diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Lingua dell'altro

L’esperienza della lettura come esperienza del potere delle parole

*Questo testo è la seconda lezione di un corso che terrò presso l’Università di Barcellona  nel maggio 2010 su Il potere delle parole, organizzato da Duoda per il master “Estudis de la Llibertat femenina”.

 

 

Ci sono più modi di entrare in contatto con il potere originale proprio delle parole. Uno è la lettura.

Sarebbe più giusto dire: ri-entrare, perché il primo contatto con quel potere fu quando abbiamo imparato a parlare. Ma di quel contatto originario non so se possiamo dire che ci fu esperienza. E se anche potessimo, sarebbe un indicibile. Imparare a parlare rende dicibile l’esperienza, per definizione. La rende possibile, addirittura, se è vero che l’esperienza è presenza di qualcosa a qualcuno: è facendo segno che qualcosa si rende presente a qualcuno.

Ma la presenza stessa non si lascia afferrare dalle nostre rappresentazioni, anche le più vere, perché è inesauribile. Che lo sia, un indizio lo abbiamo dal fatto che la qualità dell’esperienza è migliorabile, in un processo di cui noi non tocchiamo il fondo perché finisce nell’estasi, cioè nel naufragio del soggetto.

Questo enigma della presenza ha portato alcuni a concludere che al principio, nel luogo dell’origine, non c’è niente. È vero che se vai al prima di “questo” e di “quello” per afferrare la presenza, non afferri niente. Ma è sbagliato concludere che allora non c’è niente. Clarice Lispector, verso la fine della Passione secondo GH, conclude diversamente:

 

“Io ho a mano a mano che designo – ecco lo splendore di avere un linguaggio. (…) Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però – ritorno con l’indicibile. L’indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio. E solo quando la costruzione si incrina io ottengo ciò che questa non è riuscita a ottenere”.[1]    

 

L’esperienza della lettura è una ripresa di quel principio della parola che si chiama imparare a parlare,  ma nella versione dell’imparare a leggere e a scrivere. Qui devo omettere montagne di questioni e di discorsi che riguardano la nostra assimilazione all’universo dei segni imparando una certa lingua che una non è, data la sua natura anfibia, vocale e grafica. Solitamente, si dà la precedenza alla lingua orale rispetto alla lingua scritta, ma non dovremmo trascurare, come dirò tra poco, che una certa capacità di leggere i segni si sviluppa indipendentemente dalla lingua scritta e perfino prima che abbiamo imparato a parlare.

Si tratta comunque e sempre di entrare a far parte di una comunità linguistica con i suoi usi e costumi, e di imparare a immettere e a ritrovare tutto quello che ci capita di essere, vedere, sentire, desiderare e pensare, nei segni di quella lingua particolare, assistita da una serie di linguaggi satelliti del corpo e della gestualità.

Si viene al mondo con la capacità d’imparare perfettamente qualsiasi lingua, capacità che perdiamo in buona parte imparando a parlare, che equivale a imparare la lingua che parlano le persone con cui la nascita ci mette in relazione, la cosidddetta lingua materna, che spesso non coincide con la lingua nazionale, può essere anche un dialetto o la versione locale di un dialetto.

Questo esclusivismo che caratterizza la prima lingua, è una manifestazione del potere delle parole. Quelle che arrivano per prime a designare, risultano più potenti di quelle che arrivano secondariamente, nel senso che sono più potenti nella restituzione dell’esperienza. La restituzione dell’esperienza è una nozione che approfondirò.

 

La lettura di testi scritti è una pratica simbolica antichissima, che però ha interessato solo una parte dell’umanità, ci sono grandi civiltà che si sono sviluppate con una cultura orale, integrata dalla capacità di lettura di segni non artificiali, segni che vanno dalla mimica del volto umano ai disegni della volta celeste, passando per le innumerevoli tracce di cui è disseminato l’universo mondo. Quando parliamo di lettura, dovremmo specificare se ci riferiamo a segni inventati e copiabili. Non possiamo infatti negare l’abilità della lettura alle civiltà dell’oralità, sarebbe una sciocchezza enorme.

 

L’invenzione della stampa prima e la scolarizzazione di massa poi hanno contribuito a diffondere e a specializzare la pratica della lettura. Con “specializzare” intendo dire che la lettura si è separata dall’oralità ed è diventata individuale, così come noi la conosciamo oggigiorno. In passato, quando i libri erano pochi e poche le persone che sapevano leggere, lettura, ascolto, scrittura e oralità erano pratiche che si mescolavano fra loro in varie combinazioni.

