diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Luce Irigaray

Luce Irigaray, Oltre i propri confini

L’ultimo libro di Luce Irigaray, Oltre i propri confini (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007), raccoglie conferenze e dialoghi fra la pensatrice francese e intelocutrici/interlocutori italiani: il titolo allude al tentativo dell’autrice di oltrepassare i propri confini (nazionali, culturali, linguistici), per intrecciare della relazioni con la cultura e con il femminismo italiani, che, specialmente nelle pratiche e nel pensiero della differenza sessuale, ha raccolto e sviluppato in modo fecondo l’eredità della pensatrice francese.

Nell’introduzione, Irigaray auspica un ritorno all’entusiasmo del ’68, a quello “stato divino” che aveva segnato il femminismo degli anni ’70, quando molte donne, uscite dall’isolamento in cui le aveva confinate la cultura patriarcale, avevano trovato una parola pubblica condivisa ed erano state toccate dalla grazia e dalla gioia dell’incontro fra loro, al di là delle differenze fra i percorsi singolari di ciascuna.

Allora, ciò che univa era più forte di ciò che poteva dividere le donne fra loro: oggi, a quasi trent’anni di distanza da quel felice inizio, al di là dei numerosi conflitti, delle ferite e di molto negativo che spesso ha reso difficili le relazioni fra donne, pur accomunate da un ideale condiviso, Irigaray auspica che si riesca a nuovamente ad attingere alla freschezza degli inizi e a trovare la forza – la grazia? – per porre le basi una nuova cultura e civiltà, a partire dalla consapevolezza che “in tutto il mondo siamo sempre in due”.

Fra le diverse piste di lettura che questo libro suggerisce, ne scelgo tre: in primo luogo l’idea che la differenza sessuale è il migliore passaporto per varcare ogni confine, per entrare in contatto con tutte le altre differenze; in secondo luogo, il tema del desiderio femminile, e infine l’incrocio fra l’amore dell’altro essere umano e l’amore dell’Altro divino.

Lascio volutamente sullo sfondo, in questo mio percorso di lettura, le questioni che riguardano “una democrazia da ripensare”. (p. 56) Non che queste ultime non siano importanti, a partire dalla basilare affermazione che “imporre lo stesso modello ugualitario a tutti e tutte non tiene conto dell’ideale della democrazia”, (p. 63) ma ho l’impressione che, in questo campo, le intuizioni migliori di Irigaray siano degli accenti profetici e utopici, indubbiamente molto suggestivi, ma difficilmente traducibili in proposte politiche concrete. Sorrette da grandi interrogativi, del tipo “come aiutare il divenire umano delle donne, dei giovani e degli stranieri”, (p. 63) e dall’intento di fondo di favorire una cultura del desiderio, queste indicazioni convergono verso un “abbozzo di una politica rispettosa delle differenze”, (p. 67) obiettivo che è sicuramente auspicabile ma, a mio parere, non altrettanto facilmente realizzabile.

Mi concentro dunque innanzitutto sulla prima delle questioni che ho scelto di trattare, cioè la differenza sessuale come apertura privilegiata per entrare in contatto con tutte le altre differenze: nel ribadire che la differenza fra i sessi è il primo, “il più fondamentale e universale incrocio da rispettare”, (p. 116) Iragaray rilancia innanzitutto il senso della differenza sessuale come intreccio di natura e cultura o, con le sue parole, come “specifica articolazione fra corpo e parola”, (p. 117) come alfabeto di base di ogni cultura e civiltà. Mentre la tradizione occidentale ha privilegiato il soggetto unico e ha operato sempre nel senso della riconduzione dell’altro/a al Medesimo, una cultura che metta al centro la differenza di essere donna/uomo e la relazione, inscritta nello stesso corpo femminile e quindi particolarmente legata a quel soggetto costitutivamente relazionale che la donna è, può porre le basi si un dialogo con l’altro (l’uomo), e, a partire da lì, con ogni altra differenza (naturale, linguistica, culturale, ecc.). Una cultura della differenza sessuale è un invito a uscire dal proprio orizzonte per costruire un mondo nuovo che lasci spazio a tutte le altre differenze: alla sua base, vi è la necessità di disegnare i primi confini, quelli legati al fatto che siamo donne oppure uomini, confini che dobbiamo al tempo stesso rispettare e aprire per incontrare l’altro.

