diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 10 – 2011

A partire da Alle radici del simbolico di Cristina Faccincani

L’evidenza attesa e imprevista

La pubblicazione di Alle radici del simbolico di Cristina Faccincani è un avvenimento di cui possono venire a conoscenza profonda quelle persone che coltivano una sensibilità particolare per le perle preziose che ogni tanto illuminano la cultura, ance se queste perle non hanno il sostegno della promozione nei larghi circuiti mediatici  cui si rivolgono anche le case editrici. Sembrerebbe perfino il segno di una certa eccellenza quello di iniziare il cammino della propria presenza nel mondo delle trasformazioni culturali quasi sottovoce, senza pretese e senza presunzione.

Pongo questo preambolo dinnanzi a quella che considero una meditazione avvenuta in me per portare acqua al mulino di due forti istanze: proporre alla lettura comune il testo di Cristina Faccincani, nonostante sia un testo non semplice e di psicoanalisi; trovare e mostrare alcune ragioni per cui una psichiatra psicoanalista propone un testo proveniente sì dalla sua pratica clinica ma che non intende appartenere solo a quella essendo scritto con quel respiro delle opere saggistiche poste in interlocuzione con le circostanze storiche. Il taglio di lettura che ho scelto qui desidera dunque provare a incastonare il libro nel presente largo e profondo della crisi a noi contemporanea poiché esso stesso si pone a questa altezza, come fosse un libro di filosofia pratica e praticata, fatta salva ovviamente – lo dico ancora una volta – la sua legittima e prioritaria collocazione nell’inquieto mare della professione psichiatrica.

Si può dire subito che Alle radici del simbolico è una particolare narrazione del valore di trasformazione del pensiero dell’esperienza, specialmente quando questa viene attraversata in una attenta relazione dedita a cercare il territorio non così vasto in cui può avere di nuovo inizio la capacità di pensare e la conseguente possibilità di stare al mondo sensatamente. Già questo non è un valore che può riguardare solo ambiti professionali, ma soprattutto la rimessa in gioco di un’ermeneutica adeguata ai nostri tempi e al mondo stesso travagliato da cambiamenti, emergenze sempre più affastellate e accelerazioni impensate dei mutamenti antropologici. Un’ermeneutica che prende posizione per il testo della vita e che viene praticata scegliendo di prendersi cura di tutto questo, con la consapevolezza di una scelta molto difficile da fare per il fatto che al presenta sembra si debba ripartire da un grado-zero parecchio perturbante. Tanti esseri umani sembra infatti si siano portati a vivere a questo grado zero costituito, mi pare, della materia di cui siamo fatti e fatte, generalmente tornata, direbbero gli alchimisti, allo stato di minerale grezzo e oscuro.

Per l’appunto, le sofferenze psicotiche di cui si prende cura Cristina Faccincani, leggendo la sua narrazione e seguendo le pratiche con cui la malattia viene affrontata, si può dire riflettano la radicalità del mancato o impossibile accesso a quel livello d’essere che ci fa umani in modo così particolare e così poco saputo profondamente. Di certo non è tanto, non è solo la possibilità di pronunciare le parole a tenerci distinti finora dagli altri animali quanto, insegna Françoise Dolto nell’introvabile La libertà d’amare, il ricercare e, a volte, l’ottenere “il calore emozionale e i cuori concordi nella verità.” Le tre cose insieme: calore emozionale, cuori concordi, verità, anche se vale la pena sottolineare quanto sia la ricerca della verità profonda e condivisa a qualificare veramente la condizione umana. Il lavoro di Cristina Faccincani sembra guidare proprio verso la creazione della capacità di cercare le parole adeguate per dire la verità, a sua volta cercata nella creatività del mondo invisibile del sentire insieme. Condizioni imprescindibili per ridare vitalità all’umano raggrinzitosi nel magma oscuro che oggi molti si portano dentro.