Margherita Porete († 1310), una beghina istruita che cita la Bibbia in volgare, autrice dello Specchio delle anime semplici, si rivolge ai suoi lettori chiamandoli “uditori”: non solo lei ha in mente la situazione di una persona che legge e di molte altre che ascoltano, s’indovina in più che la sua attenzione è rivolta di preferenza alle seconde: forse considerava il lettore alla stregua di un mezzo tecnico. Anche la pittura ha lasciato documento della lettura-ascolto, mi viene in mente una delle pinturas negras di Goya dove si vede un uomo che legge il giornale ad altri che lo ascoltano attentamente. Chissà che cosa sta loro leggendo: una notizia politica di enorme importanza? un invito all’azione? un fatto di cronaca nera? Per via materna è giunto a me il racconto della lettura dei Promessi sposi (un romanzo storico considerato fra i capolavori della letteratura italiana del sec. XIX) che si faceva d’inverno al caldo delle stalle da una persona scolarizzata a persone analfabete o quasi.

Esiste una storia della lettura e alcuni cercano di ricostruirla. Qui mi piace ricordare il saggio ricco e innovativo di Tiziana Plebani, Il “genere” dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo e età moderna (Franco Angeli, Milano 2001). Lo caratterizza l’attenzione, con l’attenzione per i soggetti femminili, troppo scarsa nella storiografia tradizionale, l’interesse per i corpi, gli ambienti, le pratiche quotidiane, ricostruiti con il ricorso alle fonti iconografiche, scelte con cura.

Tra le fonti iconografiche della nostra tradizione spicca la figura di Maria di Nazaret che legge, in una serie di situazioni la principale fra le quali è l’annunciazione: il messaggero celeste trova Maria intenta nella lettura. Questa immagine ne ha prodotto un’altra, quella di Anna, madre di Maria, che le insegna a leggere

La lettura, tanto nella forma della lettura personale quanto in quella della lettura-ascolto, produce una immobilità relativa dei corpi e un atteggiamento ricettivo della mente. Anche questi sono effetti del potere delle parole. Nonostante l’immobilità, l’esperienza della lettura non è passiva. Anzi, proprio nell’immobilità abbiamo un indizio della grande attività che svolge la persona che legge. L’immobilità fisica è richiesta dall’attività ricettiva e dalla interna risposta di un’invisibile attività mentale cui il corpo contribuisce, con il suo risparmio di energia, e partecipa, con i suoi ritmi fisiologici. Teniamo conto, come insegna la linguistica, che il contributo di pensiero del soggetto ricevente è normalmente prevista dal soggetto parlante o, nel nostro caso, scrivente. Non solo quel contributo gli permette di economizzare molto lavoro simbolico, gli dà anche la speranza di essere inteso più e meglio di quello che lui o lei è in grado di significare.

La lettura, oltre a immobilizzarci, ci isola dal resto del mondo, perché monopolizza la vista (o l’udito) e inibisce gli altri sensi, più o meno secondo il grado della nostra concentrazione mentale. Ma l’esperienza che facciamo con la lettura non resta separata dall’insieme dell’esperienza. Tutto quello che ci accade leggendo, che sono pensieri, affetti, emozioni, quando la fase di sospensione nei confronti del mondo circostante sarà terminata e noi torniamo al mondo, con questo mondo dovrà fare i conti, con effetti che talvolta sono sconvolgenti.

 

La nostra tradizione letteraria è ricca di esempi di letture che invadono la vita ordinaria e ordinata. Mi soffermerò su tale fenomeno, che potremmo così caratterizzare: dall’evasione della lettura all’invasione dell’esistenza.

Vi faccio notare, per inciso, che leggere di altri o altre che leggono apre un gioco di specchi che intensifica la nostra esperienza di lettura. È come specchiarsi nel fondo di un pozzo.

Un famoso esempio letterario lo offre Dante nel canto quinto dell’Inferno, dove leggiamo la vicenda dell’amore colpevole di Paolo e Francesca, lui fratello minore del marito di lei. Il marito uccise entrambi. Il fatto e i personaggi sono storici e alquanto vicini a Dante, che immagina di ritrovarli all’inferno, nel cerchio dei lussuriosi, durante il suo viaggio nell’aldilà. L’inferno, che era vuoto secondo le beghine sue contemporanee, per Dante invece era pienissimo di umanità, comprese certe persone, come questi due amanti, per le quali egli provava profonda pietà. Ma si tratta di due peccatori, colpevoli di adulterio e in lui, Dante, fra la legge e la compassione si apre un conflitto drammatico in cui il senso della legge prevale ma a stento, con effetti mirabili dal punto di vista poetico.

