diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Tre ghinee di eredità

Lo specchio in frantumi   

1929-1938: sono le date di pubblicazione della Stanza tutta per sé e di Tre ghinee, i due saggi più esplicitamente politici di Virginia Woolf che, pur proponendosi alla lettura con un loro particolare e interno legame, non sono affatto isolati o straniati rispetto all’insieme della sua opera narrativa e saggistica.

Il filo tenace che tutta la sua scrittura svolge in forme varie e  scintillanti ha un capo che sempre le sue mani tengono ben stretto, un capo che disegna con sicurezza il senso del suo operare e che possiamo leggere come un breve e intenso manifesto di vera e propria poetica: “Pensare le cose come sono” e “Dire la verità”.

Una ricerca artistica che pretende di tenere sempre in mente questa meta non permette, credo, quelle strane operazioni e distinguo per cui c’è la scrittrice, poi la signora della critica letteraria, poi la diarista, poi l’engagé, si sceglie l’una, si scarta o si dimentica l’altra, una è inarrivabile, l’altra difficile e noiosa, quasi fossero persone diverse, e non le diverse figure che appunto assume una ricerca in un’unica determinatissima direzione, quella che a me sembra essere il suo inaggirabile piacere di “scrivere la vita così com’è”. Altra cosa, ovvio, è sapere che questa grande maestra della parola ha cercato, provato e trovato registri diversi per esprimere il proprio mondo, un mondo che è uno, ma è abitato, e sarebbe facile dimostrare che ne era consapevole fin da giovanissima, da due sessi.

Già da questa breve impostazione penso sia chiaro che per me Virginia Woolf, con le parole del suo tempo, è stata la prima capace di “mostrare” cosa vuol dire, per una donna, vivere liberamente, come la fatica, a volte lo strazio, siano però intrecciati a una felicità dalla quale vale la pena farsi toccare, perché la vita vissuta diventi una vita propria, fino in fondo.

Ho detto mostrare libertà femminile e non a caso, perché mai la libertà può essere “dimostrata”, non cerca concetti, sistemi, ma vive dell’esperienza e nell’esperienza; della propria esperienza singolare, non soggettiva, come in modo semplificato molti dicono, la Woolf scrive sempre, nei diari, nelle lettere, nei romanzi, nei saggi. Tagliando così il problema si può vedere tutto il suo lavoro, senza residui, come “politico”, vale a dire come teso a lavorare politicamente il linguaggio, attento e accorto nell’evitare il pericolo per lei più “volgare”, vale a dire l’uso ideologico delle parole che vogliano significare una sola cosa per volta e solo quella. Basta leggere, ma è una citazione possibile fra mille, Il mestiere delle parole, un piccolo e straordinario saggio, cristallino nella sua evidenza rispetto a quanto sto dicendo.

Per questo la prima osservazione che mi viene in mente a proposito sia della Stanza sia di Tre ghinee è che ancora una volta, anche in questi due saggi politici, la Woolf sa tenere profondamente fede alla sua lingua di sempre, all’invenzione, al suo “pensar per scene” per portare all’espressione quanto alla mente si presenta solitamente con la durezza significata del pensiero razionale. A riprova, ennesima riprova che la vita, il conflitto fra i sessi che la abita, la agita, ci seduce, può essere creativamente mostrato più che concettualmente dimostrato, perché il nocciolo della sua verità non proviene solo della mente. Del resto lei è, e ha voluto essere, prima di tutto artista, scrittrice e non filosofa, o pensatrice pura, come si suol dire. Il che non significa ovviamente che non ci sia pensiero nella sua opera, l’arte altro non è che una diversa forma di conoscenza, un’altra lingua della conoscenza, ma vuol dire piuttosto che con lei impariamo che l’idea può formarsi linguisticamente stando radicata nel sentire prima che nel pensare, che la Woolf scrittrice e lettrice dà sempre il primato all’emozione.

In entrambi i saggi la diversa invenzione della forma è necessaria proprio perché la verità, quel poco di verità che si può dire, si affacci nello spazio dell’esperienza e le dia parola, così da costruire nella Stanza il racconto della forza femminile e in Tre ghinee il racconto della libertà femminile.

