diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 10 – 2011

Eccellenza femminile

Misura per misura

* Il testo seguente  è la versione italiana della relazione Medida por medida tenuta al convegno  La excelencia femminina al final del patriarcato,  Barcelona 7 maggio 2011, di prossima pubblicazione sulla rivista “Duoda”

 

L’espressione che ho scelto come titolo è presa dalla nota tragicommedia di Shakespeare[1] che mette in scena un regno in piena crisi di autorità: il Duca di Vienna ha lasciato il trono a un sostituto dall’animo vile e privo di ogni senso di giustizia, pronto a metterla al servizio delle proprie pulsioni sessuali, mentre l’intero mondo sembra travolto dalla sregolatezza e dalla dismisura della caduta di ogni ordine morale specie per quanto concerne il potere e il rapporto tra i sessi. E quando il Duca che si era travestito da frate per osservare di nascosto si rivela a portare il lieto fine, il suo stesso atto di riequilibrio è più simile al vizio che vorrebbe punire che alla giustizia.

Naturalmente Shakespeare allude con quel titolo alla frase evangelica nel Discorso della montagna: “con la misura con la quale misurate sarete misurati”[2].

La mia mente è andata a questo ricordo, però, ascoltando Milagros Rivera che parlando (al seminario di Diotima di quest’anno) dell’eccellenza femminile nel tempo della fine del patriarcato[3] ha suggerito che questa nuova situazione comporta un cambiamento che riguarda la misura.

La riflessione che propongo ruoterà, quindi, attorno al tema della misura, dell’eccellenza e dell’eccesso rispetto ad una misura secondo vari aspetti, ma soprattutto nella prospettiva di ciò che sta cambiando di senso e del senso nuovo che si apre. Anche se questo ha spesso l’aspetto solo di un disorientamento che può prendere la forma dell’incapacità di riconoscere cosa in realtà ci orienta, o altre volte quella della vertigine di fronte ad uno spazio aperto con cui misurarsi e dove trovare una misura inedita.

Il mondo descritto da Shakespeare per molti versi ricorda quello del presente: la sregolatezza pulsionale e sessuale nelle relazioni e nella sfera del potere che lo contraddistingue costituisce un’analogia impressionante soprattutto per me che vivo in Italia, dove tanti scandali hanno segnalato fino a che punto il venir meno del vecchio ordine impatti sul rapporto tra sesso e potere, facendo riemergere comportamenti e un immaginario che sembrerebbero simbolicamente consegnati al passato, ma che infestano come fantasmi o come morti viventi il presente..

Shakespeare sembra suggerire che la situazione di crisi e cambiamento in quella tragedia (che rispecchia quella del ‘600) poteva trovare ancora forse una risposta nella massima evangelica che indica nella “regola d’oro” della reciprocità della misura, garantita in ultima istanza dalla fede nella misura assoluta del giudizio divino. D’altra parte anche Shakespeare lasciava trapelare nello svolgersi della trama l’ambiguità di un “misura per misura” che può volgersi in un “occhio per occhio” quando nessuno guarda la trave nel proprio occhio per deplorare la pagliuzza nell’occhio altrui, e quando il lieto fine di giustizia non si affida alla misura smisurata del giudizio di Dio, ma invece sta nelle mani di un umano potere sovrano che si prende per Dio in terra.

Storicamente, contrariamente al suggerimento del bardo, non sarà  la precedente misura cristiana a imporsi da quella crisi, ma tutt’altra. Sarà piuttosto la pretesa di una misura altrettanto unica e assoluta, quella della ragione, del metodo, della scienza, della legge, della sovranità, dello stato, del mercato, insomma la misura della modernità.  Su questa mi soffermerò, dal momento che concordo con Milagros sul fatto che sia il paradigma della misura moderna dell’uguaglianza il problema con cui abbiamo soprattutto a che fare. Anche se non solamente: perché va pensato il rapporto tra questo modello e l’ordine patriarcale il cui riferimento di misura è ciò che sta cambiando.

Oggi, nel nuovo secolo e nel nuovo millennio, al passaggio che si dice portarci oltre la modernità, molti si chiedono con angoscia se la morte del patriarcato e il venir meno della misura del nome del padre, che porta a compimento la morte di Dio con cui si è aperta la crisi del ‘900, non precipiti il mondo in un disordine ancora peggiore di quello della crisi del 600 che Shakespeare rappresentava,  per il venir meno di ogni misura cui fare riferimento. Si agita lo spauracchio della caduta in una sorta di notte in cui tutte le vacche sono nere, di relativismo e insomma di una indistizione che viene qualificata come “materna”,  la quale ci lascerebbe in balia dello scatenamento delle pulsioni al godimento immediato a causa della perdita dell’orizzonte paterno che solo sapeva legare il desiderio alla legge. In Italia, ad esempio, recentemente c’è stata un’accesa discussione attorno al libro di uno psicoanalista lacaniano, Massimo Recalcati[4], che ha sostenuto la tesi della fine dell’epoca delle patologie relative al desiderio le quali si sviluppavano all’interno dell’ordine della legge di interdizione del padre che vieta il godimento della cosa materna. Caduta questa legge si aprirebbe la via alle malattie legate alla pulsionalità, non più governabili con gli strumenti abituali della psicoanalisi. Posizioni analoghe (basta pensare a Zizek[5]) con vari nomi ed etichette circolano da tempo, seminando paure che vengono legate al tramonto del padre e della sua misura e al paventato sopravvenire di una notte sotto il segno della madre, immaginata come priva di qualsiasi misura e ordine.

A dirla così, nella sua forma più brutale e senza tanti fronzoli, alle orecchie femminili questa storia suona tragicomica, fa quasi ridere, se non fosse che come si disse anni fa quando per prime si annunciò con “un filo di felicità” che il patriarcato era morto, con questa morte c’era poco da ridere[6].