Dante inventa che i due, ora condannati a una pena eterna, quando erano su questa terra si scoprirono innamorati leggendo insieme un romanzo medievale, quello dell’amore tra Lancillotto, cavaliere della Tavola Rotonda, e la regina Ginevra, sposa del re Artù. E immagina che il racconto venga fatto dalla donna in risposta a una sua precisa domanda. Chiede il poeta a Francesca:

 

“Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,

a che e come concedette amore

che conosceste i dubbiosi disiri?”

 

La passione amorosa, fino allora tenuta segreto da ciascuno dei due, si manifestò nello specchio di parole che narravano una storia lontana ma tanto simile alla loro.

Francesca esita a rispondere per il troppo grande dolore che causa il “ricordarsi del tempo felice / ne la miseria” (Inf. V 122-123), ma acconsente alla richiesta, mescolando lacrime e parole:

 

“dirò come colui che piange e dice.”

 

Racconta dunque di sé e di Paolo che, un giorno, per loro diletto, leggevano la storia dell’amore di Lancillotto. Eravamo soli, precisa Francesca, e “senza alcun sospetto”, cioè ignari di quello che sarebbe accaduto come anche di quello che ciascuno aveva nel cuore. La lettura si fece via via così appassionante da farli impallidire più volte, ma quello che li vinse fu un punto preciso:

 

“Quando leggemmo il disiato riso

esser baciato da cotanto amante,

questi che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò tutto tremante.”

 

In quel punto, dice Francesca, la lettura cessò. La lettura s’interruppe così come si rompe un argine, e i due precipitarono, abbracciati, nel reale, nella morte e nell’inferno, un gradino dopo l’altro. Anche il canto quinto dell’Inferno dantesco finisce con una drammatica interruzione: mentre la donna disse le ultime parole, il suo compagno piangeva e il poeta fu preso da tanta pietà che svenne e cadde al suolo, come fosse morto.

 

Chi conosce la lingua e la letteratura castigliane, sicuramente non può non aver pensato a Don Chisciotte, sommo esempio di personaggio che ha la mente esaltata e la vita sconvolta dalla lettura. Come noto, la sua unica lettura erano i romanzi cavallereschi.

Il caso inventato dal genio di Miguel de Cervantes richiama, senza ombra d’irriverenza da parte mia, quello storico di Teresa d’Avila. Di lei dirò ben poco, ma sono ben consapevole di quanto grande e centrale dovrebbe essere la sua collocazione in una ricerca dedicata al potere delle parole. La santa si nutrì di letture e di scrittura, il suo metabolismo simbolico fu di un’intensità che la portò vicina al rogo e sugli altari. Visse pochi decenni prima di Cervantes, nello stesso tipo di cultura, ammesso che si possa parlare di una stessa cultura quando a viverci è un uomo oppure una donna. Credo di sì che si possa, ma a condizione di ripensare in profondità la cultura, come ha cominciato a fare la migliore storiografia femminista.

Narrando la sua vita spirituale fino al 1565 (morirà nel 1582, all’età di 67 anni), Teresa racconta che sua madre e lei stessa, da giovane, erano lettrici appassionate dei libri di cavalleria. “Era aficionada a libros de cavallerías”, scrive della madre (Libro de la vida, 2). Lo dice con riprovazione. Il capitolo comincia con queste parole: “Paréceme que comenzó a hacerme mucho daño lo que ahora diré”. Si preoccupa tuttavia di assolvere la madre: nel suo caso si trattò di un lieve difetto che non le fece danno, la spingeva solo a sbrigare velocemente le faccende di casa per tornare alle sue letture. Il che la dice lunga sulla passione di quella madre di famiglia, e di tante altre come lei, per i romanzi…

Questa testimonianza merita di essere commentata. Lo fa Tiziana Plebani nel libro citato sopra: le parole di Teresa ci confermano l’importanza che rivestiva un certo tipo di letture nella cultura femminile, e documentano, al tempo stesso, anche gli effetti scoraggianti che ebbe sulle letture femminili l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti. In conseguenza di questa istituzione, scrive la Plebani,  “quella vocazione delle donne a leggere e ad ascoltare storie sempre più sarà vista di cattivo occhio, scaduta culturalmente, sorvegliata e perseguita nei monasteri femminili. La lettura dei romanzi cavallereschi e delle novelle che tanta parte aveva avuto anche nell’alfabetizzazione femminile, riceveva così un marchio d’inferiorità e di sospetto che si riflette, ormai assorbito, nell’autobiografia di Teresa ” (Il “genere” dei libri, cit., p. 47).