La straordinaria postura corpo e anima della psichiatra che può scrivere Alle radici del simbolico sembra debitrice all’impegno assunto nei confronti del trinomio tracciato da Dolto, il che non qualifica solo le capacità terapeutiche fuori dal comune, ma riveste anche di valore politico e culturale un nuovo stile di comportamento che si offre per essere adottato a tutto campo e da uomini e donne in grado di rendersi conto dello stato di necessità in cui si trova oggi la vita associata per la generale perdita di orientamento. In effetti, fatte salve le pratiche terapeutiche in senso stretto e il setting preciso e sicuro in cui si dispiegano ciò che viene narrato in Alle radici del simbolico non è un resto ma qualcosa di ben più centrale: una presa di posizione politica riguardo alle sofferenze inflitte al nostro tempo, un monito accorato rivolto a chi non si accorge della possibile scomparsa dell’amore nelle relazioni per il loro terribile e sempre più diffuso pervertimento che accompagna la decadenza dell’ipermodernità e dei suoi miti.

I casi clinici esposti da Cristina Faccincani hanno un fascino romanzesco per le traversie, i rischi e le prove che paziente e terapeuta devono affrontare insieme. Tuttavia, mentre risulta quasi ovvio che la sofferenza psicotica sottoponga a tutto questo, meno ovvi sono la particolare accettazione dell’esistenza del male, un solido realismo e anche una buona dose di allegra ironia con cui personalmente la terapeuta si avvia in territori così aspri dove la partita è giocata tra vita e morte. Sono posizioni personali che mi fanno venire alla mente una grande ironica narratrice delle vicissitudini umane prodotte dalla presenza di chi incarna il male nelle contingenze storiche e relazionali: Flannery O’Connor, novecentesca americana del sud che seppe guardare in faccia la sofferenza inflitta non di rado con godimento. Flannery O’Connor ha scritto Il territorio del diavolo riferendosi alla terra su cui viviamo per sostenere la fiducia nella possibilità della salvezza dalle sofferenze in un mondo che non renderà le cose facili. La sua si potrebbe intendere come una scrittura dell’attesa della grazia, del ripristino delle condizioni per cui un uomo, una donna tornano in grado di pensare, di immaginare, di amare per grazia di un incontro o di un evento provvidenziale. Trovo nelle vicissitudini accettate e sostenute da Cristina Faccincani e dai suoi pazienti un andamento analogo, appropriato a chi acconsente a stare nel reale conflitto-confronto con ciò che può dare la morte (della psiche, della vita interiore, della vita tout-court…) senza farsene affascinare, ma anche senza negarne l’esistenza e la forza. In questi scontri non ci sono ricette né formule preconcette, né interpretazioni disponibili: ci sono certo dei saperi a cui attingere come orientamento e come disciplina personale, ma poco o nulla che sappia dare contenuti, parole, intuizioni certe. Ci vuole molto altro per portare chi soffre di psicosi alla nascita al simbolico. L’analogia con la scrittrice dell’attesa della grazia procede anche per il coraggio con cui la psichiatra accetta anche se non legittima l’esistenza di ciò che produce la più profonda sofferenza, ma procede soprattutto per la ferma fiducia che le traversie della sofferenza più abissale, se accompagnate, possono portare a contatto con la grazia imprevista, con la gratuità dell’evento che innalza a un altro livello la vita. Nel caso speciale del lavoro di psichiatra di Cristina Faccincani, agisce la “ferma fiducia” che possa accadere, nel corso della relazione terapeutica, un evento che con la sua evidenza di senso salutare e veritiera possa originare il ri-venire al mondo di una soggettività pensante là dove fino a poco prima c’era solo materia oscura e grezza.

L’evento che fa nascere al simbolico è atteso fiduciosamente ma accade improvvisamente e si colloca nello stesso luogo dove si colloca l’azione della grazie: nell’impersonale, in uno spazio creato sì dalla relazione tra terapeuta e paziente, ma non appartenente né all’una nell’altro/a e proprio per questo capace di ospitare ciò che esula da ogni agire e da ogni volontà individuale. Evidenza attesa e imprevista. E’ questo quasi-ossimoro l’apporto decisivo offerto dalla terapeuta perché vada a pesare sul piatto della bilancia dalla parte della vita, perché faccia da contrappeso alla disumanizzazione e all’erosione interiore prodotta dalla lotta con la morte. Tutto sta nel preparare spazio, attesa e ferma fiducia che la vita possa essere più amabile e desiderabile della morte. Il che non è scontato, nel mondo oggi forse più di ieri.