In questa prospettiva, che a mio parere è pienamente condivisibile e che dischiude per il pensiero e per le pratiche della differenza un grande compito politico nel presente, Irigaray parla spesso di “differenza sessuata” piuttosto che di “differenza sessuale”. Il motivo di questa scelta terminologica deriva dalla convinzione che occorra anteporre ciò che accomuna tutte le donne – cioè la differenza femminile, nel suo significato sia naturale sia culturale – a ciò che potrebbe invece dividerle, come gli orientamenti sessuali. Secondo Irigaray, l’espressione “differenza sessuale” suggerisce qualcosa che ha a che fare con le scelte sessuali, mentre la scommessa dell’autrice è di altro tipo. Essa è duplice: si tratta di tenere insieme natura e cultura, e al tempo stesso di evitare inutili divisioni fra donne dovuti a diversi modi di vivere la sessualità. Di fatto, proprio questo è ciò che intende anche Diotima con il pensiero della differenza sessuale; quindi, a mio avviso, si tratta di una divergenza nelle scelte terminologiche piuttosto che di una questione di sostanza.

Analogo discorso si può fare a proposito dell’identità, che apparentemente delinea un’altra divergenza rispetto a Diotima: l’autrice parla di identità sessuata, mentre io penso, con altre di Diotima, che occorra puntare non sull’identità, ma sempre sulla differenza, nel suo gioco, da rilanciare sempre, con l’identità umana. L’identità umana è formata dal differire, naturale e culturale, di donne e uomini, dal gioco sempre rinnovato della differenza sessuale. Ho riluttanza a parlare, ad esempio, di identità femminile, perché temo che l’identità rischi di diventare una gabbia in cui la donna sia nuovamente rinchiusa, e preferisco affidarmi al gioco libero della differenza. Irigaray ritiene tuttavia che l’identità femminile consista in una propensione alla relazione, in un’apertura all’altro, che impedisce ogni staticità e ogni fissazione in un ruolo. Dunque, nella sostanza, fra noi e Irigaray anche su questo punto la distanza non è grande, nonostante la divergenza terminologica. Nella scelta del termine identità da parte di Irigaray, pesa inoltre l’esigenza di sottolineare la necessità di una certa oggettività, anche per la differenza femminile, affinché la donna possa ritornare a sé senza perdersi nell’altro, affinché possa rientrare nei suoi propri confini e rendersi così disponibile a un autentico incontro.

Il secondo filo conduttore che vorrei far risaltare in questo testo è il tema del desiderio femminile: dopo aver attraversato la questione della crudeltà delle donne, di un’aggressività a lungo repressa, ma che attualmente si esprime apertamente, spostandosi nella sfera pubblica e facendo spesso corpo con le rivendicazioni emancipazioniste, promosse dallo stesso femminismo, Irigaray si sofferma sulla difficile arte di condivisione del desiderio: “Il desiderio rappresenta un in-più di vita che si ricava dalla relazione con l’altro”. (p. 92) Anziché scaricare l’energia nata dall’incontro, cosa che propone in generale la nostra cultura (valga come esempio Freud), l’autrice suggerisce tre vie possibili per condividere il desiderio, e anche per educarlo e coltivarlo: si tratta, in particolare per le donne, di acquietare la propria avidità nei confronti dell’altro/a, e di venire a capo del circolo vizioso di rabbia e aggressività, incentivato dalla sensazione di dipendenza e dalla mancanza di autonomia. Cose queste molto difficili da realizzare nella pratica: nel proprio percorso personale, Irigaray dice di averle apprese appunto attraverso delle pratiche, in particolare lo yoga e il respiro consapevole.

Indica infatti come strade per venire a patti con la violenza del desiderio e per fare di quest’ultimo qualcosa di condiviso, in primo luogo la condivisione del respiro: cantare insieme o respirare insieme la stessa aria in campagna sono modi semplici di rendersi conto che è possibile “condividere nella differenza senza distruggere nessuno/a”. (p. 93)

La seconda strada di condivisione del desiderio è quella che si può sperimentare nel creare insieme: un “fare insieme grazie all’energia nata dal desiderio comune”. (p. 93) Molte pratiche di donne, legate al pensiero della differenza, in Italia e non solo, vanno proprio in questa direzione.

