai costi (sociali ed economici) derivanti dalla sua appartenenza religiosa, sarebbe rappresentata dalla fonte negoziale e, più esattamente, dalla regola posta in essere tra Stato e Confessioni religiose e dalla contrattazione collettiva[32]. Si ricorda, infatti, come, ai sensi dell’art. 8 Cost., siano stati introdotti, tramite Intese con diverse Confessioni, regimi particolari in materia di riposo settimanale – così, per quanto concerne il riconoscimento ad avventisti ed ebrei del diritto ad osservare il riposo sabbatico e limitatamente agli ebrei il diritto al riposo festivo[33] -, nonché in materia di festività – così per quanto concerne i buddisti[34] e i testimoni di Geova[35]. Merita in particolare sottolineare come, nonostante la sempre crescente presenza di lavoratori di fede mussulmana, nel nostro Paese manchi, ad oggi, un’Intesa. Rispetto all’autonomia collettiva, sono, invece, osservabili quegli accordi – soprattutto di livello aziendale e territoriale – che, sviluppatisi in relazione alle problematiche poste dall’immigrazione, adeguano le regole applicabili al rapporto di lavoro in ragione del fattore religioso. Così, per quanto concerne, la materia dei congedi matrimoniali in caso di poligamia[36], l’orario di lavoro e il godimento delle festività[37].

 

  1. L’intraspecularità dei modelli regolativi e il pericolo di derive “assolutistiche formali e materiali”: spunti conclusivi

Criticate in vario modo[38], queste tesi paiono invece condivisibili soprattutto laddove esse sottolineano l’inadeguatezza della disciplina legale, implicitamente invitando ad un ripensamento della stessa fonte eteronoma in rapporto al fattore religioso. Una riflessione che dovrebbe partire da quelle che considero le sue più pericolose derive, tanto più evidenti quanto più sono in gioco le espressioni della soggettività nel lavoro e, con esse, le potenzialità trasformative rispetto alla tradizionale concezione dell’organizzazione del lavoro nell’impresa. Derive che, in ultima analisi, attengano al paradigma concettuale dell’uguaglianza, retrostante non solo al modello regolativo delle mere liceità ma anche a quello della legislazione promozionale[39], e che, nel primo caso, potremmo definire, “assolutistiche di tipo formale”; nel secondo caso, “assolutistiche di tipo materiale”[40].

E, infatti, se il modello della legislazione antidiscriminatoria implica l’impossibilità del singolo/della singola di significare in positivo il rapporto che ha con la religione nel lavoro (fino a “morire” nell’anomia di casi), a tutto vantaggio delle ragioni dell’impresa, in specie organizzative e – quindi – produttive; nell’altro modello il pericolo di derive assolutistiche consiste, invece, nel determinarsi di un incremento potenzialmente indefinito di richieste di riconoscimento o di valorizzazione, ovvero tutte le volte in cui le componenti (minoritarie) della società multietnica e multireligiosa lo esigono, fino a giungere alla – possibile – implosione delle ragioni dell’impresa.

In realtà sono questi i principali aspetti problematici retrostanti ai modelli legali intraspeculari al principio di uguaglianza, sui quali il pensiero – filosofico e politico – ragiona da tempo. Una riflessione che, come si è giustamente ricordato, è chiaramente debitrice del pensiero della differenza sessuale[41].

Merito di questo pensiero[42] è, fra l’altro, quello di aver tenuto una posizione che sottrae importanza alla potenza mediatrice della legge e, quindi, della regola eteronoma, senza tuttavia rinunciare all’idea dei diritti fondamentali[43]. Idea cui certamente appartiene anche la libertà di religione. Non va infatti dimenticato che la nostra Carta fondamentale non si limita a considerare le manifestazioni individuali e collettive di religiosità (…), bensì le riconosce e garantisce quali estrinsecazioni fra le più elevate della dignità dell’uomo[44].

