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per amore del mondo Numero 7 - 2008

Lei non sa chi sono io

Lei non sa chi sono io

“Dobbiamo rinunciare a conoscere coloro ai quali ci lega qualcosa di essenziale; voglio dire che dobbiamo accoglierli nel rapporto con l’ignoranza in cui ci accolgono, anche noi, nel nostro allontanamento” (Maurice Blanchot)

“Il mondo va avanti solo grazie al malinteso. È grazie al malinteso universale che tutti si trovano d’accordo. Se infatti, per disgrazia, ci si comprendesse, non ci si potrebbe più mettere d’accordo” (Charles Baudelaire)

 

Fantasie di linguaggio

 

Lei non sa chi sono io. E’ difficile figurarsi questa espressione sulla bocca di una donna. L’immagine che viene in mente è piuttosto quella di un uomo che la proferisce con tanto di punto esclamativo, rivolgendosi con tono arrogante e piccato a qualcuno reo di non averne riconosciuto con l’identità il ruolo, la forza, la posizione sociale, che minaccia di far valere per far ritornare vendicativamente al suo posto chi non lo ha riconosciuto e rispettato.

Mai sentito una donna dirlo. Fatico a immaginare lo dica ad un uomo: forse che una donna fa valere il suo posto nella gerarchia con un uomo? Ma fatico anche a immaginare quell’espressione rivolta ad un’altra donna: solitamente le relazioni tra donne non si regolano secondo il rispetto dell’ordine dei ruoli sociali. Quella frase è antipatica[1] e invece mi fa simpatia che sia estranea alle abitudini femminili, mi piace pensare che ci sia meno ossessione identitaria, minore dipendenza dai ruoli precostituiti per il senso di sé, meno attaccamento alla rappresentazione della propria immagine, più disponibilità ad entrare nei rapporti con libertà di giocarsi nel contesto presente, più capacità di reggere l’ambiguità e magari persino la non rispondenza delle situazioni a quel che sentiamo o pensiamo di essere.

Per questo quella frase mi è parsa alludere anche ad un altro significato, molto diverso, e ho preso ad ascoltarla in questa differente risonanza che può richiamare nella voce femminile, lasciandomi guidare in una sorta di reverie dalle parole, dalle loro associazioni e dagli echi, dalle situazioni che richiamavano.

Lei non sa chi sono Io… quella che non lo sa dire parrebbe dunque una Lei che non sa bene riconoscere le pretese dell’Io, che non sa attribuirgli il ruolo che rivendica. Mi immagino una simpatica Lei che non sa stare bene al suo posto, che dice cose sbagliate alle persone sbagliate, dissonante nei contesti dove si muove e magari nemmeno imbarazzata, una gaffeuse che fatalmente incappa in involontari incidenti diplomatici.  Ma anche una intenzionale Lei mina vagante delle regole stabilite, trasgressiva dell’arroganza dell’identità, provocatrice consapevole o più sovente stupefatta pietra dello scandalo. Conosco parecchie donne, specie tra quelle “diseducate” dal femminismo, che rispondono piuttosto da presso a questo ritratto, e spero di essere tra loro.

E poi mi figuro una Lei che forse neppure per quanto riguarda se stessa si ritrova granché in questo tanto gloriato Io. Una Lei che stenta a riconoscervisi, almeno continuativamente o financo nella stessa giornata, una che pur con tutto l’impegno profuso quell’Io non riesce a incarnarlo come si dovrebbe, a quel che si dice, e si tormenta nello sforzo di rispondervi, e ne soffre. Ma anche no, e magari ha smesso di pensare che la propria vita si debba srotolare lungo i canoni di un’autobiografia, né tantomeno di essere l’eroina di un romanzo come quelli (ma che belli però!) delle scrittrici che leggeva da ragazza.

Solitamente corre avanti e indietro da un posto all’altro cambiandosi freneticamente d’abito e poi alla sera trova davvero impraticabile l’esame di coscienza che le hanno insegnato da bambina, e magari esce pure pazza, oppure lavora duro correndo ancor di più per pagarsi un’analista (apostrofo, analista donna, naturalmente, ma poi finisce a sospettare che “lei non sa chi sono io”).

Magari invece, o non invece, questa Lei si sente il perfetto maturo frutto di un intero secolo di crisi del soggetto,  e poi della dissoluzione postmoderna dell’io. E ciò nonostante dove si trova, lì dice Io.

O nel tentativo di ritrovarsi si è data a pratiche spirituali scoprendo che conviene accogliere con favore la morte dell’Io. Oppure ancora è una Lei che ha letto Irigaray, o Butler o altre e la mascherata non le fa problema, anzi, e agisce performativamente i ruoli come decide di assumerli nelle circostanze più varie e ci si trova a suo agio. Oppure ancora tutte queste cose insieme, dipende, ma comunque questa Lei troverebbe difficile rivendicare con tanta sicumera L’Io della proverbiale frase.

E d’altro canto sospetto che la titolare di questo così poco definibile Io reagirebbe vibratamente a qualsivoglia tentativo di identificarla in un Lei, sbottando appunto in un netto “Lei non sa chi sono io!” di tono peraltro molto diverso da quello dell’uso più proverbiale, dove l’identità in questione sarebbe più quella della singolarità del proprio nucleo più intimo e della storia del proprio percorso[2].