Ora vediamo quanto si era nel giusto e per usare le parole di Judith Butler  (riprese anche da Luisa Muraro nel suo ultimo libro sull’eccellenza femminile[7]) sembrano esserci molti buoni motivi per disperare. Per insistere con la parola che ho preso come guida potrei dire che la misura è colma. Non tanto, però, per la denuncia della mancanza di ogni misura che viene agitata solitamente da parte maschile. Io non condivido la tonalità apocalittica di quei timori che in genere finiscono per invocare una qualche restaurazione del padre, perché non credo affatto che la crisi del suo ordine equivalga alla assoluta perdita di ogni misura, per due motivi: uno mi fa preoccupare e mi fa pensare il peggio, l’altro viceversa mi inclina ad essere più ottimista.

Il primo, quello che mi preoccupa e mi fa dire che la misura è colma, è che quella presunta perdita di ogni misura, quella descrizione che una volta si sarebbe chiamata nichilismo o si sarebbe riportata alla postmodernità (parole passate di moda) con tonalità o euforiche o nostalgiche, nasconde altre dinamiche in corso.  La più vistosa e riconosciuta è l’affermarsi della misura unica del capitalismo e del denaro nel mercato globale. E’ quello che Lacan avrebbe chiamato la vittoria del discorso del capitalista. O che potremmo dire rappresenti la definitiva migrazione dell’autorità alla razionalità scientifica ed economica, il che è a dire il trionfo più che la fine della modernità per come la si era immaginata. E ciò nella caduta dell’autorità della politica che all’inizio di quel progetto moderno si era pensato potesse imporre una misura di giustizia che temperasse la connaturata smisuratezza dei marxiani “spiriti animali” del capitalismo.

Il secondo invece, che mi fa essere più speranzosa, è la diffidenza nei confronti di queste lamentazioni nostalgiche e allarmiste per il precipitare del mondo nella mancanza di misura, e ciò perché ritengo che esse appartengano al sistema di riferimento di quella stessa misura ritenuta l’unica, quando viceversa a mio parere essa non è mai stata né l’unica né quella che sostanzialmente sola reggeva l’ordine del mondo.

C’è sì della verità nei discorsi correnti che descrivono il crollo dell’edificio dell’ordine cui eravamo abituati, ma una parte del sentimento di sgomento che vi si accompagna è dovuto proprio all’abitudine a pensare che gli elementi di quell’architettura che vediamo vacillare siano le strutture portanti, quando, per usare una immagine di Wittgenstein, sono perlopiù “finti cornicioni che non sorreggono nulla”[8]. Così anche gli appelli alla restaurazione di quell’edificio sono spesso legati ad una preoccupazione per la forma della facciata,  richieste “architettoniche” che poco hanno a che fare con la sua stabilità strutturale e che addirittura rischiano di appesantirlo ancora di più e di peggiorare la situazione. Come quando si invocano sempre nuove leggi, controlli, diritti, o il ritorno di forza dei vecchi ordinamenti statuali, o di nuovi padri che sappiano ristabilire la misura.

Insomma mi sembra che la lettura del cambiamento in corso sia viziata, strabicamente inattendibile, miope e che ciò che non viene visto, o non si vuole vedere nel dibattito corrente (e che non è stato interrogato abbastanza nemmeno da parte femminista, ma che invece va pensato) è come il processo della crisi della modernità sia intrecciato a doppio filo con la fine del patriarcato.

Se il sentimento maschile riguardo il presente tende in genere alla preoccupazione, e persino al lutto, mi pare che quello femminile sia più simile a quello di chi si sente su un crinale: tirate in direzioni divergenti da letture che sembrano opposte (stiamo andando avanti ma tutto sembra andare indietro, abbiamo fallito/abbiamo vinto) che fanno inclinare a volte sul versante di un’ardua scalata femminile che sembra non finire mai e che anzi sembra ributtarci indietro, e dall’altro su un versante che può avere l’aspetto di un abisso, ma che forse è l’abisso della libertà di  un nuovo orizzonte che si apre. E che fa intravedere uno spazio aperto che appare smisurato, dove è ancora da determinarsi quale sarà la misura di un nuovo ordine, la misura nella nostra vita singolare, di uomini e donne, e nella vita comune, forse davvero per la prima volta comune.

Qualcuna più spericolata di me invita a lanciarsi senza indugi e senza il peso di fardelli ormai inutili che intralciano un passo che dovrebbe essere agile e leggero. Io ammetto di essere più vile, o preferisco pensare più prudente, e tendo a guardarmi intorno cercando di stimare innanzitutto dove sono finita e come ci sono arrivata. In questo caso, con la nostra immagine, cercando di prendere le misure e di capire come mai è successo che la misura si è colmata.

Proverò quindi a vedere il paesaggio che ho intorno e la strada che ho alle spalle secondo la prospettiva della misura suggerita da Milagros, con la fiducia che attraverso questa prospettiva si chiarisca la questione dell’eccellenza femminile, ciò di cui c’è massimamente bisogno in questo passaggio e nello spazio aperto dove ci stiamo incamminando.

Naturalmente non pretendo di narrare una storia compiuta e procederò solamente per sommi tratti molto semplificatori.

Come già detto sono d’accordo con Milagros sul fatto che il cambiamento che il taglio del femminismo e la fine del patriarcato stanno portando investa soprattutto la concezione della misura che si è affermata nell’ambito del paradigma dell’uguaglianza tipico della modernità. E’ con questo che abbiamo primariamente a che fare in questa temperie. E’ questo modello ad essere stato un punto di riferimento essenziale, vuoi nella versione della ricerca emancipativa dell’uguaglianza, vuoi in quella del femminismo vero e proprio il quale a mio giudizio si sviluppa proprio come interruzione del progetto dell’uguaglianza. Ma il passaggio della fine del patriarcato che stiamo vivendo riguarda una storia molto più lunga della quale la vicenda moderna del progetto dell’uguaglianza è solo una fase che ha riconfigurato, ma non eliminato la storica struttura portante dei rapporti tra i sessi.

Il paradigma egualitario moderno produsse una netta torsione delle idee di misura precedenti, di quella propria del cristianesimo ma soprattutto di quella dell’età classica, introducendo nel contempo  una semplificazione e qualcosa che si rivelerà nel corso del tempo una complicazione e un paradosso per l’intersezione con la differenza sessuale.