Ecco che, anche per quanto attiene l’argomento di cui si discute, l’alternativa potrebbe essere allora la seguente: che nella costruzione delle regole giuridiche si valorizzino i rapporti in contesto e le pratiche di relazione. Da qui anche il metodo che si dovrebbe programmaticamente assumere: impegnarsi per un diritto del lavoro capace di partire dai  desideri/bisogni di chi lavora in contesti specifici, dai modi di lavorare propri di ciascuno/a e corrispondenti alla propria individualità. In questo senso, il ruolo della mediazione sindacale potrebbe rilevarsi decisivo. A condizione, però, che il sindacato, anziché farsi orientare nel suo agire da preconcette logiche dicotomizzanti (ad esempio quella rappresentata dal binomio laicità/non laicità) o da rappresentazioni di tipo universalistico (sottese alla parità di trattamento e ai suoi corollari)[45], operi finalmente in una prospettiva volta a favorire l’ascolto, la conoscenza e la mediazione dei bisogni di chi lavora – compreso quello di religiosità – e le esigenze del “capitale”.

 

[1]              In proposito, è infatti da richiamare la giurisprudenza consolidata secondo cui è da ritenere legittimo il licenziamento del dipendente di un’impresa di tendenza il quale con atti e  comportamenti si ponga in contrasto con tale tendenza, cfr., a titolo esemplificativo, la sentenza dell’App. Firenze, 29.11.2000, con cui si è affermata la legittimità del licenziamento di una insegnante di religione a cui l’Ordinario diocesano aveva revocato l’idoneità in quanto in stato di gravidanza pur essendo nubile in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, p. 288, con nota di Pizzorno. Per contro, v. Cass. Civ., del 16.6.1994, n. 5832, che, invece, ha annullato il licenziamento di un insegnante di ginnastica dipendente di un  istituto religioso in quanto aveva fatto ricorso al divorzio.

[2]              G. Alpa, Laicità e diritto privato, Intervento al IV Convegno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, tenutosi nei giorni 9/10 febbraio 2006.

[3]              Cfr. V. Pacillo, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, p. 178 e, ivi, i riferimenti alla dottrina.

[4]              Cfr. P. Bellocchi, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche e diritto del lavoro, in ADL,  n. 1, 2003, p. 170 ss.

[5]              Per un generale commento della direttiva 2000/78/CE v. D. Gottardi, La nuova direttiva europea sulla parità di trattamento, in GL, n. 42, 2002, p. 12 ss.

[6]              Cfr. I. Carter, M. Ricciardi (a cura di), L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996.

[7]              V. Pacillo, Contributo allo studio …., cit., p. 143.

[8]              V. ora artt. 42 ss. del “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della l. 28 novembre 2005, n. 246 “ ex d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198.

[9]              Cfr. D. Izzi, Eguaglianza e differenza nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Novene, Napoli 2005.

[10]            Cfr. Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 109, in Giur. Cost., p. 873 ss.

[11]            Cfr. V. Pacillo, Contributo allo studio …, cit., p. 147.

[12]            Cfr. ult. op. cit. e, ivi, i riferimenti alla dottrina e alla giurisprudenza costituzionale conforme.

[13]            Cfr. C. Martinelli, La laicità come neutralità, Intervento al IV Convegno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, tenutosi nei giorni 9/10 febbraio 2006.

[14]            Cfr. C. Jemolo, Geografia della laicità in Italia, in Nuovi studi politici, III, Roma, 1987.

[15]            Cfr. C. Martinelli, La laicità come neutralità, cit.

[16]            già a partire dalla sedicente “laicissima” Francia, cfr. A. Rivera, La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità, edizioni Dedalo, Bari 2005.

[17]            Come è noto, il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa non ha ancora prodotto effetti nel diritto internazionale. Alla data del 2006 si registra infatti il rifiuto della ratifica da parte di Francia e Olanda, a seguito del voto negativo dei referendum svolti rispettivamente il 29 maggio e il 1° giugno 2005. Il mancato accoglimento della proposta di inserire il riferimento “alle radici cristiane dell’Europa” non ha, tuttavia, impedito che nell’esordio del Trattato vengano comunque richiamate “le eredità culturali, religiose, e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza, e dello Stato di diritto”, cfr. G. Marazzita, La Costituzione europea, Laterza, Bari, 2006, v. in particolare p. 47 ss.

[18]            L’art. 1 della legge cit. introduce infatti il tema della soggettività del concepito, prevedendo che la legge “assicura il diritto di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.

[19]            V. in particolare B. La Monica, Regole e corpi di donne, p. 141 ss. in AA.VV., Un’appropriazione indebita, Baldini & Castaldi, Dalai, Milano 2004, p. ss.; sul punto sia inoltre consentito rinviare a T. Vettor, Indicibile alla legge. Brevi note al documento di un gruppo di giuriste contro la legge sulla procreazione medicalmente assistita, in ivi, p. 297  ss.

