diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Scritture

Marguerite Yourcenar, Il tempo grande scultore

 La posizione di lettura che tengo verso Yourcenar e il suo testo parte da un gioco di relazione e di intensità. Quel che rende la sua opera “una narrazione ancora parlante” si rivela in un’inversione, per così dire: non viene tanto prima quel che lei dice quanto la domanda che le rivolgo. Si tratta tuttavia di un’inversione peculiare: quella che le pongo non è una domanda qualsiasi, che potrei porre a qualunque altra scrittrice e che dunque ne cancella di fatto la singolarità. La domanda infatti preesiste eppure prende forma nel leggere il suo testo, in quella relazione di lettura, e successivamente la domanda si precisa, è ritagliata, da quel che è urgente nel mio presente, nella mia esperienza.

 

Questa domanda è: che ne è del tempo quando lo si pensa in termini di relazione?  Non tanto dunque come un susseguirsi lineare di fatti, di gesta, di protagonisti, di documenti – non a caso si parla, per Yourcenar come per Virginia Woolf, di una “sovversione del tempo”[1] – ma come relazione tra viventi?

Ora, genealogia è il termine che indica una relazione in cui si pone il problema del tempo. E’ una parola che Yourcenar utilizza e sviluppa altrove (in A occhi aperti), è parola che è stata utilizzata in precedenza e non a caso in questi incontri (da Annarosa Buttarelli e Monica Farnetti all’incontro Scrivere una vita). E’ parola che è ridiventata urgente per quelle donne che, come me, si sono poste il problema della relazione con le opere, le parole e le azioni, di donne venute prima di noi. Donne forti della loro esperienza femminista, un’esperienza che ha aperto nel linguaggio lo spazio dell’amore femminile per la libertà, un’esperienza con la quale una donna come me è ancora a contatto senza avervi però partecipato fin dall’inizio[2].

 

Ora, gli elementi che Yourcenar dà per disegnare la risposta sono numerosi.

 

Innanzitutto il tempo per gli umani non coincide con la storia, è un lavorìo che va al di là della scissione tra natura e cultura. Nel saggio che dà il titolo alla raccolta, Il tempo grande scultore per l’appunto, la prima descrizione di questo lavorìo è la descrizione di una forza veramente palpabile, l’agire di una forza fisica, che accomuna cose, viventi e umani, come quelle “statue esposte al vento marino” che “hanno il biancore e la porosità di un blocco di sale” che hanno subito “l’equivalente della fatica, dell’invecchiamento, della sventura”. E’ una forza che cose e viventi patiscono, anche e soprattutto per via del corpo che sono, e che si ritrova anche nell’agire umano.

Infatti questa forza modifica, trasforma, e lo fa, nel senso che è stato appena messo in luce, come un lavoro di aggiunta e di sottrazione, come il lavoro di uno scultore. Aggiunta di azione, di un taglio, di una decisione, di una messa in evidenza, – oppure aggiunta per recuperare l’originario, come nel caso di una certa tradizione di restauro – ma anche sottrazione di materiale, del materiale in eccesso in modo da arrivare a una forma definita, o meglio, a una qualche bellezza. Uno degli scritti della raccolta – il testo Sequenza di Pasqua: una delle più belle storie del mondo – è l’esemplificazione pratica di ciò che intende la scrittrice quando parla di lavoro a togliere. Riscrive, sgrossando dai luoghi comuni e dalle descrizioni scontate, la storia dei giorni della passione di Cristo, la riporta a semplicità per ritrovarne l’intensità, quella bellezza che la renda ancora parlante. Non a caso il testo conclude con uno scambio di battute tra Yourcenar e un ufficiale coreano. All’affermazione di questo, che avrebbe sentito Gesù più vicino se fosse morto fucilato anziché crocefisso, la replica è: ho scritto questo per lui e per tutti coloro che “non riescono a ritrovare l’essenziale sotto ciò che potremmo chiamare gli accessori del passato”.

Così il tempo come relazione chiama in causa un primo elemento: l’agire e il patire una forza che toglie e aggiunge, che implica perdite e guadagni, nelle vicende di forme che si fanno e si disfano.