Il mondo greco era centrato sull’idea di misura e di ciò che andava fuori dalla misura (la hybris  che a volte si traduce come arroganza, ma si direbbe meglio eccesso o dismisura) -come pure dalla virtù dell’eccellenza- e in quell’ambito si svilupparono teorie della giusta misura, penso a quella aristotelica, che mostravano una forte consapevolezza della complessità dei contesti e delle differenze individuali implicate nell’agire con misura. Era la cosiddetta “etica della virtù”: fuori dalla pretesa che fosse possibile indicare una misura univocamente valida  trovare la giusta misura significava saper scegliere di volta in volta l’azione giusta tra l’eccesso e il difetto in una circostanza, dimostrando una virtù e un tipo di saggezza (phronesis) non riducibili all’applicazione automatica di una sola misura eguale[9]. Altrettanto irriducibile ad uno standard rigido di misura era l’idea di eccellenza (aretè), che  dipendeva dal riconoscimento nel contesto relazionale dell’esposizione nell’agire pubblico. Hannah Arendt in Vita activa[10] ha dato un quadro molto simpatetico di questo modo di concepire l’agire che denuncia come perduto nelle concezioni successive che con quella perdita si sono allontanate a suo avviso dal senso stesso della politica, che ha preso a modello la razionalità strumentale del fare abbandonando la fragilità e rischiosità dell’azione e consegnandosi a una visione impolitica del potere.

Io mi sento molto vicina al pensiero politico di Arendt e anche alla sua rivalutazione della virtù dell’eccellenza nella sua accezione classica, ma va detto che essa dimentica la circostanza niente affatto secondaria che quella attenzione alla complessità e variabilità della misura giusta o eccellente si dava in un mondo dove non si trattava della libertà moderna, ma soprattutto c’era la formidabile semplificazione del riferirsi della misura ai soli uomini liberi, a esclusione delle donne (e degli schiavi) sottoposte a tutta un’altra misura. La separazione esplicita di misure non commensurabili, cui si accompagnava la distinzione tra la sfera pubblica e quella domestica privata,  copriva e riduceva la possibilità di quei conflitti e paradossi che l’idea di uguaglianza avrebbe portato allo scoperto.

Nella versione cristiana dell’eguaglianza le cose già si complicarono: a tutti gli umani, uomini e donne è data la regola d’oro della reciprocità della “misura per misura” insieme a quella dell’amare il prossimo come noi stessi, che introduceva anche la correzione di una “dismisura” dell’amore capace di rompere in positivo il circuito della “legge del taglione” che fa l’equilibrio al male con lo stesso male. Era la massima di una dismisura che sa rispondere al male con il bene e che fissava il riferimento assoluto alla misura smisurata e incommensurabile di Dio (non c’è da stupirsi che il cristianesimo abbia avuto tanta presa sulle donne). Nonostante la radicalità del messaggio evangelico e l’incommensurabilità della misura divina, però, la tradizione cristiana ha finito per diffondere l’idea di un’unica misura divina che si sarebbe consolatoriamente esercitata a giudicare nell’aldilà che conviveva con la realtà mondana di due pesi e due misure per donne e uomini. L’etica virile della virtù lascia il posto all’etica delle virtù, dove le virtù maschili e femminili si definiscono nei loro ruoli separati.

Comunque in entrambi i mondi, classico e cristiano, entrambi patriarcali,  era la compresenza di entrambe le misure, fossero esse separate, incommensurabili o gerarchiche, a fare la tenuta dell’ordine. E a tenerlo in un certo senso entro misura. L’idea di “vita buona” che l’esercizio della virtù, come delle virtù, persegue ha contenuti definiti, i quali costituiscono la misura dell’eccellenza e il comportamento virtuoso cui uomini e donne devono conformarsi nelle reciproche sfere. In sostanza la separazione tra le sfere pubblica-maschile e privata femminile corrisponde all’agire di due misure diverse, che costruiscono un sistema di divisione del lavoro materiale e morale dove vigono di principio e di fatto diversi criteri di eccellenza all’interno dei rispettivi ruoli. Le misure di uomini e donne non entrano in confronto o in conflitto e si immaginano come complementari. Meglio sarebbe dire però che la virtù, l’eccellenza, femminile risulta complementare a quella maschile alla quale va gerarchicamente, e per così dire “ufficialmente”, il primato.

Sarà con il passaggio alla concezione del soggetto moderno e della sua nuova libertà come indipendenza, sul calco della soggettività maschile, e con la promessa dell’uguaglianza che si impone il mito di un’unica misura maschile/universale, per di più ridotta normativamente, capace di valere come riferimento ordinante valido per tutti, razionalmente fondato. Con questo cambiamento si avvia la “frode dell’eguaglianza” che ha denunciato Milagros[11] ed esplodono i suoi paradossi, vero letto di Procuste per la differenza femminile, per quanto questo sia anche l’inizio del grande progetto dell’emancipazione femminile.

L’affermazione di una misura uguale è infatti truccata: se l’uguaglianza varrebbe in linea di principio universalmente per tutti gli uomini, poi le cose non stanno affatto così, gli uomini sono i maschi e le donne in fondo non sono uomini.  La ricerca femminista si è molto applicata a studiare come in teoria e in pratica per alcuni secoli si sia riusciti a far quadrare questa paradossale affermazione di una misura universale che però è maschile, e non starò a riassumere una ricostruzione che è ormai nota. (Anche se perdura, in modo che avrebbe dell’incredibile se non avesse una storia tanto lunga alle spalle, il fatto indecente che nella storia, nella filosofia e credo dappertutto le forme del sapere dominante continuano a non registrare se non in modo marginale quelli che sono risultati assodati, sacrosanti e questi sì metro di misura per tutti.)

In estrema sintesi la risposta alla domanda su come si sia riusciti a gestire quel paradosso può essere: la paradossalità è stata rovesciata sulle donne. E’ così che nasce il celebre “paradosso di Wollstonecraft” tra uguaglianza e differenza che ha tanto tormentato le vicende dei movimenti politici delle donne. Anche qui non è il caso di fare riassunti, mi limito a riprendere la questione con il taglio della rilevanza che ha per la questione della misura e dell’eccellenza femminile.