Mi è più facile figurarmi altre situazioni nelle quali quella espressione verrebbe usata da una donna, penso a quelle volte che la ho pronunciata dentro di me a fronte di un sentimento di distanza da parte di un’altra donna. Il tono era allora di delusione, la registrazione di uno scacco della relazione: l’altra con la quale condividevo il piacere dell’intesa, l’agio della rispondenza, la facilità della comprensione, la comunanza del sentire, l’amica le cui parole sentivo corrispondere e riprendere le mie d’improvviso mi appare estranea, lontana, dissonante nel dire e nel sentire. Le sue parole e le sue azioni mi si rivelano con un altro senso, differente, differentemente inteso. Le parole non scorrono più, non scivolano più, diventate come scabrose e piene di spigoli, la comunicazione è piena di asperità, da un lato, e dall’altro pare girare a vuoto senza far presa nel profondo, come se la mente si fosse fatta ottusa e catafratta e non ci fosse più alcun spirito ad animarla. Il clima è cambiato, l’aria è densa e persino il volto dell’altra è mutato, impenetrabile è difficile a riconoscere, e nel suo specchio possiamo intuire quanto il nostro stesso volto sia cambiato e dal suo eco quanto suonino diverse anche le nostre parole. Lei non sa chi sono io… ma forse nemmeno io lo so più tanto bene.

Dubito che qualcuna sia sfuggita ad un’esperienza di questo genere. La frequenza e la sofferenza dei conflitti tra donne sta lì a testimoniarlo, e la difficoltà di elaborarne l’accaduto e di andare avanti nella relazione, che sovente non sopravvive, testimonia di come qui si manifesti un nodo difficile da sciogliere[3].

L’asprezza di queste crisi relazionali ha naturalmente a che fare con l’agire di quello che abbiamo chiamato l’ombra della madre che si staglia sui rapporti tra donne[4], ma qui voglio guardare la questione da un’altra prospettiva, quella dell’idea di comunicazione e di linguaggio che interviene in situazioni di questo genere. Anche a partire di questo angolo visuale, comunque, si profilerà la figura della madre, che non può che venir focalizzata quale primo riferimento dell’apprendimento della lingua materna e quindi appare necessariamente implicata anche per questo verso nelle situazioni che ho descritto.

In queste occasioni, dunque, scopriamo quanto è fragile il legame comunicativo, quanto il connettivo delle parole sia viscido, scivoloso e possa perdere la sua tenuta al venire meno di una varietà di altri elementi di coesione.  Vediamo quanto dell’intesa non dipendesse dalla condivisione di un medesimo riferimento di significato, quanta ambiguità e fraintendimento ci fosse, quante zone oscure nell’apparente chiara intesa dei nostri discorsi. Misuriamo poi quanto possano essere impotenti le parole di chiarificazione che ci affanniamo a rimettere in campo nel tentativo di ritrovare la comunicazione. Ci diciamo quanto ci fossimo ingannate o illuse di capirci quando ci capivamo… eppure ci capivamo.

 

Sogni e incubi di linguaggio

 

Niente di straordinario: questi che appaiono come amari risvegli sono stati il vero e proprio ordinario incubo ricorrente della filosofia in generale e delle filosofie e teorie del linguaggio in particolare.

C’è addirittura da chiedersi cosa ne sarebbe della nostra tradizione filosofica se non fosse stata tormentata, e persino svegliata al suo primo mattino, da quell’incubo. Se ancora infante non avesse vissuto il trauma originario della cosiddetta rottura della mitica identità eleatica di essere-pensiero-linguaggio immettendosi in una davvero snervante storia dominata dalla coazione a ripetere sia del trauma sia delle reazioni al trauma stesso. La storia della filosofia, così come la si insegna (e anch’io lo faccio) e così come la conosciamo nella sua traiettoria maestra sembra prendere l’abbrivio risolutivo dalla domanda socratica: ti esti? che cos’è?[5] A lì si fa risalire la lunga vicenda della ricerca della “definizione”, ma in senso più ampio l’Odissea dell’impresa filosofica come missione volta a recuperare la garanzia di un uso univoco del linguaggio e di una comunicazione veritiera e affidabile di contro alla crisi indotta dalla sfida sofistica nella fiducia nel logos. La sfida era davvero formidabile, quel che veniva sollevato era un dubbio radicale sulla capacità di pensare la realtà, significarla ed esprimerla nel linguaggio e infine comunicarla ad altri[6].  Forse è, forse non è, forse non pensiamo le cose come sono, forse le parole non rispondono ai pensieri e a ciò che sentiamo, forse il linguaggio ci tradisce, forse quel che diciamo non è inteso dagli altri, forse gli altri sono e sentono diversamente, forse non ci capiamo affatto quando ci parliamo. L’altro non sa cosa sono, sento, dico.

L’altro, ma meglio sarebbe dire l’altra, perché è colei che all’inizio ci ha parlato introducendoci alla lingua, che non ha caso si chiama materna, ad essere la prima a venir investita da questa traumatica crisi di fiducia nel linguaggio.