[20]            In www.olir.it.

[21]            In www.lexitalia.it.

[22]            Cfr. T. civile di Bologna, Prima Sezione, ord. 24 marzo 2005; T. civile di Napoli, Decima Sezione, ord. 26 marzo 2005; T. civile dell’Aquila, ord. 31 marzo 2005 e 26 maggio 2005, tutte reperibili in www.olir.it.

[23]            V. in proposito l’ordinanza del Tribunale dell’Aquila del 31 marzo cit., secondo cui “La croce (…) oltre ad essere dotata di un particolare significato per i credenti, rappresenta l’espressione della civiltà e della cultura cristiana nella sua radice storica, come simbolo dotato di valore universale. Pertanto, sotto tale profilo, e cioè considerando il carattere culturale del crocefisso, è da escludere un contrasto tra la sua mera presenza ed il principio di laicità dello Stato”; ma v. inoltre l’ordinanza del Tribunale di Bologna cit. che ha qualificato il Crocefisso come un “non simbolo” per i non credenti e i non cristiani, “affermazione quanto meno singolare ed estremamente offensiva proprio per il Crocefisso, la cui fondamentale valenza di proposta universale di un messaggio religioso viene annichilita dal suo sconfinamento nella cerchia dei credenti, con una inaccettabile parificazione concettuale tra “simbolo di altro” e “non simbolo”, cfr. C. Martinelli, La laicità come neutralità, cit.

[24]            Cfr. ordinanza del Tribunale di Napoli, secondo cui “(…) la mera esposizione di tale simbolo, nel quale si identifica ancora oggi, sotto il profilo spirituale la larga maggioranza dei cittadini italiani, in assenza di qualsivoglia divieto normativo, costituisce la testimonianza di tale diffuso sentimento”.

[25]            Cfr. V. Pacillo, Contributo allo studio …., cit., p. 172 ss., e, ivi, i riferimenti alla dottrina. Secondo questo A., tuttavia, il d.lgs. 216/2003, non diversamente da quanto disposto dal d.lgs. 286/98 e successive modifiche e integrazioni (v. in particolare gli artt. 43 e 44, da intendersi non abrogate in forza della successiva legge delegata), vieterebbe tali comportamenti solo nella misura in cui essi si ripercuotono sul corretto adempimento della prestazione.

[26]            Cfr. J. Pasquali Cerioli, Le discriminazioni religiose nel lavoro. Riflessioni critiche, in QDPE, p. 110-111.

[27]            Cfr. ult. op. cit., p. 112 ss.

[28]            Cfr. C. Martinelli, La laicità come neutralità, cit.

[29]            Cfr. L. Muraro, L’espiazione nel dolore. L’etica perduta della compassione, in il manifesto 8/8/2006,  p. 2. Del resto, come non vedere, ad esempio, nel mancato accoglimento dell’inscrizione nella Costituzione europea delle  “radici cristiane dell’Europa” il tentativo di “raffreddare” i fondamentalismi religiosi e, dunque, non solo islamico? Per analoghe considerazioni, cfr. Scjaloia, Stato laico e pluralismo religioso, Intervento al IV Convegno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, tenutosi nei giorni 9/10 febbraio 2006.

[30]            Cfr. P. Bellocchi, Pluralismo religioso,…cit.

[31]            Cfr. ult. op. cit., spec. p. 170-181.

[32]            Cfr. ult. op. cit., spec. p. 210 ss.

[33]            Cfr. l. 8 marzo 1989 n. 101 che ha recepito l’Intesa tra la Repubblica Italiana con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane. In proposito v. Cass. civ. 16/01/2003, n. 580 e il commento di C. Morpugno, La natura del rapporto di lavoro con le Comunità ebraiche dopo l’Intesa, in RIDL, n. 3, 2003, p. 531.

[34]            Cfr. Intesa tra la Repubblica Italiana e l’Unione Buddista Italiana del 20 marzo 2000, in www.olir.it, e il commento di S. Angeletti, Brevi note di commento all’intesa con l’unione buddista italiana, in Dir. Eccl., n. 3, 2001, p. 967 ss.