Il nuovo modello moderno non intacca la tradizionale divisione delle sfere pubblica e privata con le relative attribuzioni di virtù maschili e femminili, anzi. Le rispettive misure di eccellenza restano sostanzialmente sempre le stesse differenziate per sesso. L’eccellenza maschile sta sulla misura dell’immagine di un’autorità maschile che in definitiva ricalca lo stampo della sovranità assoluta: un soggetto indipendente, volitivo, razionale, scevro di ogni vincolo che ne limiti la libertà, capace di decisione e affermazione di sé, dei propri interessi, di imporre il proprio marchio al mondo, di assumersi il peso del male necessario, in grado di dominare le proprie passioni, le emozioni e le debolezze, sprezzante della propria vulnerabilità, forte e insieme dotato di affidabilità nel confronto con gli altri maschi, rispettoso della legge, della giustizia e capace di astrazione,  responsabile dei propri atti e protettivo nei confronti dei deboli, minori e donne. Nei casi supremi un eroe che sa sacrificarsi per la propria causa e la difesa di chi prenda sotto la sua tutela…

L’eccellenza femminile ha la misura della bellezza, della dolcezza e della sensibilità, sa accogliere e prendersi cura, sopportare e non badare al proprio interesse, è altruista, modesta e incurante di apparire, pudica e casta, innocente e persino ignara del male, comprensiva e intuitiva, emotiva ed empatica, attenta alle relazioni e al sentire altrui. Insomma l’eccellenza nell’amore e nel sacrificio di sé. Quell’eccellenza che fu detta “mistica della femminilità” e più recentemente “etica della cura”.

Tutti e tutte sanno di che cosa si tratta, e non si tratta di aver fatto le giuste letture, abbiamo fatto una vita di apprendistato e penso che abbiamo una lunghissima serie di vite femminili, eccellenti o meno, dietro di noi, ben prima dell’età moderna, educate a queste misure e a queste virtù.

Ora però il punto è che il moderno paradigma dell’uguaglianza produce un cambiamento fondamentale nella traiettoria delle eccellenze maschili e femminili, in forza della dichiarazione di principio della misura unica dell’umano. Non quella però che tutti siano ugualmente tenuti ad assumere una unica misura comprensiva di entrambi gli ideali di eccellenza. Gli uomini, essendo già l’universale, continueranno a misurarsi sul tradizionale medesimo metro, né saranno certo tenuti a eccellere nelle virtù femminili. Le cose diventano viceversa più complicate per le donne le quali dovranno mantenersi fedeli alla vecchia misura di eccellenza femminile, ma riceveranno l’ingiunzione (e insieme la promessa) ad adeguarsi anch’esse alla misura uguale degli uomini. Si tratta con tutta evidenza di un’ingiunzione paradossale, che non deve essere obbedita e insieme deve esserlo, e come tutte le ingiunzioni paradossali essa rischia di provocare una specie di follia, quella che infatti è stata chiamata la “follia morale delle donne”.

Mi ispiro a una efficace vecchia spiegazione di Joy Kroeger-Mappes[12] che era rivolta a mostrare il rapporto tra etica della giustizia ed etica della cura, e la adatto al nostro tema della misura. Le due diverse misure di eccellenza, maschile e femminile, fanno parte di un unico sistema, nel quale la prima trova la sua base necessaria nella seconda. Tale sistema è viziato da un pregiudizio favorevole agli uomini, e alimenta la subordinazione femminile, con gravi effetti su una donna. Infatti il sistema prevede un nucleo minimo obbligatorio costituito dagli obblighi prescritti dalla misura maschile, e un insieme più ampio di obblighi per le donne, che sono viceversa ritenuti supererogatori, oltre la misura ed eccessivi, per gli uomini. Dal punto di vista della tenuta del sistema gli obblighi smisurati femminili rappresentano una base necessaria e imprescindibile. Così per la sopravvivenza del sistema stesso in generale, ma anche della misura maschile in particolare, è indispensabile che la funzione “oltre misura” femminile venga comunque esplicata, sebbene essa sia considerata eccessiva per gli uomini, i quali ne vengono esonerati. In conclusione alle donne è moralmente richiesto di fare ciò che è obbligatorio per tutti, e in aggiunta esse sono moralmente tenute a compiere azioni che sono eccessive dalla prospettiva della misura maschile-universale. A ciò si aggiunge il fatto che da un lato le qualità “eccessive” femminili sono intese dal punto di vista della misura “uguale” come legittime purché non entrino in conflitto con gli obblighi primari che essa definisce, nel qual caso vanno messe da parte e giudicate contrarie alla moralità. Dall’altro lato le virtù “oltre misura” femminili sono libere e spontanee e non possono essere imposte dalla misura unica, mentre il sistema le rende obbligatorie. Ne risulta chiaramente per le donne un ordine paradossale che le mette in una situazione di double bind. Cioè in un dilemma che è lo fondamentalmente lo stesso di Wollstonecraft tra eguaglianza e differenza.

A peggiorare, se possibile questa insostenibile posizione femminile c’è la circostanza che se una donna dovesse eccellere nella misura universale-maschile fuori dalla sua misura femminile “superiore ed eccessiva” la sua eccellenza diventerebbe inevitabilmente  o una “eccezionalità” togliendola dall’appartenenza al proprio sesso e probabilmente rendendola invisa alle donne, oppure “eccedenza femminile” o “eccesso femminile” facendola diventare una sorta di temibile mostro agli occhi degli uomini e anche delle donne.

E’ questo il problema che Milagros ha chiamato del “troppo” e del “troppo poco” femminile all’interno della logica patriarcale.

Con il mito moderno dell’uguaglianza e dell’unica misura, si apre anche in modo nuovo il problema del conflitto tra i sessi, che ora almeno in teoria dovrebbero misurarsi l’un l’altro su un’unica misura. Qui si articola anche in modo nuovo la questione della superiorità/inferiorità e  la visione della dismisura femminile come eccesso o difetto, nel mentre l’eccellenza femminile diventa un problema diverso e forse ancor più grave per le donne e per gli uomini. Nascono anche le strategie femminili per evitare il conflitto agendo la propria virtù nella propria misura, visto che ora la grandezza femminile è apertamente una sfida, un eccesso e un pericolo.