 

E di queste perdite e guadagni è fatto il secondo elemento, quello cioè della relazione tra la parola orale e lo scritto. Una relazione tra viventi è una relazione che chiama in causa il linguaggio, che sia scritto, che sia parlato e – precisazione di questa grande scrittrice – che sia non pronunciato ma solo agito, attraverso la relazione in presenza, una presenza corporea, incarnata: “niente, o quasi niente, ci resta di quelle inflessioni, di quei quarti di tono o di quei mezzi sorrisi che pure cambiano tutto” dice nel testo intitolato Tono e linguaggio nel romanzo storico. I fatti che interessano gli storici di professione o le parole-documento che attraversano la storia spesso ci arrivano “nel vuoto, separate dalle parole e dalle grida”, è quasi impossibile sentire “il rumore di una folla” (26). Ma a riempire quel vuoto, magari in un empito di fedeltà, si rischia di cadere “nel melodramma o nella contraffazione” (27), due forme di relazione che Yourcenar disconosce. Ecco così quel lavoro di togliere e aggiungere che ritorna, in analogia al lavoro di scultura, stavolta relativamente alla forma letteraria: da una parte, “schegge di voci con cui ricostruire un tono o un timbro, come altri con poche schegge di marmo ricostituiscono un busto spezzato”, (30) dall’altra, “aggiunte di un tono più moderno che si fanno “visibili come il gesso che cementa due frammenti di statua” e vanno dunque tolte (31). Come dice l’esempio per cui la parola patriota corrente nel XVIII secolo sarebbe stata assurda “verso il 1550 sulla bocca di un popolano”. Nella relazione parlante le parole veramente viventi, proprio perché sottoposte alla forza del tempo, si consumano, hanno legami con fatti e altre parole, che il tempo scioglie.

La pregnanza di questo secondo elemento si dà così nella finezza con cui Yourcenar, nella pratica di ciò che le preme di più, nota quanto una relazione è fatta anche nell’accettare la perdita del senso dato di alcune parole, parole che non sono più o non ancora viventi perché slegate dal corpo di chi parla che non è solo un corpo personale ma un corpo individuato dalla società e dalla natura.

 

Arrivo al terzo elemento che del tempo fa una questione di relazione, che ha discontinuità che si presentano come possibili ritorni. Nella raccolta la decima sezione è dedicata alle “feste”. La festa è un momento che, tra mito e rito, interrompe quel che potrebbe essere la storia nel suo divenire lineare e cumulativo. Di questa interruzione, di questa cesura, c’è traccia anche nel primo testo che racconta del passaggio dagli dei al dio cristiano nell’Inghilterra del VII secolo. In quel caso si tratta di quel che viene chiamato ‘evento’[3], un taglio nella continuità della storia. Eppure questo momento non è soltanto all’insegna della perdita, non è soltanto un taglio che ripartisce nettamente e definitivamente il passato come ciò che è trascorso a mai più e il presente tutto proteso verso l’avvenire. Pensando al tempo della festa infatti, c’è sì l’interruzione di ciò che fin lì è stato presente, ma questa interruzione è piuttosto una sospensione perché altro si dia e torni a darsi, come nella festa che è appunto chiamata ricorrenza festiva[4]. Yourcenar dà così indicazioni, nella pratica e non come esposizione di tesi e concetti, di quanto il tempo non sia questione né di linea né di circolo e nemmeno di un’inversione tra il prima e il dopo – figure che si sono contese il senso della storia nella nostra cultura. Lo dice come gioco tra l’immaginazione che traccia ponti e ricostruisce a partire dalla pienezza di sensazioni presenti e la memoria che non va mai senza l’oblio. Il tutto conduce a un paradosso, per cui l’accumulo implica la perdita di intensità e l’interruzione permette di ritrovarla. E ancora, sul filo del paradosso, l’interruzione non è cancellazione, superamento, ma piuttosto possibilità del ritorno di ciò che è andato perduto. Pensandolo nei termini della relazione tra viventi, questo elemento del tempo ci dice che non tutto il guadagno sta dalla parte della vicinanza e della somiglianza, che accettare una distanza, l’estraneità come familiarità o comunanza perduta, apre a un riavvicinamento. O meglio, più che di avvicinamento, si tratta di comprensione vera, di contatto tra due posizioni che si espongono su ciò che preme, è urgente, al di là di quel che Yourcenar chiama gli accessori. E questo contatto si dà a patto di accettare il gioco di perdite e guadagni che il presente comporta rispetto ai precendenti, nel mio caso, alle precedenti.

 

Arrivo all’ultimo elemento che propongo qui. La relazione tra viventi è anche relazione con i precedenti che però, per via di quella sovversione del tempo, non sono equiparabili al passato, a ciò che è definitivamente trascorso. Quando dico però le precedenti introduco un elemento che ha a che fare con la relazione vivente, e cioè che quel vivente, nel caso dell’umano, è donna o uomo, per via del corpo che sono. La questione non è aliena ai testi di Yourcenar, e non solo nel senso della sua preferenza per i personaggi maschili.  I testi della raccolta che danno indicazioni su questo tema – che ridico come il tempo è questione di una relazione vivente e dunque sessuata, dove cioè vale, fa differenza essere donna e uomo – sono in particolare i testi sulle “tre Elisabette” Giochi di specchi e fuochi fatui, il testo su Jeanne de Vietinghoff e i testi in cui viene in luce la passione della scrittrice per gli animali.