Infine, la terza strada di condivisione è quella del “desiderio per l’altro in quanto tale”: (p. 94) è la più promettente, ma anche la più difficile da praticare, dal momento che la relazione amorosa si è declinata nella nostra cultura o come tendenza a fare uno, in una fusionalità che non rispetta l’essere due, oppure nella coppia attivo/passiva, soggetto/oggett(a).

Con questo, siamo già passati alla terza pista di lettura che propongo in questo mio itinerario, cioè al tema dell’amore. A questo proposito, Irigaray parla dell’incrocio fra l’amore dell’altro umano e l’amore dell’Altro divino: “Amare l’altro come noi stessi equivarrebbe, secondo i comandamenti cristiani, ad amare l’Altro. Questo mistero del cristianesimo non è stato realmente inteso. Implica, mi pare, che la singolarità della persona sia sempre considerata e rispettata prima dell’interesse collettivo. Anteporre l’istituzione cristiana al divenire divino di ciascuno/a di noi non fa parte del messaggio cristiano, secondo me. E questo impedisce  a ognuno di camminare fino ai confini della terra, che lui, o lei, è”. (p. 126) Un amore dell’altro con la minuscola che consenta, in particolare alla donna, di ritornare a se stessa, senza perdersi né perdere i propri confini, è la condizione per avvicinarsi all’Assoluto, lasciandosene toccare. Come già in Etica della differenza sessuale, in cui Irigaray elaborava il concetto di trascendentale sensibile, si auspica qui il diventare parola della carne, e si fa riferimento all’esperienza delle mistiche, in cui il lasciarsi toccare dalla grazia è al tempo stesso un toccare il divino, una carezza data e al tempo stesso ricevuta.

Trattando dell’amore per l’altro essere umano, l’autrice fra anche riferimento al negativo, che viene in primo luogo inteso come mistero, come territorio inappropriabile fra me e l’altro/a. Questo mistero va rispettato e conservato: “L’esistenza di un mistero salvaguarda l’uno e l’altro”. (p. 35) E’ questo un significato di negativo che rimanda, implicitamente e polemicamente, a Hegel: mentre in Hegel il negativo è un modo di appropriarsi dell’altro e di ricondurlo al Medesimo, invece in Irigaray il negativo serve precisamente a preservare l’alterità dell’altro, il mistero della sua singolarità.

Un altro significato del negativo che compare nel testo è quello che nasce dalla negazione maschile della madre, dal matricidio originario che, secondo Irigaray, è all’origine della cultura patriarcale. Questa seconda accezione di negativo è più vicina a quanto l’autrice affermava diversi anni fa nel saggio “Il corpo a corpo con la madre”, in Sessi e genealogie.

Richiamo questi due significati del negativo perché la riflessione di Diotima, negli ultimi due libri (La magica forza del negativo e L’ombra della madre), si è molto interrogata sul negativo: sia quello che capita nelle nostre vite e che, se non viene lasciato fare il suo lavoro, rischia di andare a male, e quello che spesso interviene pesantemente nelle relazioni fra donne, facendole ammalare. Dietro quest’ultimo aspetto del negativo, noi di Diotima abbiamo intravisto l’oscuro materno, i nodi non risolti della relazione con la madre, un’ombra che pesa sui rapporti fra donne e che provoca molti conflitti e sofferenze.

Su quest’ultimo nodo, cruciale per la politica delle relazioni fra donne, Irigaray aveva detto cose molto importanti già in Etica della differenza sessuale. In quest’ultimo libro, la questione è ripresa quando si parla della crudeltà delle donne, ma in generale l’attenzione dell’autrice va, piuttosto che in direzione del negativo, verso il compito, che si può definire etico, di coltivare la felicità, con accenti che volutamente privilegiano il desiderio e il piacere, nella convinzione che solo  una cultura dell’energia, necessaria sul piano sia vitale sia spirituale sia intellettuale, possa consentire alle donne di trovare una via d’uscita rispetto alle molte, troppe ferite e sofferenze che nella storia passata esse hanno ricevuto.