Nel primo siamo di fronte a un racconto a incastro simultaneo di scene diverse, in cui la temporalità lineare, nel suo svolgersi, non è determinante e riguarda solo la scoperta di una genealogia di scrittrici che l’hanno cronologicamente preceduta, ma nel testo tutto sembra avvenire contemporaneamente, le diverse scene si tengono sul filo del rovesciamento di un’unica emozione, che fa scoprire come il vissuto di esclusione, di oppressione può diventare nelle mani di una donna la leva non di una recriminazione o rivendicazione frustrante e sempre frustrata, ma affermazione della necessità della relazione fra donne perché la forza della differenza femminile si mostri, agisca, venga messa al mondo. La storia di Judith, la sorella di Shakespeare, quella breve, immaginaria biografia straordinariamente incastonata nel terzo capitolo della Stanza, e poi ripresa nel finale nella forma retorica della perorazione, indica il nucleo profondo di questa possibilità di forza, una volta riconosciuto, con riconoscenza, il legame fra la donna comune e la donna eccellente, la possibilità stessa che esista un genio femminile, nutrito, preparato dal lavoro di tante.

Non mi soffermo su questo (che lavora a lungo in un libro che ho in via di pubblicazione) se non per segnalare brevemente il mio disaccordo con quanto afferma Gabriella Bonacchi nel suo intervento sul numero di “Leggendaria” dedicato alle immagini delle torture di Abu Ghraib, in cui si scopre spaventata all’idea che “il lungo lavoro ‘in povertà e nell’oscurità’, di noialtre propugnatrice della differenza femminile” abbia portato come risultato l’incarnarsi della sorella di Shakespeare nella miseria terribile della soldata Lynndie. La Bonacchi si interroga, giustamente, come abbiamo fatto in tante, su quelle immagini, ma davvero non so come sia arrivata a formulare una coincidenza fra quello che mi sembra essere l’esito di una tragica, vuota emancipazione, di una rincorsa mimetica già mille volte proprio dalla Woolf denunciata come vana e inutile – con le sue parole: “poco interessante” (a partire da Phyllis e Rosamond, un racconto del 1906, fino alla Stanza e oltre) – con l’immagine di Judith che per me, al contrario, muore di “differenza” e può rinascere solo per via di “differenza”. Facendo la differenza, tragicamente marcandola nella storia che ci sta alle spalle e che sta a noi cambiare, a partire dallo sguardo che sporgiamo su quella stessa storia, come ha fatto Virginia Woolf.

Bene, detto questo, l’immagine della Stanza da cui voglio partire per traghettarla in Tre ghinee, e che mi ha regalato il titolo di oggi, compare nel secondo capitolo: la scena, lo sapete, è la biblioteca del British Museum; ragionando sorpresa sui molti libri scritti dagli uomini sulle donne, la Woolf insinua una considerazione illuminante, le donne non ne hanno scritti altrettanti sugli uomini non per incapacità, impossibilità materiali e storiche, ma per disinteresse. Dunque non ho scritto altrettanto non perché non potevo, non sapevo, non avevo le condizioni, ma perché l’uomo non occupava quel posto centrale che tutti danno per scontato occupi nella mente e nella vita di una donna.

Sembra incredibile, se non fosse che una ragione potente di questa diversa attitudine c’è eccome e si chiarisce quasi subito; tutta la sarabanda di libri di ogni tipo, presunta profondità e vastità scritti da professori di diverse discipline e saperi possono essere riassunti in uno, che indica il significato nascosto di un bisogno maschile, quello che l’Uomo ha di affermare la propria superiorità sull’Altra. E’ una piccola ma decisiva scoperta dovuta all’orecchio ancora una volta prestato alle emozioni, alle proprie innanzitutto, alla rabbia provata nel leggere il libro di un professore che si affanna a dimostrare l’inferiorità mentale, morale e fisica del sesso femminile, una rabbia sacrosanta e facilmente comprensibile, perché “a nessuna piace sentirsi dire che è per natura inferiore a un qualsiasi ometto”. La mano rabbiosa che sta pigramente disegnando uno scarabocchio, la faccia arrabbiata del professore, fa affiorare una più interessante e meno banale verità. Il professore è a sua volta, e ben prima di lei, preda di un sentimento negativo, contorto e distorcente, una “serpe nera”, scrive infatti “sotto la luce rossa dell’emozione e non sotto quella bianca della verità”, e questo benché tutto il potere sia nelle sue mani, benché nessuno possa negare che l’Inghilterra sia un regime patriarcale, in cui gli uomini fanno lo stato, la religione, la giustizia, l’esercito, i giornali, le università, le banche. Hanno tutto nelle loro mani, un potere immenso, eppure sono così arrabbiati da permettere di capire a una giovane donna perspicace che l’enfasi portata sull’inferiorità femminile altro non è che la necessità di affermare la loro superiorità. Sembra strano tutto questo, a meno che non riusciamo a vedere dietro tanto luccicante potere quel territorio sul quale tutti, uomini e donne poggiamo i nostri poveri piedi, la vita, che è sempre “ardua, difficile, una lotta senza fine”, quella vita che a ognuno/a richiede un “coraggio gigantesco” e soprattutto “fiducia in se stessi”. E’ questo bisogno essenziale, da soddisfare perché alimento del suo stesso potere, che porta il patriarca a immaginare “che moltissime persone, addirittura metà della razza umana, sono per natura inferiori a lui” e a cullarsi tranquillo in questo patetico pensiero finché qualcuna, per caso, per sbaglio, inavvertitamente o, peggio, per indecente malignità non gli insinua il sospetto che forse le cose non stanno proprio così. Basta che una donna cominci “a dire la verità”, da qualunque parte abbia voglia di cominciare, che succede l’inimmaginabile, lo specchio “magico e delizioso” in cui l’uomo rifletteva la sua figura ingrandita fino a due volte si rompe e lo lascia a terra, a pezzi, incapace “di adattarsi alla vita”, mettendolo letteralmente a rischio di morte.