Dietro quel trauma se ne può allora intravedere uno ancora più profondo, quello della perdita della prima attitudine fiduciosa che sperimentiamo quando impariamo a parlare dalla madre, esperienza la cui condizione stessa è la fiducia nell’autorità materna anche come origine della parola e della sua capacità di significare affidabilmente. E la movenza di questa crisi è del tutto analoga alla platonica filosofica conversione dello sguardo (periagogé) al centro del mito della caverna: lì ci si allontanava dalla matrice materiale della vita, qui dalla lingua materna[7].

Il movimento è il medesimo: l’allontanamento dalla madre e da ciò che abbiamo preso da lei, corpo e linguaggio, per volgersi ad una nuova disincarnata autorità che comporti anche un logos diversamente inteso cui affidare lo stesso senso di realtà e che trovi il suo punto di appiglio necessario e assoluto altrove da quella prima contingente origine.

L’impulso dato da quel primo traumatico movente ha spinto la filosofia su una lunga via che non ha cessato di battere con una tenacia e una ripetitiva ossessività che ripercorrono, appunto, il tipico modello della risposta ad un trauma che ha violentemente minacciato la nostra vita e le nostre precedenti sicurezze. Basta ricordare quanto ritorni nella storia del pensiero non solo filosofico ciò che solitamente si ascrive alla “ricerca della lingua perfetta”, ma anche oltre i confini di quel capitolo innumerevoli teorie si sono articolate  attorno all’obiettivo, presupposto insieme fondativo e salvifico, di conseguire la chiarificazione del linguaggio. Di evitarne gli inganni, l’ambiguità, gli usi impropri e imprecisi, di disinnescarne l’implicita pericolosa vaghezza o la possibilità del fraintendimento, dell’incomprensione o di un suo uso fraudolento. In effetti è questa una preoccupazione onnipervasiva nella nostra tradizione e quali siano stati di volta i rimedi approntati per farvi fronte (prime fra tutte le spettacolari costruzioni della logica per giungere ai più recenti tecnicismi delle teorie del linguaggio) le strategie adottate condividono da un parte il sentimento della minaccia di fondo, dall’altra parte l’ideale risolutivo.

La minaccia è quella del dubbio radicale, del vacillare di ogni certezza, di qualsiasi presa certa della parola nella realtà e nel riferimento alle cose, come nell’esperienza, così pure nel vissuto interiore e anche nella comunicazione con gli altri, in una caduta senza fondo o in una Babele relativistica. Un incubo. Di contro si leva specularmente il sogno di un linguaggio ideale perfettamente chiaro e univoco, quasi un ritrovato Eden pacificato della lingua e della comprensione cui faticosamente riportarsi riscattando la lingua dal suo connaturato peccato originale, epurandola e trovandole un saldo fondamento dal quale poterla usare come una scala finalmente sicura per la risalita. L’ostinazione e insieme la vacuità di questo titanico sforzo sono state individuate e denunciate limpidamente e da tempo, basti l’unico esempio della parabola di pensiero di Wittgenstein e del suo avvertimento di come nella dimensione di quell’ideale manchi l’aria per respirare, non solo per parlare[8]. E c’è anche chi ha riconosciuto con precisione come l’intera tradizione delle nostre teorie del linguaggio sia stata costruita su una strategia retorica che continuamente ritorna al modulo della risposta al dubbio scettico e cerca di disinnescarne la distruttività e il connesso relativismo costruendo complesse architetture giustificatrici dell’univocità del fondamento della comunicazione, e cercando di riportare le pratiche linguistiche alla limpida chiarezza di un ideale e ad un fondamento sicuro[9].

Non è il caso quindi di dilungarsi sui vari modi nei quali questo sogno è stato declinato, ma è utile ricordare quanto esso sia stato influente ben oltre l’ambito delle teorie del linguaggio, costituendo un vero e proprio paradigma sul quale si è modellata in primo luogo una parte preminente delle visioni della politica. La crisi del logos, si sa, fa il paio con quella del nomos, la crisi del linguaggio con quella della legge della città e della politica: l’incubo scettico diviene incubo del relativismo delle norme e dei valori. E di contro il sogno di salvezza del primo si coniuga con quello del secondo in un vero e proprio doppio sogno dove l’uno fa vicendevolmente da puntello all’altro. Di volta in volta la politica e la legge si immaginano fondati sul discorso e sul linguaggio, mentre il conflitto dei discorsi e dei linguaggi si immagina di trovare risoluzione nella saldezza della norma o di una fondamento veritativo che detti legge. Un gioco di specchi che non si può negare abbia attirato stormi di allodole dai tempi di Platone a quelli dell’etica della comunicazione, e che non cessa la sua fascinazione in un’epoca cosiddetta postmoderna, multiculturale, globalizzata etc. dove l’antico incubo relativistico pare visitarci in pieno giorno quotidianamente.

Che l’aura di quel doppio sogno continui a permanere nel dibattito ormai disincantato del nostro presente è questione comunque aperta, come lo è che in esso siano riconoscibili le tracce di quella basilare perdita di fiducia e che questa contribuisca a far percepire il quadro presente con i cupi toni del suddetto incubo dal quale non si capisce come risvegliarsi. Tanto più che il tradizionale doppio antidoto del riferimento alla possibilità di una universalità linguistica o politica, in un modo e nell’altro ancorate al nome e alla legge del padre, ha perso gran parte della sua forza in un tempo di crisi del patriarcato dove unici mediatori universali sembrano essere rimasti quelli della forza e della logica economica del medium del denaro.