Il primo di questi racconta del progetto di romanzo, progetto abbandonato, un fuoco fatuo dice severamente la scrittrice, su tre donne, la santa Elisabetta d’Ungheria, l’imperatrice Elisabetta d’Austria e la sanguinaria Elisabetta Bàthory. Il testo si chiude sulla rinuncia a intrattenere un gioco di specchi con questi tre personaggi femminili, rinuncia espressa con un aneddoto: la scrittrice è “invitata a un ballo mascherato di bambini travestita da tamburino delle armate imperiali. Tutto, verosimilmente, era autentico nel mio costume, bacchette e bottoni con le aquile compresi. Senonché quella mascherata mi ha tolto la voglia di scrivere di Napoleone” (98). Il rifiuto di Yourcenar si presenta come rifiuto di intrattenere una relazione di mascherata, una relazione in cui le tocchi indossare i panni della donna che scrive di donne – rifiuto che ritorna in Bestie da pelliccia. Leggo questo rifiuto alla luce di un desiderio di intensità e di libertà, di uno slancio di temperamento che rifiuta le convenzioni che costituirebbero il destino di una donna. Ora questo desiderio ha una potentissima risonanza con una frase di Elisabeth de Fontenay che nel raccontare di Pasife, la madre del Minotauro, parla di un “violento desiderio di metamorfosi che prese la regina di fronte all’incapacità di diventare altro che donna”. E non a caso questo libro ha per tema Il silenzio delle bestie. Penso così alla passione di Yourcenar per gli animali come all’espressione di un suo desiderio di travalicare i limiti imposti dall’umano, ma non dall’umano in generale, bensì dal suo preciso essere donna in quei tempi. Meglio empatizzare con gli animali piuttosto che diventare donna nei modi socialmente comandati. C’è una sola eccezione a questo rifiuto, si trova nel testo scritto in memoria di Jeanne de Vietinghoff che viene descritta con le parole di Diotima: “non condanna alcuna forma della passione umana, tenta soltanto di includervi l’infinito” (194). L’atteggiamento di rifiuto di Yourcenar sull’essere donna si acquieta di fronte a un desiderio che porti traccia dell’infinito. L’animale e la mistica[5] sono nell’essere donna l’infinito del non ancora, della parola non ancora pronunciata, del salto dei confini tra cultura e natura, interruzione della chiusura che può diventare il senso di sé. Su questo punto Yourcenar è senz’altro donna di temperamento che però, per circostanze storiche e personali, non si è presa il rischio di articolare ciò che le premeva, questa precisa urgenza, con quella finezza che ha avuto per altro.

 

Questa distanza, come ho detto fin qui, è lo spazio in cui può riaccadere quell’urgenza – l’essere donna all’insegna della libertà, di una passione per l’infinito – in nuove forme. La relazione genealogica con le precedenti si orienta, in dialogo con Yourcenar, come una relazione temporale, attraverso quel gioco di perdite e guadagni, di lavoro a togliere e aggiungere, che è possibile in un presente ben segnato dal fatto che essere una donna può valere, può fare la differenza.  In questa relazione Yourcenar dà modo di porsi dentro eppure non schiacciate dalla storia, che la si erediti o che ritorni, in un tempo grande che non riguarda solo le vicende umane. E insieme con l’accortezza che la forza delle precedenti, quella che resiste al consumarsi, è fatta anche di gesti, di parole non pronunciate e che dunque non si troveranno scritte da nessuna parte. Strana responsabilità che prende allora nella ricerca di un’intensità, di una forza, che può ritornare solo nel presente e nell’esperienza e non dal passato. E che si dà nel momento in cui si accetta di non essere in una relazione di continuità, in cui si accetta che questa relazione si fa nell’aggiungere come nel togliere, e si ha fiducia nel fatto che l’interruzione permetta un ritorno, un contatto su quel che importa veramente.

 

 

 

 

 

 

 

[1]              Annarosa Buttarelli, Scrivere la vita, in questo ciclo; M.C. Paillard, Pensée et subversion du temps chez Marguerite Yourcenar et Virginia Woolf, Bulletin SIEY, décembre 2001; P. Guabaudan, Quelques images du temps chez Marguerite Yourcenar à la lumières des présocratiques, Actes Coll. Int., Université de Valencia, 8-9 novembre 1984.

[2]              Genealogie del presente, “DWF”; www.matri-x.it

[3]              G. Marramao, Il tempo grande scultore, “il mattino”, 12.1.1988

[4]              Vengono in mente “la domenica della vita” di Queneau lettore di Kojève lettore di Hegel e la “destorificazione” ad opera dei riti di De Martino.

[5]              Penso ai testi di Rosi Braidotti, In metamorfosi e di Luisa Muraro, Il dio delle donne.