Possiamo allora pensare che di questa antica e vitale complicità siano responsabili le donne stesse: perché si sono fatte specchio? Perché non dicono la verità? Saremmo dunque vittime e carnefici insieme di noi stesse? Il ragionamento qui si sdoppia, guarda con occhio fermo e severo quanto è storicamente accaduto, ma non diventa strabico per misoginia e ci restituisce qualcosa di buono, incuneato in quest’altro qualcosa che buono non è, il potere. Questo potere che fa esistere i Superuomini, lo Zar e il Kaiser, Napoleone e Mussolini, indispensabile a ogni azione violenta ed eroica, alla gloria e alle guerre, si fonda nemmeno troppo segretamente sulla funzione di specchio svolta dalle donne, s’intreccia con la loro silenziosa complicità, s’innalza su una divisione dei ruoli funzionale anche al bisogno di identità di una donna, seppure identità di vittima, eppure senza questa funzione riflettente femminile “la terra forse sarebbe ancora tutta giungla e paludi”, e “staremmo ancora a graffiare la sagoma di un cervo sui resti di ossa di montone”.

Il crinale è esile, non si tratta di un lavoro complementare, nei fatti il rapporto che donne e uomini hanno con il potere è asimmetrico, quindi le due cose non sono paragonabili, e quanto qui affiora secondo il filo di un ragionamento molto sofisticato è il valore di civiltà svolto dal lavoro di ogni donna, quell’essersi fatta specchio non per innata miseria ma piuttosto per amore dell’altro, per amore della decenza, della dignità del vivere assieme, fino a strappare l’umanità intera alla sua primordiale palude. (Non è il lavoro che spesso vediamo compiere proprio da una donna in situazioni di miseria e di guerra? Un bambino lavato e riassettato come si può, un paiolo, un catino stranamente allineati fra le macerie?).

Un lavoro ben fatto che ha prodotto risultati molto controversi (sempre ciò che si fa di un’offerta, generosa o interessata, non dipende solo da questa), che ora possiamo però guardare con disincanto, in un tempo che ormai chiede invece con urgenza la verità, chiama a un compito che ha bisogno di pace interiore, nel senso decisivo con cui ne parla di continuo la Woolf, di mettere a tacere il negativo attraversandolo, attraversando la paura, l’amarezza, la fatica, l’odio fra i sessi per liberare la possibilità stessa di un conflitto necessario ma non necessariamente mortale. Anche con un disarmo unilaterale. Per questo, solo per questo, a una donna sono necessari i soldi, e ben più del diritto al voto, per trovare quella pace della mente che la mette a disposizione del vero.

C’è in questa pagina, almeno per quello che ha detto a me, il salto che annuncia lo specchio definitivamente in frantumi di Tre ghinee. I frammenti di questo specchio non rinviano alla costruzione di un’identità femminile ma parlano di una soggettività in relazione, l’annuncio che si affaccia in quel “disinteresse” femminile è radice dello sguardo della donna “oscura”, anonima, dell’outsider, e comincia a disegnare i primi lineamenti del volto di quell’estranea che irromperà sulla scena nove anni dopo. Seguendo le tracce di questo disegno la Woolf scriverà la libertà femminile in forma di racconto in cornice, una lettera dentro l’altra, un’unica domanda e tre risposte strette in un intreccio la cui origine, di nuovo è un’emozione elementare, accesa da una fotografia di guerra. La guerra come questione teorica, “risultato di forze impersonali”, ci dice la Woolf, non può essere giudicata da una donna, che non “ne ha esperienza”, e quindi usare l’intelligenza, il cervello, la cultura (che nei fatti per lei è l’ignoranza di chi non ha avuto la stessa istruzione degli uomini) per cercare di dirimerne le ragioni è per una donna fatica sprecata. L’avvocato che interroga la donna su cosa fare al fine di prevenire la guerra (tre famose richieste, “sottoscrivere una lettera ai giornali”, “diventare membri della tale associazione”, “dare un contributo in denaro a quell’associazione”) potrebbe perciò essere lasciato a se stesso con tutte le sue buone intenzioni se non fosse che la guerra riguarda invece la natura umana e arriva quotidianamente in casa, colpisce gli occhi attraverso immagini di fatti concreti, fotografie di cadaveri, brandelli di carne, corpi di bambino, case squarciate che suscitano la stessa violenta emozione in uomini e donne, “orrore e disgusto”.