Ma qui voglio accantonare questa questione, questo aspetto delle sorti dell’incubo e del sogno che sono stati dominati nella nostra tradizione, per rivolgermi ad un altro aspetto.

Ho detto di un trauma di fiducia e di un voltare le spalle alla prima autorità della lingua materna che si è volto in un sogno di ideale di linguaggio perfettamente chiaro e ben fondato il quale tuttavia conserva la minaccia di rivoltarsi costantemente nell’incubo speculare della perdita totale di ogni affidabilità del linguaggio nel rapporto con la realtà e gli altri. Aggiungo ora che questa vicenda mi pare vada riguardata, storicamente e simbolicamente, come appartenente a un soggetto prettamente maschile: di un uomo sono quel trauma, quell’incubo, quell’ideale.

Si potrebbe argomentare di come tale vicenda tutta si inscriva nella grande narrazione che va sotto l’orizzonte de “l’ordine simbolico del padre”, ma qui mi basta il meno ingombrante e più intuitivo argomento che le donne non hanno granché contribuito alla costruzione di quel sogno, non lo hanno condiviso in quelle forme, né esso pare averle affascinate o aver avuto gran presa su di loro. Ciò non significa che non ne abbiano coltivato alcuno: la delusione che ricordavo sopra, l’estrema asprezza e intollerabilità delle situazioni nelle quali avviene una caduta della comunicazione femminile sembrerebbe testimoniare che attaccamento a un sogno c’è, e tenace.

Forse è un sogno altrettanto ricorrente dell’altro, ma la mia impressione è che differenti siano le tonalità con cui visita le fantasie femminili. Se quello potrebbe dirsi un ideale di identità, questo sembrerebbe più un sogno di identificazione.

C’è infatti sovente nelle relazioni tra donne l’aspettativa di una intesa piena, immediata, di una comprensione intima e completa, di una aderenza dei pensieri, di uno svelamento profondo prima o al di là delle parole. Può anche questo esser detto il mito del luogo di una trasparenza della comunicazione, ma non somiglia a quello della traduzione perfetta tipico delle teorie del linguaggio prevalenti, è piuttosto qualcosa di più immediato ed empatico che coinvolge ancor più che la parola i soggetti parlanti stessi e la natura della loro relazione, la quale tende a mirare ad un venire in contatto quasi non linguisticamente mediato. In questo caso l’altra faccia del sogno, l’incubo, non prende le forme del venir meno del senso della realtà e della relatività di ogni riferimento, quanto le sembianze altrettanto spaventose della perdita, con la lacerazione del legame, del senso stesso di sé.

Anche in questo caso si può individuare una ricaduta sul piano della visione della politica, quella della propensione a privilegiare la costituzione di piccoli gruppi fortemente coesi da relazioni personali di mutua identificazione, e l’agire politico in presenza, con relazioni faccia a faccia, stentando ad affrontare le mediazioni alienanti dello spazio politico pubblico e soprattutto diffidando delle sue forme istituzionalizzate, ciò che Iris Young ebbe a stigmatizzare efficacemente come un vizio femminista di “metafisica della presenza” e che più vicino a noi si è criticato come uno dei rischi di chiusura del “separatismo statico”[10].

Così sembrano correre paralleli due miti: da un lato delle teorie della comunicazione che tendono a cercare il luogo della traducibilità logica perfetta, dell’identità ritrovata della lingua comune etc, dall’altro un mito femminile che fa leva non sull’ideale di una lingua trasparente in quanto perfettamente adeguata, ma sul sogno dell’identificazione, quasi su un sogno di superfluità delle parole, di una intesa intima, al limite muta perché non sono le parole ad entrare in rapporto ma noi stesse oltre le parole. Nel primo caso la possibilità della presa sul mondo e della relazione pare affidata alla garanzia della mediazione linguistica, nel secondo è piuttosto la relazione a reggere la comunicazione e il linguaggio, e non viceversa.

E’ vero che queste connotazioni paiono replicare un dualismo maschile/femminile stereotipo per quel che concerne il situarsi dei sessi in riferimento al linguaggio e al simbolico, ma è pur vero che una quantità di analisi rileva l’effettivo darsi nelle pratiche linguistiche di differenze che tendono a polarizzarsi proprio attorno a tali orientamenti[11]. Il portare l’attenzione alla centralità della prima relazione con la madre come matrice di corpo e parola ha contribuito a chiarire (fuori da ogni “essenzialismo”) come questa configuri asimmetricamente sia esperienzialmente che simbolicamente la posizione dei due sessi nei confronti del corpo proprio, come del linguaggio come pure della costruzione della propria identità soggettiva rispetto ad entrambi.

Questa stessa focalizzazione del differenziarsi rispetto alla comune origine materna, e naturalmente di conserva del differente situarsi rispetto alla figura paterna, può anche illuminare qualcosa dei due diversi miti di cui sopra, facendo intravedere quale scena si possa immaginare velata da quei sogni e da quegli incubi. Quella così tante volte raccontata che davvero ha finito per essere la chiave di ogni sogno e di ogni incubo, dove appaiono venerande e terribili le icone della Madre e del Padre con le loro aure di luce e ombra, salvifiche o annichilenti..