A causa del suo pregiudizio, aggiungo io, Teresa non vide quello che a noi appare per altro quasi evidente e cioè come quella passione di leggere e quelle letture che la appassionarono da ragazza, tanto più influenti in quanto condivise con la madre, abbiano contribuito positivamente alla formazione del suo immaginario e siano servite a tendere la corda del suo desiderio oltre le limite misure consentite dall’ordine patriarcale.

Inserisco due frammenti della mia storia di lettrice, che riguardano, uno la mia formazione, l’altro il mio legame con la Libreria delle donne di Milano. In questa esposizione entrano a causa di due parole appena ascoltate nella citazione della Plebani, “inferiorità” e “sospetto”.

Il rapporto con mia madre ha contato molto nella mia formazione. Fra lei e me passava una precisa e ben nota frontiera che ci divideva e ci univa al tempo stesso. Parlo della frontiera che separa le donne per le quali l’anatomia fu (o ancora è) destino, e quelle che invece, rese autonome grazie allo studio e al lavoro, decidono personalmente del loro percorso esistenziale, accettando, ritardando o escludendo il matrimonio e la maternità. Mia madre, unica femmina tra fratelli che furono tutti avviati a studi superiori, con sacrifici familiari di cui anche lei, esclusa dagli studi che avrebbe amato fare, doveva portare il peso, si identificò in qualche misura con me che studiavo. Ma non concepiva che io facessi letture che non fossero scolastiche o edificanti, le altre le apparivano sospette e vi si opponeva. Questo provocò in me molta rabbia e il ricorso a parecchi sotterfugi, ma non un’aperta ribellione. Preferii un compromesso, che consisteva nel concedermi letture non scolastiche né edificanti ma molto impegnative, offerte da libri di case editrici serie e importanti.

Molti anni dopo, quando partecipai al progetto della Libreria delle donne di Milano, che si aprì nell’autunno del 1975, mi resi conto di uno squilibrio che c’era nella mia cultura quanto a letture. Avevo letto molti studi e saggi, pochi romanzi; e fra questi, conoscevo per lettura diretta scrittori anche rari e difficili ma quasi nessuna scrittrice. L’eccellenza femminile nella scrittura di romanzi fu per me una scoperta. Cominciò allora una serie di letture che non è ancora terminata, segnata da una netta preferenza per le opere femminili,  e paragonabile a una lenta e sicura rimonta di quella “inferiorità” di cui parla Tiziana Plebani.

Tuttavia, dentro di me, le parole di deprecazione di Teresa d’Avila per le letture d’evasione, continuano a trovare un certo consenso. Nel mio sentimento, l’etichetta che si dà a certe letture chiamandole “d’evasione” non è peggiorativa ma realistica. Essa parla di quel fenomeno a due facce cui ho già accennato. Una è l’evasione vera a propria dalla prigione di una realtà talvolta noiosa o faticosa, come quella vissuta, suppongo, dalla madre di Teresa, Doña Beatriz de Ahumada. L’altra faccia è la cattura dentro al mondo fantastico, una cattura che rende provvisoriamente indifferenti alla realtà ordinaria. L’evasione si traduce così in un’altra forma di prigionia, forse più piacevole ma per certi aspetti più temibile.

Perciò io vagamente dissento dalla Plebani che nelle parole di Teresa ravvisa unicamente il riflesso dell’opera repressiva esercitata dalla Chiesa su un certo tipo di letture fatte da donne. Penso infatti che chi ha conosciuto in alto grado la passione per le letture, come quella che Teresa attribuisce a sé e a sua madre, e che io stessa ho conosciuto (e che forse la stessa mia madre conobbe nella sua giovinezza, come ho intuito da qualche indizio), non può non concepire un certo timore verso la cattura dei libri. Quali e perché? L’Indice dei libri proibiti, a distanza di secoli e di un grande cambiamento di civiltà, ci appare come una risposta dispotica e arbitraria a questa domanda. Ma la domanda è sensata. Ci sono libri, o meglio, ci sono letture (cioè testi e modi di leggerli) che non ti fanno rientrare pacificamente in te e nella vita di tutti i giorni e che, per questa ragione hanno qualcosa di temibile.

Il timore, secondo me, è giustificato. Lo ispira il potere dei segni. Un potere che produce i suoi effetti anche dentro di me, arrivando a mutarmi e a cambiare il mio rapporto con la realtà, ispira un giustificato timore.

[1]              Clarice Lispecor, A Paixao segundo GH, Editora Nova Fronteira, 1986, p. 172. La tr. it. è di Adelina Aletti per l’ed. La Rosa di Torino.