Proprio la comunanza e l’autenticità di questa emozione, di un sentimento dunque di condivisa umanità, permette alla Woolf di trovare la via di una diversa risposta. Tenere al centro del cuore e della mente quell’emozione “così precisa” significa non sciuparla con gesti che mettono a posto frettolosamente la coscienza, ma cercare piuttosto una risposta efficace, che comporti delle conseguenze concrete, in quanto frutto dell’interrogazione sulla propria possibilità d’azione.

E anche qui, faccio una piccola digressione per obiettare alla lettura che di questi passi ha dato di recente Susan Sontag nel suo Davanti al dolore degli altri. Le parole della Sontag, che teorizza l’inevitabile retorica dell’immagine di guerra fino ad imputare alla stessa Woolf la convenzionalità della ripugnanza, ovvero la retorica di quell’emozione condivisa, che viene letta come evocazione di una sorta di affratellamento di tutte le persone di buona volontà, mi sembra davvero sorprendente. Così come mi sorprende leggere che “dopo alcune pagine dedicate alla questione femminista” (?), lei ricadrebbe in un “noi”, fra uomini e donne, dato per scontato, e poi ancora leggere che la Woolf leggendo in quelle immagini “soltanto una generica avversione per la guerra” di fatto così “liquida la politica”. Non capisco o forse capisco che la Sontag, qui, non ha capito niente e volentieri la lascio al resto del suo libro.

Perché per me è proprio questa emozione non sciupata, interrogata nelle sue conseguenze concrete, e soprattutto non vissuta in una separazione paralizzante ed escludente, ma che anzi accoglie il sentire dell’altro come possibile e autentico, ad aprire la strada a quel taglio, a quel vero e proprio gesto di trasgressione sessuata che è l’estranea come abitante di questo mondo e non di un altrove immaginario. Questa emozione finemente interrogata salva l’intero testo, lo fa sfuggire con una sola mossa ai due incantesimi che ancora oggi secondo Milan Kundera avvincono la vita umana, “da un lato il fanatismo, dall’altro lo scetticismo assoluto”.

E con tutta la mia ammirazione, perché Virginia Woolf sapeva a quale rischio andava incontro, conosceva e temeva il disprezzo, il ridicolo, la sufficienza con cui troppo spesso il mondo degli uomini (e a volte delle donne stesse) ascolta la parola femminile, la disinnesca, la tollera compiacente eppure, quando la necessità preme su di lei con violenza di morte, l’autorità della sua parola irrompe nella lingua, le fa trovare la giusta espressione del suo sapere differente della realtà.

Il taglio che annuncia e determina l’originalità del suo dire è la messa a nudo fino all’osso dell’esistenza di due sessi e del conflitto fra loro ed è questa la leva che lancia proprio questo testo verso il futuro, lo rende leggibile e non scontato ancora oggi, perché se i contenuti storici di un pensiero possono variare, essere modificati dal corso del tempo, trovare aggiustamenti che seguono la realtà che cambia, la validità del taglio che interpreta questa realtà, dello sguardo che sa vedere ciò che spesso è invisibile non si sottomette al tempo cronologico con docilità. Il taglio che fa l’interruzione costruisce il proprio presente, il qui e ora che spalanca la differente interpretazione della realtà, perché la porta a significazione per come risulta nel tempo stesso della sua verità dicibile. Non è fuori del tempo ma ripartisce il tempo secondo una nuova apertura del dire, dell’offrirsi della realtà alla parola.

Quell’emozione che la Woolf immagina condivisa non le impedisce certo  un’intuizione potente, che lei per prima ha messo in parola, ossia la stretta connessione tra il patriarcato e i suoi esiti più nefasti, non le toglie il coraggio di dire senza mezzi termini che la radice prima di grandi fenomeni pubblici e politici, il nazismo, il fascismo, affonda innanzitutto nel dominio e nell’oppressione di un sesso sull’altro, nel privato, là dove questa radice sessuata si nasconde e si mimetizza con maggiore facilità, dove è più difficile combatterla.