Non sto quindi a rinovellarne i fasti, tanto più che qui si stava trattando casomai dei nefasti effetti che la pittura della suddetta scena (che la si voglia chiamare edipica o altro) può aver portato sul consolidarsi delle correlate narrazioni mitiche del linguaggio che si sono qui delineate.

Facile riconoscere le analogie e le genealogie: del primo mito con l’incubo più tipicamente maschile della madre inglobante e del sogno di salvezza dell’identità affidata al paterno logos separatore, del secondo con la nostalgia femminile per l’originario legame al corpo e alla voce materna perduto nella deportazione nell’ordine paterno. Naturalmente con tutte le (poche) combinazioni e le varianti possibili. Guardati in questa prospettiva incubi, sogni e ideali sono speculari ed entrambi rispecchiano una immagine riduttiva, stilizzata e paralizzata del linguaggio che ben si confà alla iconicità bizantina e santificata di quella scena e delle figure che rappresenta.

Il riferimento all’esperienza del primo effettivo apprendimento della lingua dalla madre inserisce  un taglio prospettico che rompe con la rigida fissità di quella scena, la sblocca e la mette in movimento.

 

Pratica col linguaggio

 

Probabilmente niente è stato studiato con altrettanto accanimento nel secolo scorso come il linguaggio, e probabilmente niente ha avuto su questa ricerca una spinta più vitale del tentativo di togliere le visioni tradizionali dall’incantamento dell’immagine della lingua ideale per tornare a guardare alla pratica del linguaggio comunemente usato. Ciò nonostante, come dicevo, il sogno perdura e si dimostra duro a infrangersi soprattutto nei suoi effetti collaterali, dove continua ad esercitare il suo effetto “mitico” a prescindere da quanto le riflessioni sulla lingua dibattono[12].

Ma se riportare l’attenzione all’esperienza quotidiana del linguaggio è stato salutare, tornare a mettere al suo posto centrale l’esperienza di apprendimento della lingua madre è la mossa che consente non solo di evitare le secche in cui le teorie del linguaggio si arenano prese dai loro eterni dilemmi, ma anche di imprimere movimento all’incantesimo paralizzante di quella scena originaria.

In primo luogo assumere la prospettiva della lingua materna è utile per dissolvere i miti della comunicazione ideale, fornendo un modello più ricco e versatile per guardare al linguaggio e alla sua pratica (peraltro confermando e rafforzando l’approccio di quelle teorie del linguaggio che hanno puntato sulla centralità dell’uso comune della lingua e delle sue effettive e varie pratiche). Ma più importante è che nel restituire all’esperienza della acquisizione della lingua dalla madre il suo posto primo è possibile ritrovare la chiave dell’apertura di fiducia esperita nella prima relazione con la madre che ci insegna a parlare, che dà credito all’altra/o, e mediante l’altra apre alla realtà e alla possibilità di comprendersi. Quella mossa consente di ritrovare insomma proprio quel primo punto d’appoggio, quella fiducia originaria e quella prima autorità cui una lunga tradizione ha girato le spalle instaurando una costitutiva inimicizia tra il riferimento al logos e il materno.

Non entriamo nel linguaggio né nel mondo convincendoci di non essere nell’incubo del dubbio sull’inaffidabilità della parola, dell’altra che ci parla, della realtà. Ma per una porta attraversata senza volontà e senza sapere, e poi per una via dove i primi passi e le prime parole sono fatti e detti nella fiducia del sostegno di chi nella vita ci sta introducendo, e senza di cui non ci sarebbe per noi né vita né parola, né sapere né dubbio. Non c’è altro modo, né si può sognare di rimettersi al mondo e al linguaggio da sé in forza di fondamenti che facciano a meno di quel primo appoggio o di saldi e assoluti principi che prescindano da quel primo contingente inizio. Tutto il resto, sapere e dubbi, vengono dopo, e per quanto le loro pretese siano quelle di una costruzione salda e autofondata o viceversa distruttive, non possono fare che quel principio sia nulla[13].

Incomprensioni, fraintendimenti, dubbi, menzogne, malintesi, inganni, tutti arrivano sì, ma in seconda battuta. Possono farci vacillare, ma non precipitarci nel nulla, sono secondi a quell’inizio[14]. Al principio siamo prima dell’incubo.

Ma quel principio non è però nemmeno un sogno. E se conforta vedere come lo si possa invocare per dissipare l’incubo e il mito ideale che hanno infestato una tradizione edificata su un timore di marca prettamente (anche se non solo) maschile, c’è da chiedersi se viceversa esso non possa alimentare il bel sogno che ha tanto intrattenuto le fantasie femminili (ma non solo).

Il sospetto è giustificato, è facile vedere come il riferimento ad una originaria esperienza fondativa dell’unità tra parola e cosa, di fiduciosa e immediata comprensione con la madre matrice di vita e parola, possa assumere le tinte di un’aura mitica e magica. La potenza creativa di un fiat ancor più che magico, mistico o creatore. Con tutto il rispetto per un simile sentimento di questa dimensione, cui si deve moltissimo della creatività nella lingua, per quel che mi riguarda confesso che tendo a vederla in maniera decisamente più prosaica. Con l’aggravante che nutro una certa diffidenza per una immagine che avverto non ininfluente sull’indulgere nel nostalgico sogno femminile di cui sopra, e del quale intravedo la complementarietà funzionale alla riduttiva visione del linguaggio che ho denunciato.