Nel passato[13] ho scritto di una di queste strategie dandole il nome di “strategia della nonna”, che consiste nel lasciare che il marito in pubblico “porti i pantaloni” quando lei sa che invece in fondo comanda lei, così la suddetta nonna evita lo scontro con la misura maschile, salvaguarda la sua forza e si sente anche “superiore”. Ma molti esempi si possono fare di come una donna ha cercato di evitare di essere “distrutta dalla propria grandezza”, con le parole d Milagros, incorrendo nella punizione maschile e spesso anche in quella femminile. In certi casi sono esempi di “grandi donne” che esercitano la loro grandezza tenendosi al riparo dietro un uomo, a volte grande ma a volte decisamente meno grande. Alcune sono famose, ma una schiera di donne eccellenti ha praticato questa strategia di agire mediatamente attraverso l’influenza personale sugli uomini. Ciò a volte perché era l’unica via praticabile, per necessità, a volte perché la si giudicava la via più efficace in una logica che evita il conflitto e la competizione, l’esposizione aperta in un mondo dove vige una misura ostile, sfruttando l’esercizio dell’eccellenza femminile nelle relazioni.

Non era, però, solo la condizione dell’evitare di entrare in conflitto con una misura pubblica uguale ma costruita a misura maschile ciò che muoveva queste vie traverse della virtù femminile. Un altro fattore determinante poteva essere la volontà di salvaguardare l’amore. Il desiderio di avere una relazione amorosa con un uomo nella consapevolezza che questo non avrebbe retto alla prova della stessa misura per lei e per lui.

Mi spiego con alcuni esempi. Il primo mi tocca particolarmente perché è una storia che mi raccontò il mio ex compagno quando lo avevo appena conosciuto (una bella lezione!): la storia è quella di Calamity Jane, la velocissima pistolera. Quando lei si trova a confrontarsi con l’uomo che ama capisce che se vincerà il duello lo perderà, deve scegliere se salvare il suo primato di pistolera o salvare il rapporto con l’amato pistolero forse meno veloce, e decide di perdere, fingendo di essere sconfitta[14].

Si possono ricordare altre storie simili, con la stessa struttura: l’eccellenza femminile si ritrae dal misurarsi con l’uomo per conservare il rapporto con lui, dal momento che un uomo non riesce ad accettare di essere “da meno” di una donna nella relazione, ha bisogno della conferma narcisistica della propria superiorità. Per amore la donna si “mette sotto” nella sua misura e va incontro al suo desiderio, persino rinunciando al proprio. Sul piano del desiderio sessuale questa strategia ha un nome preciso: è quello che la psicoanalista Joan Riviere nel ’29 definì la “mascherata”, l’assumere la maschera della femminilità  per far sì, come disse Lacan riprendendo il concetto, che “il fantasma de L’uomo in lei trovi la sua ora di verità”[15].

La prova dell’amore appare insomma drammatica e sovente distruttiva per la misura dell’eccellenza femminile, e anche di quella maschile, che non possono trovarsi sulla stessa misura, e per le quali trovare un incontro su differenti misure e incommensurabili è arduo (per l’appena citato Lacan è impossibile visto che “non esiste rapporto sessuale”) e rischia di non potersi staccare dalla rappresentazione di ruoli e virtù complementari. Anche in questo caso gli esiti possono essere paradossali, come insegna la Principessa di Cleves del romanzo di Madame de La Fayette[16]. Lei, vera icona dell’eccellenza femminile, giungerà a rinunciare all’amore pur finalmente realizzabile con il duca di Nemours ed entrerà in convento per salvare con l’irrealizzabilità insieme la propria eccellenza e l’amore di lui.

Le donne che hanno optato per queste vie traverse anche nell’età della misura dell’uguaglianza evidentemente non si fidavano della sua promessa di emancipazione, forse ne temevano il pericolo, forse ne vedevano i limiti, forse si tenevano fedeli alla virtù tramandata dalle loro madri, forse stavano ad una loro misura sulla quale anche la nuova misura egualitaria andava misurata con prudenza. Chi le guarda dal punto di vista della storia dell’emancipazione le vede, se mai le vede, nella massa china, oscura e domesticamente reclusa delle madri e delle donne sacrificate al quotidiano lavorio del proprio ruolo oppresso e coatto. E se intravede in ciò la conseguenza di una scelta le può accusare di aver in fondo confermato simbolicamente l‘ordine patriarcale. E certo anche chi le guardi invece almeno con la riconoscenza per aver mantenuto la cura del mondo pensando che in fondo era la misura più grande, lo volessero o no, non può non riconoscere la paradossalità della loro misconosciuta grandezza.

D’altra parte, come ricordato, la scelta di quelle donne che fidando nella misura dell’uguaglianza hanno intrapreso la via dell’emancipazione è stata altrettanto, se non più, disseminata di paradossi. Sarebbe arduo e soprattutto ingiusto pretendere di formulare un giudizio che attribuisca quale via sia stata la migliore, fortunatamente, come ha osservato Milagros, dal punto dove siamo ora è possibile cominciare a riconciliare l’opposizione tra le emancipate e le madri. Dal punto dove ci siamo portate con il taglio della differenza operato dal femminismo, che proprio quel dilemma ha contestato, e dal punto del presente della fine del patriarcato che è il compimento sia della lunga storia delle misure delle due sfere maschile e femminile, sia della storia moderna della presunta unica misura dell’uguaglianza, e così anche c’è da sperare del dilemma di due misure tra le donne.