Nel mostrare qui, così come nei suoi romanzi, la necessità di non separare la vita personale dalla vita comune, di esprimere la complessità dell’esperienza singolare insieme all’esperienza del mondo, la Woolf invera efficacemente e con forte anticipo quella scoperta della politica delle donne degli anni Settanta, da tanti superficialmente derisa, poco compresa e invece decisiva, che si riassumeva nello slogan “il personale è politico”.

Dalla trama fittissima e tutta significativa di Tre ghinee, tiro ora un solo filo, per cercare di capire come, nella prima e seconda ghinea la Woolf prepara l’apparire dell’estranea nella terza.

La prima ghinea ci parla di come sia cambiata la parola “influenza”, quell’influenza che le figlie degli uomini colti possono avere su padri e fratelli, ma per capire questo cambiamento, e dunque come una donna può aiutare la causa della pace, bisogna tenere ben presente la sua diversa esistenza, immaginare con la fantasia una nuova fotografia, quella del mondo degli uomini così come appare “a noi che lo vediamo dalla soglia della casa paterna”. Da questa soglia si può vedere il ponte “che unisce la casa paterna con il mondo della vita pubblica”, da qui si vedono cose stupefacenti, luoghi sontuosi, maestose architetture, abiti che lasciano a bocca aperta, cerimonie strane e complicate, paludamenti bizzarri. Lo sguardo dal ponte di questa donna è lo sguardo dell’esclusa, dell’esule dentro la casa paterna, di colei che per “pensare le cose come sono” ha bisogno di istruzione e lavoro. Senza questi due beni, senza la ghinea data senza condizioni per la ricostruzione del college femminile, le figlie tornerebbero, torneranno, ad essere educate “entro i confini angusti della casa paterna e finiranno quindi, ancora una volta, per esercitare tutta la loro influenza, consciamente e inconsciamente, in favore della guerra”. Viene in luce rapidamente, nel testo, una crepa insuperabile messa allo scoperto fin dall’inizio nella risposta all’avvocato, ovvero che quello scambio apparente fra pari, da lui inaugurato con stupefacente naturalezza perché la donna a cui si rivolge proviene e appartiene alla stessa classe (colta), è falso.

Il secondo bene necessario è l’accesso alle libere professioni e dunque la conquista dell’indipendenza economica, ed ecco riapparire l’immagine cruciale del ponte, “uno dei ponti sul Tamigi, in posizione perfetta per vedere quel che vogliamo vedere”: il corteo dei figli degli uomini colti. Uno spettacolo solenne, toghe e parrucche, fasce e nastri di vescovi, giudici, ammiragli, medici, un tempo guardato “da dietro i tendaggi” della finestra di casa da quelle sorelle che ora invece possono, da protagoniste, salire e scendere le stesse scale, entrare e uscire dalle stesse porte. Ma per fare cosa?

Torniamo alla Stanza tutta per sé, a quel primo capitolo dove Virginia Woolf si era chiesta se era peggio per una donna rimanere chiusa fuori dal cerchio del potere in cui si trovano gli uomini o se non era peggio per un uomo rimanervi chiuso dentro. Qui la grana del ragionamento è la stessa, identica la domanda che è bene porre a se stesse seguendo un imperativo decisivo, quello per cui “pensare, pensare, dobbiamo”, in continuità con quello che abbiamo sempre fatto, anche se ora le condizioni sono cambiate e non siamo più costrette a farlo rimestando “la minestra” o dondolando “una culla”. Pensare, prima di rispondere a domande inevitabilmente stringenti: “abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso? E, soprattutto, dove ci conduce il corteo degli uomini colti?”. Che “‘civiltà’ è questa in cui ci troviamo a vivere?”.

Se il nuovo destino della figlia, ora emancipata, è quello di diventare come un uomo nell’esercizio prepotente della sua professione, perdendo quella capacità di amare, di sentire, che ha reso l’uomo di successo simile a “un povero storpio nella caverna”, perché per fare quattrini ha dovuto rinunciare alla salute, al riposo, agli affetti, ha dovuto atrofizzare tutti i suoi sensi, vista udito linguaggio, “senso dell’umano”, forse invece che arrancare per mettersi in coda al corteo è meglio buttarsi giù da quel famoso ponte sul Tamigi, perché non sembra facile trovare una via d’uscita tra quel che abbiamo “dietro di noi”, il sistema patriarcale, “le pareti domestiche, con il loro nulla, la loro immoralità, la loro ipocrisia, il loro servilismo” e quel che abbiamo davanti a noi, “il mondo della vita pubblica, con la sua possessività, la sua invidia, la sua aggressività, la sua avidità”.