Mi domando infatti se anche quel che come origine perduta si immagina avvenga all’inizio della vita e della parola non sia spesso immaginato sul modello speculare di una visione del linguaggio che si è costituita precisamente su quella perdita, e che di conseguenza trova in essa ciò che è il suo limite ormai inattingibile. Quanto più è tormentoso l’incubo dell’effettiva presa del linguaggio sulla realtà, quanto più si dubita della sua efficacia rappresentativa e comunicativa, quanto più si avvertono i limiti del legame della lingua con l’esperienza, tanto più il denegato luogo dell’origine materna della parola si colora di magica identità immediata di cosa, esperienza vissuta, rispondenza con l’altro e linguaggio[15].  Ed è pur vero che in quell’inizio c’è il precipitato di tutti questi elementi e suona come un evento magico, ma è magia naturale si sarebbe detto in altri tempi, cosa del tutto comune e ordinaria nella nostra umana vita. Fortunatamente una madre qualsiasi è in grado di fare questa magia, e non con un colpo di bacchetta magica in un fatato istante da immortalare in una sacra icona.  Se la lingua è un dono non lo si riceve però in un momento. Ci vuole tempo e una quantità di altre cose: accade con una lunga pratica di rispondenze tra parole, gesti, giochi e azioni reciproche, balbetti, errori, correzioni, ricadute e nuove spiegazioni, esempi, giochi, fraintendimenti, pianti e risate e soprattutto fiducia…

Ed è una pratica di apprendimento che continua ben oltre l’infanzia, anche se l’essenziale è già stato conquistato nella prima relazione, come sanno le  tante donne che proseguono in quest’opera insegnando la lingua nella scuola. Si continua a imparare nelle tante e varie pratiche linguistiche, nelle più diverse situazioni e relazioni, e poi esprimersi, comunicare, capirsi sarà un’impresa continua, quotidiana, mai sicura e mai finita. E non saranno mai scongiurati malintesi, errori, incomprensioni, non ci sarà mai un sapere che ce ne metta al riparo una volta per tutte, fondamentalmente perché nella pratica del linguaggio, per comunicare come nell’entrare in relazione non è di sapere che si tratta. La competenza linguistica, comunicativa o relazionale non ha la forma di qualcosa che sappiamo, nel senso che conosciamo come una verità o possediamo, si manifesta nell’esercizio, nell’azione contestuale e la sua verifica è il suo funzionamento, la circostanza che possiamo procedere, andare avanti nelle comunicazioni e nelle relazioni nonostante, e a volte addirittura in forza di, ciò che non sappiamo e non capiamo. Come forse meglio di ogni altro è stato sostenuto da Jankelevitch: in quel “non so che e quasi nulla” dove la nostra pretesa di sapere e di comprensione si imbatte e inciampa si può riconoscere il cuore dell’incontro comunicativo, la sua occasione rivelatrice, l’apertura all’altro irriducibile che ci sta di fronte e la stessa scoperta di una verità di noi stessi imprevista[16].

Ci si parla e ci si incontra sempre solo “in pratica”, non in teoria o in modo ideale, e quel che vi avviene non è applicazione di alcunché di teorico, ideale o puro[17], ma sempre e necessariamente una pratica spuria, dove continui sono gli intoppi,  i malintesi, le mancate comprensioni, e dove anche i meccanismi di correzione metacomunicativi sono essi stessi comuni pratiche: mi hai capito o no? forse non mi sono spiegata.., cosa intendevi? volevo dire.. questo significa che.. ora capisco..

Quante volte capiamo di non aver prima capito, ma qualcosa era pur successo nel gioco delle relazioni linguistiche: a volte sono disastri, a volte capiamo meglio, a volte è comunque bene andare avanti senza sapere bene in cosa[18].

Non voglio con ciò dire che i margini di ombra, ambiguità, opacità  del linguaggio siano solo delle risorse, o che i malintesi e i fraintendimenti siano solamente “malintesi benintesi”[19], è palese quanti problemi possano generare, ma voglio segnalare che c’è un terrore eccessivo: soprattutto l’incubo relativistico e babelico il quale genera strategie correttive che hanno effetti collaterali deleteri, per quanto ciò avvenga perlopiù a livello delle teorie, le quali però sono tutt’altro che innocue. Esse non si limitano ad alimentare miti fuorvianti del linguaggio, il che è già grave, ma anche della nostra vita di relazione, della nostra convivenza e di noi stessi. Quelli prevalenti sono, come si è visto, di marca generalmente identitaria: tendono a confermare la visione di un soggetto parlante che possiede il linguaggio non diversamente da come è nel pieno possesso proprietario di se stesso, della propria identità individuale e di tutte le proprie funzioni e capacità, comprese quelle di entrare volontaristicamente e razionalmente in relazione con altri, con i quali scambia parole e azioni di cui è altrettanto proprietariamente autore, sulla base dell’espressione di sé e dell’esercizio del proprio interesse, sempre salva la sua autonomia e indipendenza. Un soggetto che può ben affermare “Lei non sa chi sono io!” dal momento che si presume sia il solo ad aver titolo a saperlo, e diritto a vederselo riconosciuto, nel che consiste la comunicazione con i suoi pari e financo la sostanza contrattuale del vivere comune[20]. A questa presunzione di identità viene da rammentare l’avvertimento di Hannah Arendt che ci manifestiamo nelle parole e nelle azioni con altri che vedono meglio di noi chi siamo e, come pensavano gli antichi, il daimon che abbiamo alle spalle[21].