Come è avvenuto che ci troviamo qui, a questo punto, su questo che ricordo è pur sempre un crinale? Lo storico Sottosopra color oro che annunciava la morte del patriarcato si intitolava: è avvenuto non per caso. Quel che voleva significare era che il venire al mondo della libertà femminile che aveva preso, diceva, “un senso indipendente” (e che possiamo tradurre in “una misura indipendente”) segnava la morte dell’ordine del patriarcato nella coscienza femminile e ciò cambiava il mondo. Ricordo che allora ci furono una quantità di obiezioni che si facevano forti dell’indicare lo stato di miseria femminile e di strapotere maschile perduranti nel mondo Era una realtà innegabile, pensai, ma l’obiezione non coglieva il senso di quell’annuncio che aveva un altro senso di realtà. L’annuncio si doveva prendere come quello famoso di Nietzsche “Dio è morto” che non era confutato dall’afflusso nelle chiese, per quanto tempo ancora fosse durato, e che richiedeva per essere assunto l’oltrepassamento di ciò che è stato l’uomo. Ecco, mi dico, l’ultimo nome di Dio che era il nome del Padre è morto, e quel che vediamo al momento è che l’oltreuomo è una donna. Perché mi dispiace dire che ancora non ha un compagno.

Passato tempo da quell’annuncio, però, ora il mondo comincia a registrarlo. Le cose cambiano insieme ai loro significati, e anche noi possiamo considerare meglio quel che è successo, anche vedendo come al merito della rivoluzione della libertà femminile vada accompagnata la riconoscenza che ormai può essere sciolta da risentimento per le donne che hanno dovuto esercitare con grande virtù e direi virtuosismo la loro libertà (perché sì ora vediamo che c’era anche libertà) nelle condizioni in cui si trovavano a vivere, e nei dilemmi che dovevano affrontare facendo davvero come dice un proverbio italiano “di necessità virtù”, sia le emancipate sia le madri, con le quali entrambe abbiamo un debito.

Non saprei attribuire le parti di questo debito, capire come siamo arrivate al passaggio in cui siamo è un lavoro ancora da fare. Come si intrecciano le diverse strade della fine del patriarcato con il compimento della modernità e le traiettorie femminili non è facile da ricostruire. I pezzi di spiegazione che cerco di darmi sono spesso incoerenti e problematici. La chiave di lettura della misura e delle sue contraddizioni è utile: essa può suggerire, ad esempio, come la moderna regolazione fattuale della divisione del lavoro materiale e morale dei sessi su due misure nella finzione del paradigma della misura unica dell’eguaglianza abbia prodotto una spinta femminile all’emancipazione che nel tempo ha portato allo scoperto la parzialità e insostenibilità di quella stessa misura. Il progressivo venir meno della funzione di supporto della separata misura femminile ha portato al collasso la modernità egualitaria come il modo di produzione capitalista che la accompagnava e che non può reggersi da sé, senza che le donne nel frattempo si prendano cura del resto della vita, questa nostra vita che non è il mondo immaginato né dalla razionalità, né dall’economia, né dalla politica della modernità. E paradossalmente proprio il fatto che tante donne abbiano preso alla lettera la promessa del progetto dell’uguaglianza alla misura maschile ha rivelato come fosse quella femminile la misura più comprensiva.

Il taglio portato dal femminismo e la fine del patriarcato rompono con la misura unica dell’uguaglianza e la prospettiva della differenza apre l’incastro letale dei paradossi dell’uguaglianza così che diventa possibile sfuggire alla trappola del più e del meno tra uomini e donne. Ma le cose non sono affatto semplici, al contrario: non si tratta di tornare alla soluzione anch’essa semplificatoria dell’incommensurabilità di due misure dopo il sogno fasullo di misurarsi su un’unica misura. “Misura per misura” cambia di senso in modo inaudito e imprevedibile quando ogni misura, sì incommensurabile anche, deve prendere misura anche dall’altra nel mondo comune. Quando non è più possibile l’incommensurabilità come ultimo orizzonte, quando la misura maschile mostra la sua incapacità a fare ordine, quando quella femminile in questo passaggio si pone come ordinatrice di realtà, quando si pone finalmente la questione di quale misura in un mondo davvero comune.

Cosa significa misura, e anche eccellenza come capacità di spostare oltre la misura in questa urgenza presente?

Naturalmente sarei davvero arrogante a pensare di poter rispondere a qualcosa che è affidato al tempo che viene, e a ciò che faremo della nostra vita singolare e comune nella contingenza del tempo presente che vivremo volta per volta e misura per misura. Ma dal momento che sono in effetti piuttosto arrogante ci tengo a dire fino a che punto questo che dico non è solo un artificio retorico per concludere senza espormi troppo o sbilanciarmi, ma rappresenta invece proprio una risposta.

Molti anni fa (15 e mi spaventa dirlo) conclusi un lungo e faticoso lavoro sull’idea di giustizia in rapporto alla differenza per la mia tesi di dottorato con un capitolo che si intitolava “Una giustizia senza misura comune. Essendo, appunto, arrogante mi ero proposta di fare i conti con pressoché l’intera storia della questione e con il dibattito sulla giustizia che aveva infiammato la riflessione filosofico politica nel decennio precedente quando si erano sviluppate e combattute alcune posizioni che ancora ora tengono la scena: le proposte neokantiane di Rawls,  e dell’etica comunicativa di Habermas, le riprese dell’aristotelica etica della virtù di MacIntyre, dei neocomunitari e poi di Martha Nussbaum con la sua teoria delle capacità, l’etica della cura che veniva da femminismo anglosassone e così via.. Il grande dibattito di allora veniva dal sentimento di una situazione di crisi della concezione e della misura della giustizia nella modernità, e già circolavano le preoccupazioni che oggi sono ancora peggiori e sono diventate di senso comune. Tantopiù che la fiducia nella forza delle proposte normative, almeno a livello teorico non nelle politiche, è andata diminuendo.

Con quel titolo segnalavo il problema che ci stava di fronte, il dover far fronte alla crisi della misura comune, dell’unica misura di giustizia il cui riferimento aveva tormentato la filosofia almeno dai tempi di Platone. Ma anche volevo dire che la mancanza di quella misura comune è appunto la condizione della giustizia, la condizione comune della giustizia. Ora aggiungerei che lo è della vita, perché la nostra vita è comunemente senza misura comune, è in questa condizione che viviamo, troviamo misura e anche facciamo giustizia. Non che non sia problematico, ma parte del sentimento di drammaticità che si scatena quando si nomina la mancanza di un’unica misura è l’eredità di una forma mentale (tipicamente maschile a mio parere) che ha immaginato che quando agiamo, decidiamo, giudichiamo, lo facciamo applicando una misura, o una legge, una regola sottostante che ci fa fare la cosa giusta. Voglio dire: il problema è in parte una sorta di effetto ottico: non c’è mai stata misura comune in quel senso, la misura di giudizio viene dal nostro giudicare, non il contrario, siamo noi che misuriamo, prima della misura. L’ideale della misura non ha mai misurato niente da solo.