Siamo così di nuovo al centro della stessa contraddizione, che non può essere saltata o ignorata, ma va attraversata costruendo quel legame fra privato e pubblico, intenzionalmente spezzato dall’uomo, consapevoli che la casa privata e la casa pubblica o si salvano insieme o muoiono insieme, perché il mondo è uno solo, anche se una millenaria divisione dei ruoli non lo fa apparire come tale. Questo salto che salva l’esclusa e l’emancipata si attua affidandosi alle madri, a quella necessità “di pensare attraverso le nostre madri”, come aveva detto nella Stanza, affidandosi ai loro insegnamenti di libertà, come dice qui, a quel loro ridere “felici nella tomba” vedendo le loro figlie, farsi figlie delle donne incolte, del loro sapere, della civiltà del loro mondo, capaci per questo di un completo rovesciamento della loro mente e volontà, finalmente autonome dai loro colti padri.

Così istruite, e libere di guadagnarsi da vivere, queste figlie disporranno della loro influenza su padri e fratelli per aiutarli a prevenire la guerra; per questo prima dell’ultima dovevano essere date ben due ghinee, perché tutto si tiene in “una catena di cause interdipendenti”. Dopo due ghinee il disegno delle necessarie relazioni tra figlie e con la madre è già compiuto, la divisione socio-sessuale in ruoli è stata individuata come base di ogni violenza, e a partire da qui il corpo dell’estranea si configura in tutto il suo senso, un senso in grado di abbandonare un’altra parola sempre usata con disprezzo, come un insulto.

La parola “Femminista” può morire perché nell’esaurimento del suo compito rivela come la lotta contro “l’oppressione dello stato patriarcale” fosse la stessa lotta che ora gli uomini combattono contro “l’oppressione dello stato fascista”, come le donne combattessero contro un insetto uguale a quello stesso Tiranno, a quel Dittatore che all’estero, fattosi “più audace”, avanza vittorioso sulla scena della grande Storia. Per questo meritano di essere riconosciute dagli uomini come loro antesignane e dalle figlie come madri di una stessa lotta. In questa continuità che parla a entrambi i sessi è intervenuto finalmente un cambiamento decisivo, gli uomini facendo esperienza dell’esclusione sulla loro pelle (“Ora voi siete esclusi, ora voi siete imprigionati […] siete voi stessi, che arrancate in fila”) non combattono più contro le donne ma al loro fianco e questo cambiamento è esaltante nel suo fare consapevole giustizia di mille torti subiti. Perché quelle donne avevano messo a nudo la necessità della relazione, della mediazione, di un conflitto possibile, da inventare fuori dall’orizzonte della violenza e della morte.

Cosa significa allora la parola Estranea? Come definire e capire il senso della sua azione politica? La necessità di raccogliersi in una  società con caratteristiche precise, senza sedi, comitati, segreterie e fondi, perché deve essere e rimanere “anonima e flessibile”, è una mossa simbolica d’importanza cruciale. La sua arma più potente sarà l’indifferenza, l’indifferenza delle sorelle verso quell’istinto virile dei fratelli che lei non può conoscere né giudicare e che non va quindi né sostenuto, né combattuto. Questo atteggiamento manda in frantumi lo specchio della Stanza, del salotto di casa, quello specchio che l’indifferenza e il riso femminile mandano in pezzi mai più ricomponibili. L’estranea non riconosce la parola patria, non si riconosce se non come straniera essa stessa, non accetta che il suo corpo venga protetto da chi in realtà non fa che metterlo a rischio di morte in nome della superiorità di un paese sull’altro. Sono parole per l’oggi.

L’estranea, è bene chiarirlo per evitare fraintendimenti, non è per questo fuori dalla storia, fuori dalla società, è dentro la storia e dentro la società ma in modo differente, perché ha rovesciato il segno meno dell’esclusione in segno più della sua differenza di sesso, di tradizione, di educazione e di valori. Questo stare fuori, senza più separare la vita privata da quella pubblica, è uno stare dentro tagliato sul filo di una necessaria separazione, non un andare in altro luogo (utopia, atopia?) ma un esserci facendo esperimenti “con strumenti privati in privato” per cambiare la realtà concreta di questo mondo comune, un imparare a criticarlo creativamente. E di nuovo ritorna, quasi ossessiva, l’idea della bellezza, l’idea che uno degli umani compiti sia quello di “aumentare l’esperienza della bellezza”. Fuori da riti e cerimonie irregimentate, la bellezza è ovunque e i suoi frammenti sono a portata di mano, vanno resi visibili affinché l'”inesistente si consolidi”; questo è stato il lavoro silenzioso, sospeso, di Clarissa Dalloway, della signora Ramsay, la capacità di incrementare la bellezza del mondo creando, legando, mostrando, l’essere in relazione. Questo, fra altri passi del testo fa forse capire meglio perché ho affermato all’inizio che tutta la sua opera può essere intesa “politicamente”.