[35]            Cfr. Intesa tra la Repubblica Italiana e la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova del 20 marzo 2000, in in www.olir.it.

[36]            Tema sul quale è intervenuto anche l’Inps con circ. n. 190 del 22 luglio 1992 secondo cui “(…) se il lavoratore è cittadino di stato che ammette la poligamia (…) la normativa italiana prevede la corresponsione di un solo assegno per congedo matrimoniale, salvo i casi di successivi matrimoni a seguito di morte del coniuge o divorzio”, in www.inps.it.

[37]            Cfr. G. D’Aloia, S. Leopardi, Il lavoro degli immigrati nella contrattazione collettiva e nella concertazione territoriale, in S. Leopardi, G. Mottura (a cura di), Immigrazione e sindacato, Ediesse, Roma, 2002, p. 53 ss.

[38]            V. in particolare i rilievi critici mossi da F. Amato, Il divieto di discriminazione per motivi non di genere in materia di lavoro, in RIDL, 2, p. 271 ss. Peraltro, anche la dottrina ecclesiastica ha espresso forti perplessità sulle posizioni teoriche e il “taglio” ricostruttivo dato alla materia da Bellocchi. Questa dottrina, in particolare, considera prioritario far prevalere un’interpretazione, anziché di “debolezza”, di “forza”, del diritto antidiscriminatorio di ultima generazione (v. d.lgs. 216/2003), ovvero capace di costituire una effettiva garanzia per il lavoratore / la lavoratrice alla luce delle linee guida stabilite in materia dal legislatore comunitario. “E tali linee guida appaiono inequivocabilmente dirette a cancellare – anche per ciò che attiene ai rapporti di lavoro – ogni ingiustificata distinzione, esclusione, restrizione o preferenza fondata sulla religione a prescindere da qualunque stato soggettivo del datore di lavoro”, cfr. V. Pacillo, Contributo allo studio …, cit., p. 6-7. Peraltro, questo ordine di considerazioni non riesce a superare i paradossi, le contraddizioni e soprattutto i limiti insiti nel principio di non discriminazione o al paradigma della libertà negativa (v. in particolare oltre § 6). A tali considerazioni è, semmai, da collegare un altro ordine di utilità, nella misura in cui esso invitano a pensare in termini rigorosi l’importanza di un’interpretazione adeguatrice delle norme interne rispetto a quelle stabilite in materia dal legislatore comunitario, pena il rischio, di una – surrettizia – rinuncia allo stesso divieto di discriminazione (v. § 4.).

[39]            Si è detto, infatti, che il modello legale della libertà negativa e quello del diritto diseguale sono, alla fine, modelli intraspeculari, ovvero rappresentano due facce del medesimo principio scolpito nell’art. 3 Cost. (v. sopra § 3.)

[40]            Mutuo questa definizione da F. DE VECCHI che l’ha elaborata nel corso della sua riflessione sul fondamento dei diritti umani in J. HERSCH. Cfr., di prossima pubblicazione, F. DE VECCHI, La libertà incarnata. Pratica filosofica ed etica in Jeanne Hersch, Bruno Mondadori, Milano 2007.

[41]            Cfr. M. Barbera, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, in  n. 99/100, 2003, p. 398 ss., v. in part. p. 416 ss.

[42]            Per uno studio del pensiero della differenza sessuale, sviluppato in Italia da L. Muraro, v. in particolare,  Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga edizioni, Milano, 2004.

[43]            Sia consentito rinviare a T. Vettor, Per un diritto relazionale, in B. Beccalli, C. Mertucci (a cura di), Con voci diverse. Un confronto sul pensiero di Carol Gilligan, La Tartaruga edizioni, Milano 2005, p. 125 ss.

[44]            Cfr. Pacillo, Contributo allo studio …., cit.; ma v. anche S. Bartole, Stato laico e Costituzione, Intervento al IV Convegno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, tenutosi nei giorni 9/10 febbraio 2006.

[45]            Così come, invece, esso ha fatto fin’ora. Un atteggiamento culturale che, come è stato sottolineato, sarebbe anche all’origine della scarsa produzione negoziale collettiva sui temi dell’immigrazione e, dunque, sulla questione religiosa nel lavoro, cfr. D’Aloia, S. Leopardi, Il lavoro degli immigrati nella contrattazione collettiva e nella concertazione territoriale, cit., p. 95.

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