Nel dire questo potrei anche fare riferimento ad Aristotele e proprio alla sua classica idea della virtù: è quel che fa il saggio, l’uomo virtuoso, nella situazione contingente in cui giudica a essere la misura della saggezza e della virtù, non viceversa. Per tradurlo nella nostra questione: l’eccellenza, la virtù,  non dipende dalla misura, è la misura stessa.

Anche Hannah Arendt ha in mente qualcosa di simile quando pensa alla contingenza e alla fragilità del nostro agire nel contesto della pluralità, insieme ad altri, e a quando giudichiamo facendo leva su quello strano “senso comune”, il senso di ciò che ci lega agli altri e potrei dire la nostra costituiva relazionalità[17]. Jean Luc Nancy, con un grande debito contratto con Arendt, ha parlato di una giustizia che viene da questo essere con altri nell’incommensurabilità della misura, che è ciò che abbiamo in comune[18].

Oppure potrei usare un altro riferimento che mi è più vicino e che uso spesso, quello di Wittgenstein che criticando l’ossessione della nostra tradizione per la ricerca di una logica ideale, o di una regola che ci garantisca in quel che facciamo, ha indicato il terreno scabro della nostra pratica quotidiana e del nostro linguaggio comune come primario, noi diremmo il riferimento alla nostra lingua materna.

Noi non impariamo una regola, una misura, per giudicare, impariamo a giudicare e a prendere misura attraverso giudizi particolari, esempi di misura, lo dice ancora Wittgenstein ma lo sappiamo ancor più e meglio dall’esperienza di come abbiamo imparato da nostra madre. Da lei che ci ha dato la prima misura abbiamo preso la misura e abbiamo imparato a misurare. La misura, l’eccellenza, la virtù hanno questa comune fonte materna, e non sono i contenuti che questo insegnamento ha avuto, fossero anche la misura maschile tradizionale corrente, che sono l’essenziale, l’essenziale è ciò che trascendeva quei contenuti e ci insegnava attraverso misure e il porsi come misura, a misurare[19]. Davvero lì è la prima misura, lì si forma la nostra virtù, la nostra capacità di eccellere.

Per questo motivo dichiaravo all’inizio di non essere poi così preoccupata e pessimista sulla caduta della misura del nome del Padre: quella misura soffre dello stesso effetto ottico, non ha mai retto davvero la misura, non è mai stata l’unica misura.

La risposta alla domanda su come cambiano la misura e l’eccellenza con il venir meno della misura del patriarcato e del paradigma moderno dell’eguaglianza e della stessa misura è davvero una risposta che sta nella pratica e nella contingenza di quel che facciamo

La risposta è sperimentale, sta nel farlo: mostrarsi come misura, esporsi quando, come davvero fuori dai miti e dalle teorie e dai sogni sempre si è fatto, siamo noi lì, proprio noi in quel momento con quella azione e quella parola proprio lì, la misura della realtà.

Un mondo dove è tramontato il sole dell’ideale della stessa misura non è un mondo che piomba nelle tenebre e tantomeno nella presunta notte oscura della dismisura materna, piuttosto si risveglia in un primo mattino e ha davanti la vita di ogni giorno, e fortunatamente c’è stato un tempo in cui nostra madre ci ha preparato la colazione.

Si esce di casa e c’è il mondo, all’aperto, aperto come forse non è mai stato prima.

L’espressione dantesca ”qui si parrà la tua nobilitate” è quanto mai appropriata, qui si vedrà la nostra eccellenza, si misurerà la nostra virtù. Luisa Muraro nel suo nuovo libro Non è da tutti dedicato all’eccellenza femminile invita a “usare creativamente l’energia potenziale di una realtà squilibrata e a ciò ispirarsi per agire politicamente”  perché si dice convinta che la partita quando “c’entra la differenza sessuale oltrepassa le misure della giustizia, con effetti di tensione e conflitti che finora sono stati malamente capiti e peggio ancora risolti”  perché la giustizia fra uomini e donne non ha un punto di equilibrio[20]. Per Luisa si tratta di “farsi giustizia: immettersi, con la propria persona, in un gioco di concordanze e discordanze di cui siamo giocatori, non giudici”.

Sono d’accordo sull’intenzione e sullo spirito del suo invito, ma penso che ci sia anche un senso per cui se dobbiamo essere giocatrici, dovremo per forza anche accettare di essere giudici e giudicare. Lo stesso motivo per cui anche la massima evangelica “Non giudicate, per non essere giudicati;  perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati” non può essere pienamente accolta, o almeno va interpretata.

Non possiamo sottrarci al giudizio, né al giudicare, né all’essere giudicate. Né al misurare, né all’essere misurate. Proprio nella consapevolezza della mancanza di un unica misura, o della norma che misuri e delle loro pretese occorre sapersi esporre come misura della realtà. Le differenze non hanno una misura di commensurabilità, siamo noi la mediazione vivente della misura, con la nostra esperienza, e questo nelle condizioni puntuali e concrete della nostra vita comune. In questo si esercita la virtù e l’eccellenza: l’eccellenza dipende dal riconoscimento, è relazionale, dipende dal contesto, dalla situazione contingente e dallo sguardo degli altri.

Sappiamo quanto l’eccellenza femminile abbia sofferto dello sguardo patriarcale che la ha vista come difetto o eccesso, e sappiamo anche come ‘eccellenza maschile si sia nutrita di quello specchio ingrandente che è stato tradizionalmente lo sguardo femminile in quella che Virginia Woolf chiamava la “società dello specchio”[21].