(Faccio un’altra breve digressione: questo lo ha capito anche un uomo, Pierre Bourdieu, che nel suo Il dominio maschile non a caso legge la differenza fra uomini e donne rispetto al potere scegliendo come esempio le pagine di Al Faro, parlando della virilità “come nozione eminentemente relazionale”, funzionale al tra uomini e contro la femminilità, vedendo nel signor Ramsay il principio di piacere radicato nel principio di realtà, parlando della capacità delle donne di “civilizzare”, riallacciando quella catena fra istruzione, professioni, legame pubblico-privato che sono i pensieri donati al mondo per prima proprio da Virginia Woolf.)

Ma torniamo al testo perché si potrebbe pensare che qui la Woolf, più che altrove, si sia abbandonata alla sua imprevedibile visionarietà, mentre al contrario torna puntigliosamente a mostrare che non di visioni si tratta ma di una realtà già presente in piccoli e minuti fatti, fatti correnti nella società, che dobbiamo solo imparare a vedere. Il modello vivente della società delle estranee infatti è già registrato, ma non interpretato, dalle pagine dei giornali: l’atto di coraggiosa “prevenzione” compiuto da una sindaca che si rifiuta pubblicamente “di rammendare una calza in favore della guerra”, la constatazione che le società sportive femminili non hanno bisogno per stimolare “l’interesse per lo sport” di coppe e premi e infine, terzo straordinario esempio, la forza che si può avere con la semplice passività, con l'”essere assenti”, come sottolineano le parole del vicario della chiesa dell’Università. Guardando da vicino questi invisibili episodi ci si accorge di qualcosa che è già al lavoro, di una libertà femminile che scava gallerie sotterranee in grado di provocare dei terremoti: chi avrebbe mai detto che essere passive significa essere attive? Che “facendo sentire la loro assenza, le estranee rendono desiderabile la loro presenza”?

Questo tema, non a caso, è stato affrontato e riformulato dall’ultimo numero del 2002 di Via Dogana intitolato proprio Non starci per esserci, segno della continua necessaria ricerca delle forme di un’esistere efficace, creativo, non sottomesso ai parametri di una politica della rappresentanza, della rappresentazione, rischio sempre mortale per la libertà femminile.

La Woolf dunque non si sta abbandonando a “un’immagine visionaria tracciata a caso”, ma ci sta parlando di qualcosa che era riuscita a vedere come un ritratto vivo, “ispirato da un corpo reale che lavora con mezzi diversi per i medesimi fini” proposti dall’avvocato. Certo bisogna avere occhi attenti e orecchie lunghe per decifrare questi segni, perché la società delle estranee ha assoluto bisogno della clandestinità, quella stessa che ricorda Lia Cigarini a proposito della separazione avvenuta negli anni Settanta con i gruppi di sole donne, gesto dirompente, “estrema sottrazione di sé” che ha creato però “una gamma di posizioni che rendevano e rendono possibile la relazione con l’altro” (Donne uomini anno zero, Via Dogana n.63, prima citata). La clandestinità aiuta la donna a superare una paura che ha ottimi motivi di esistenza, motivi storici e psicologici che affondano in una lunga esperienza di esclusione, di automoderazione, nell’abitudine a un grande silenzio, come tutti gli esempi portati in Tre ghinee fanno capire. La radice di questa paura è il piacere maschile del dominio, una forza inconscia che gli uomini stessi riconoscono operante e che essi stessi chiamano “fissazione infantile”, nome scientifico di quel che lei, da ignorante, aveva semplicemente chiamato larva, insetto. Questa fissazione equivale a quell’emozione intensa, prova di “potenti motivazioni inconscie”, che si risveglia ogni volta che una donna tenta di sottrarsi al dominio maschile. Lo provano ancora una volta le biografie di alcuni padri vittoriani, il signor Barret e la figlia Elizabeth, poeta, il signor Brontë e la figlia Charlotte, scrittrice, il signor Jex-Blake e la figlia Sophie che voleva guadagnarsi da vivere. Solo tre casi, ma analizzati con una sottigliezza che qui non posso seguire puntualmente come meriterebbero.

La fissazione infantile dei padri era una forza potente, “tanto più potente in quanto era nascosta”. Contro questa forza, nel diciannovesimo secolo, si è levata una forza ancora più potente, benché ancora senza nome; non è Femminismo, né Emancipazione (nome anch’esso “inespressivo e corrotto”) nessuna etichetta sembra appropriata per parlare di una forza radicata in “molte e svariate emozioni, spesso contraddittorie”, nemmeno la formula di Josephine Butler – Giustizia, Uguaglianza, Libertà – è in grado di esprimere “il vigore straordinario” che si è sprigionato da quella forza e ha costretto i padri alla resa. Eppure quegli stessi padri che in casa si erano arresi, fuori casa, riuniti “in associazioni, in corporazioni”, hanno la possibilità di esprimere in modo ancor più violento l’emozione connessa al desiderio virile di mantenere la moglie e i figli. Il concetto di virilità, equivalente a quello di femminilità per lei, mette in moto e in gioco una sfida disperata, strettamente connessa con il tabù sessuale. Fu invocata la Scienza, “eminenti craniologi”, hanno fatto incredibili acrobazie logiche per “dimostrare con misurazioni del cervello che le donne sono più stupide degli uomini”, fu invocata la Natura, la legge immutabile che assegna la “creatività” all’uomo, poiché nel corpo “Lui gode; lei si limita a sopportare passivamente”, il ritornello “Le donne non sono capaci…non sono capaci” è diventato un frastuono, un fracasso che ammutolisce, che non rende riconoscibile nessuna parola di donna. Oggi come ieri si può sentire la voce del tiranno Creonte, “d’ora in poi dovranno essere donne, non essere libere”, e Antigone sarà rinchiusa in una tomba non perché aveva voluto violare le leggi, ma perché voleva “trovare la Legge”. Dunque la parola trovata non è né emancipazione, né femminismo, è piuttosto libertà femminile.

Oggi un avvocato chiede aiuto a una donna perché quel padre vittorioso in pubblico fa paura anche a lui; sotto i suoi occhi si può mettere ora una diversa fotografia, non più quella di un corpo umano martoriato fino al punto da poter sembrare quello di un maiale, ma la fotografia dell’Uomo per eccellenza, della quintessenza della virilità: “Ha gli occhi vitrei: feroci. Il corpo, irrigidito in una posa innaturale, è inguainato nell’uniforme. Sul petto sono cucite diverse medaglie e altri simboli mistici. La mano poggia sull’elsa della spada. In tedesco e in italiano si chiama Führer o Duce; nella nostra lingua, tiranno o dittatore”. Oggi è colpevole non vedere il collegamento tra mondo pubblico e mondo privato, il mondo è unico e unica è la vita, non c’è salvezza possibile per l’uno senza l’altro, le due case, pubblica e privata, materiale e spirituale sono inseparabili e se sarà distrutta una sarà distrutta anche l’altra. Anche per l’avvocato quella fotografia è l’immagine del male, anche lui oggi, finalmente, riconosce il “legame” e chiede aiuto; questo apre alla speranza che finalmente sia diventato comprensibile perché ognuna/o può cercare di prevenire la guerra solo seguendo i propri metodi, in nome e in ragione di una differenza che non può essere cancellata. Non ha senso, un senso definitivamente chiarito, firmare il modulo d’iscrizione a un’associazione di uomini, ha senso invece donare liberamente e senza condizioni la terza ghinea, a dimostrazione concreta del proprio aiuto.

A dimostrazione che l’estraneità è una forma di relazione, è la relazione d’amore e di conflitto non mortale, relazione continuamente da reinventare in ragione del nuovo affondo della storia, che sta riempiendo di guerre questo nostro mondo. Di nuovo forse è questa la questione da affrontare, imparare a declinare l’estraneità come trasgressione sessuata che non ci separi dal mondo, visto che abitare il mondo insieme, uomini e donne, vivere la differenza tra i sessi è la chiave di quel conflitto relazionale che dà vita e tenuta al desiderio, all’attrazione e all’amore fra donne e uomini. Ancora oggi insomma, tenere presente Tre ghinee, attualizzare il suo senso profondo, mi sembra indicare la via di una non facile pratica della libertà relazionale, l’unica che può sottrarre donne e uomini all’ipnosi di un individualismo tanto sbandierato quanto sostanzialmente nichilista.

Torino 4 dicembre 2004