Ora quello specchio si è infranto, ma ciò non significa che non servano specchi. Ci si è guardate troppo nello specchio dello sguardo maschile e nella sua misura che ci restituiva una immagine deformata nel troppo, nel troppo poco, e persino riusciva in modo omicida a  farci “sparire nel muro” come avvertiva Ingeborg Bachmann[22]. Si è imparato a distogliere lo sguardo da quello specchio, e a guardarci l’una con l’altra, a restituirci l’immagine della nostra eccellenza fuori dalla logica dell’invidia e dell’abbassamento imposti dalla misura maschile. Non spariremo nel muro, non saremo evanescenti se sapremo riconoscere la nostra eccellenza, anche nella differenza di eccellenza tra donne. Ma ciò implica giudicare, anche tra noi, prenderci le misure, riconoscerci virtù ma anche vizi, riconoscerci di più ma anche di meno. Desidero che l’eccellenza femminile non sia più eccesso, ma non tutti gli eccessi sono eccellenza. C’è un eccedenza femminile rispetto alla misura tradizionale un troppo femminile che è hybris, e un eccesso che è eccellenza. Se dovessi dire quale è eccellenza: è quella che non è mera trasgressione della misura data, ma capacità di aprire la realtà a una misura più alta, che sa far eccedere da sé la realtà stessa, è ciò che apre e aumenta il mondo.

Devo concludere, ma voglio farlo insistendo sul fatto che riconoscere l’eccellenza femminile non significa fare l’apologia della perfezione femminile. Trovare una misura nel riconoscimento dell’eccellenza femminile comporta il giudizio, il che per stare a un tema che mi è caro, comporta fare i conti con il negativo senza attribuirlo, come nella storica divisione sessuale del lavoro morale, agli uomini per tenerci in una rappresentazione idilliaca di bontà femminile.

L’eccellenza femminile non sta più nello specchio deformante dello sguardo maschile, finalmente, e forse è persino venuto il tempo di esporsi a un differente sguardo maschile, ma soprattutto quell’eccellenza sta nello sguardo e nel riconoscimento che sapremo darle: se non sapremo fare da specchio e da misura all’altra, lì in quel che sta facendo lei, come noi, lei non si riconoscerà e nemmeno vedrà, e lo stesso sarà per noi stesse.

Se non sapremo esporci l’una all’altra nella misura non ci sarà misura. Se non sapremo esporci al mondo come misura, il mondo non avrà misura.

[1]              William Shakespeare, Misura per misura, in Id., Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1964

 

[2]      “Non giudicate, per non essere giudicati;  perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.  Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?  O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave?  Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.” (Vangelo secondo Matteo 7,1-5)

[3]              María-Milagros Rivera Garretas, Lei è troppo libera. La rivoluzione del tempo e dell’amore, testo pubblicato in italiano su questo numero di  “Per amore del mondo” e di prossima pubblicazione in spagnolo su “Duoda”.

 

[4]              Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina, Milano, 2010. Nel dibattito è intervenuta criticamente Chiara Zamboni, Pulsioni e politica, non c’è solo Papi, in “il manifesto”, 07/01/2011.

[5]              In molti dei suoi libri ma soprattutto in Il soggetto scabroso, Cortina, Milano 2003 e in The Metastases of Enjoyment. On Women and Causality, Verso, London 1994.

[6]              Sottosopra oro, Un filo di felicità, Libreria delle donne di Milano, 1989

[7]              Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011.

[8]              L’espressione è usata per la ricerca della “definizione” in Ricerche filosofiche §217. Quanto al timore per la distruzione penso sia utile leggere l’osservazione seguente mettendola in analogia con la fine del patriarcato: “Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, al momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che è interessante, cioè grande e importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano.” (§118).

[9]              Il riferimento canonico è l’etica aristotelica come articolata nella Etica nicomachea (Laterza, Bari 1999). Una quantità davvero smisurata di testi è stata prodotta negli ultimi 30 anni sotto il titolo di “rivalutazione della filosofia pratica”, a riprova di quanto sia sensibile la crisi del paradigma moderno della misura. E’ improponibile dare qui conto bibliograficamente di questa mole di ricerca, mi limito a segnalare la circostanza significativa che siano state soprattutto delle studiose a farsi paladine di questa ripresa dell’etica della virtù.

[10]            Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1964

[11]            Maria-Milagros Rivera Garretas, El fraude de la igualdad, Barcelona, Planeta, 1997

[12]                                                                                                                                                        Joy Kroeger-Mappes, The Ethic of Care vis-a-vis the Ethic of Rights: A Problem for Contemporary Moral Theory, in “Hypatia”, 3 (1994), pp.108-31.

[13]            In Diotima, Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999.

[14]            Noto di passaggio l’evitamento collaterale che questa strategia comporta, e cioè quello per Calamity Jane stessa di sapere se avrebbe davvero vinto o perso nel duello. La sconfitta volontaria è una vittoria quindi che sta su un altro piano, ma questo può anche essere quello dell’immaginario.

[15]            Rivière, Joan, La femminilità come mascherata [1929], in Il mondo interno. Scritti (1920-1958), Cortina, Milano 1998; Lacan, Jacques, Télévision, Seuil, Parigi 1974

[16]            Madame de La Fayette, La principessa di Cleves, Rizzoli, Milano 1986.

[17]            Questa idea di giudizio è sviluppata da Arendt in Teoria del giudizio politico: lezioni sulla filosofia politica di Kant, Il melangolo, Genova 1990.

[18]            «c’è una misura comune, che non è un’unità di misura applicata a tutti e a ogni cosa, ma è la commensurabilità delle singolarità incommensurabili, l’uguaglianza di tutte le origini-di-mondo, le quali, essendo origini, sono ogni volta strettamente insostituibili – e in tal senso perfettamente ineguali – ma sono tali solo nella misura in cui sono tutte egualmente le une con le altre. Ed è di questo che noi dobbiamo prendere misura» (Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, p. 103).

[19]            Su questo rimando al mio La tentazione del bene, In Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005.

[20]            Luisa Muraro, Non è da tutti, cit., p.23.

[21]            L’immagine delle donne che fanno da specchio ingrandente per gli uomini è presente in Una stanza tutta per sé e  in Le tre ghinee.

[22]            Si tratta della scena finale di Malina (Adelphi, Milano 1992).