Ma focalizzare lo sguardo sulle effettive varie e spurie pratiche mediante le quali si apprende il linguaggio e poi lo si pratica è buona cosa anche nei confronti di quell’atteggiamento opposto che ho suggerito rende così problematiche le cadute delle relazioni comunicative tra donne facendole avvertire come distruttive e persino minacciose per il senso di sé. L’insorgere di quel sentimento di fallimento così profondo e irrecuperabile che sembra condannare ad una secca alternativa “tutto o nulla” nella relazione mi pare infatti da riportare a qualcosa che suona quasi l’inverso di quella pretesa di conoscenza e tutela dell’integrità della propria identità. All’altra (più spesso che all’altro sebbene anche questo sia frequente), è affidato qualcosa di essenziale di me stessa e il rapporto è costitutivo della mia identità, e in una relazione di questa intensa natura si sente che l’altra sa meglio di me chi sono io. Una situazione di questo genere può essere una come quelle nelle quali si dà circolazione, più o meno riconosciuta, di autorità, oppure un rapporto di forte identificazione reciproca o unilaterale, in ogni caso è chiaro che si tratti di rapporti nei quali entra grandemente in gioco la scena della prima relazione materna. Ed è qui che l’immagine di quella originaria passata magica coincidenza di parola, realtà, esperienza di sé e del mondo mediata dalla madre viene a intersecare il presente della caduta della comunicazione, dell’intesa, della relazione. Può così rivelarsi il sogno dell’identificazione circonfuso a entrambe le scene, la prima e la presente, e l’infrangersi dell’una può riverberarsi sull’altra, evocando la minaccia di una perdita annichilente.

Ma quanto di quella scena che ci si para davanti ipnotica e agghiacciante è proiettata dal gioco di specchi dell’incubo e del sogno costruito sul dispositivo della schisi fra madre ideale e madre mortifera? Sul diniego dell’opera materna, la sua sostituzione e mitizzazione? Sulla costruzione di un evento di identità e identificazione che ha poco a che fare con l’effettiva esperienza di come siamo entrati nella vita e nella parola grazie alla madre e molto con la salvaguardia di un sogno o di un incubo di onnipotenza infantile? O peggio con il perpetuarsi della narrazione di un’antica storia che ha edificato la costruzione dell’ordine paterno sul sacro cenotafio materno?

Dubito quindi che sia l’innalzamento di un altare dove l’immagine della madre perduta sia sacralizzata a consentire di aprire le porte di quell’edificio, di far circolare l’aria, di farci uscire e muovere più liberamente. Seguendo un saggio consiglio, preferirei ricordarla viva. E’ il ricordo vivo che può essere vitale, anche se magari non è altrettanto bello, distante inevitabilmente, fortunatamente, dall’ideale. Non è in forza di un ideale che siamo qui né che abbiamo la parola, non è perché è fondata su un ideale o un sogno di educazione o comunicazione che l’opera materna funziona. E quel che non era l’essenziale allora non lo diventa poi. Come ora non c’era il fondamento di una lingua perfetta, come ora lei non era tutta per noi, né noi tutti per lei, come ora si procedeva senza garanzia se non quella data dalla fiducia nella relazione con lei, come ora non si stava insieme perché ci si capiva, ma ci si capiva perché si stava insieme[22].

Quel che avviene nelle quotidiane, spurie, parziali, imperscrutabili, imperfette, luminose e anche  oscure pratiche delle nostre relazioni, quando troviamo il modo di parlarci e di vivere insieme, o magari non lo troviamo, quando di volta in volta scopriamo che gli altri non sanno affatto chi siamo o lo sanno meglio di noi, quando l’altra, l’altro, ci sono di aiuto o di ostacolo a diventare chi siamo, quando ci capiamo o non ci capiamo affatto e riprendiamo a provarci perché così ricominciamo a desiderare di incontrarci, quando non ci giochiamo tutte intere in una situazione o in una relazione in tutte queste circostanze non viviamo qualcosa che sia così alieno da quel che è avvenuto la prima, fondamentale sì, volta.

Mia madre mi teneva e mi parlava e il mondo e la parola si aprivano, ma non in un attimo e chissà che fatica. Anche quella fatica e le tante cadute e incomprensioni, e una pratica amorosa, fiduciosa e paziente che quella si è difficile ritrovare, le devo ricordare e farne tesoro. E non si trattava di identità o di sapere, nemmeno con lei.  Perché in fondo come lei non era solo mia madre come vorrebbe la fantasia infantile e non era tutta nel mio potere o nel mio sapere, così anche lei non sa chi sono io.

 

 

 

Alcuni testi

 

Franco La Cecla, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Roma-Bari 1997

Vladimir Jankelevitch, Il non so che e il quasi niente, Marietti, Genova 1987

Vladimir Jankelevitch, La menzogna e il malinteso , Cortina, Milano, 2000.

Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, 1991

Luisa Muraro, Maglia o uncinetto, Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, manifestolibri, Roma, 2004 (nuova ed. con prefazione di Ida Dominijanni)

Talbot J. Taylor, L’incomprensione linguistica. Lo scetticismo e la teorizzazione del linguaggio e dell’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1996

Eva Maria Thuene (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Sellier, Torino 1998

Chiara Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori, Napoli 2001

Chiara Zamboni (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il Poligrafo, Padova 2006

[1]              Di recente una sentenza della Cassazione la ha addirittura dichiarata reato (nel caso di un avvocato che la ha rivolta a una donna dipendente dell’Ordine degli avvocati, peraltro “non riconoscendole il titolo di dottoressa”). Un esempio che testimonia del fastidio femminile per questa formula, ma che più in generale pare inscriversi in un clima della rivendicazione di political correctness che difficilmente si può definire anti-identitario.

[2]              Si può pensare a una Lei “anti-essenzialista”, ma penso a un senso più simile a quello di cui parla Oriella Savoldi in questo stesso numero della rivista.

[3]              Chi abbia avuto la fortuna di non incappare in queste situazioni  nelle relazioni tra donne potrà forse ricordare qualcosa di analogo nei rapporti amorosi, dove queste dinamiche sono ancor più consuete e dolorose, ma almeno si inscrivono in uno quadro previsto e trovano in genere una risoluzione almeno in linea di principio perché appunto di amore si tratta, e nel caso si tratti di amore tra uomini e donne una certa incommensurabilità è messa nel conto.

[4]              Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.

[5]              Di certo quella domanda aveva ottimi motivi per essere sollevata e certamente è utile porsela, la filosofia ha effettivamente a che fare con domande simili e non esisterebbe se non le facessimo, ma altrettanto certamente Socrate intendeva che si formulasse in un contesto dialettico vivo  e giustamente temeva che questo venisse a mancare col che sarebbe venuta meno anche quel che intendeva come pratica del filosofare.

[6]              Nella formulazione destinata a divenire la base del classico argomento scettico Gorgia sosteneva :“anzitutto che nulla esiste; in secondo luogo che, pur ammesso che un qualcosa esiste, non può essere appreso dall’uomo; in terzo luogo che, anche se è apprensibile, certamente, almeno, non può essere espresso né comunicato al prossimo. E ammessa anche la loro conoscibilità, come mai uno potrebbe darne diretta conoscenza a un altro? Quello che no vede, come mai dice potrebbe esprimerlo con la parola?… E anche se è possibile conoscere e dire tutto quello che si conosce, in quale modo chi ode potrà rappresentarsi concettualmente il medesimo oggetto? Infatti non sarebbe possibile che la medesima realtà pensata si trovi contemporaneamente in più oggetti separati fra loro, l’uno infatti sarebbe due. E anche ammesso ce la medesima realtà pensatasi trovi in più soggetti, nulla impedisce che non appaia loro simile, poiché essi non sono sotto ogni aspetto simili, né si trovano in un’identica condizione: se infatti, si trovassero in un’identica condizione sarebbero no e non due. D’altra parte neppure il medesimo soggetto evidentemente esperimenta percezioni simili nel medesimo tempo, ma quelle dell’udito diverse da quelle della vista, e in modo differente ora e in passato. Di conseguenza difficilmente uno potrebbe avere ricezioni identiche a quelle di un altro. “ (in Sesto Empirico, Contro i logici, 65-67, Laterza, Roma-Bari 1974).

[7]              Tra le tante letture femministe che hanno analizzato in questa chiave il mito platonico è d’obbligo ricordare almeno quella seminale di Luce Irigaray in Speculum.

[8]              Mi riferisco naturalmente alla critica che egli svolge nella seconda fase della sua ricerca alla impostazione del Tractatus. L’espressione viene dalle Ricerche filosofiche: “L’ideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare indietro. Non c’è alcun fuori; fuori manca l’aria per respirare. – Di dove proviene ciò? L’idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso di essi. Non ci viene mai in mente di toglierli.” (§ 103, Einaudi, Torino 1967)

[9]              E’ la tesi di Talbot J.Taylor, L’incomprensione linguistica, Laterza, Roma-Bari 1996.

[10]            Iris Young lo chiamò anche “ideale della comunità” in The Ideal of Community and the Politics o Difference, in Linda J. Nicholson (ed.), Feminism/Postmodernism, Routledge, London 1990. La critica alla chiusura identificatoria del separatismo è stata tanto ricorrente fin dai tempi del testo della Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier,Torino 1987, quanto lo è stato il ricorrere di quella tentazione.

[11]            Numerose sono ormai le analisi empiriche e teoriche che si sono concentrate sulla differenza sessuale nel linguaggio, basti ricordare tra le più note quelle di Luce Irigaray, Parlare non è mai neutro, editori Riuniti, Roma 1991, ma per quanto vengo qui dicendo mi sono di riferimento soprattutto: Eva Maria Thuene (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Sellier, Torino 1998; Chiara Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori, Napoli 2001; Chiara Zamboni (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il Poligrafo, Padova 2006. Inoltre per l’approccio complessivo alla questione i testi di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, 1991 e Maglia o uncinetto, Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, manifestolibri, Roma, 2004 (nuova ed. con prefazione di Ida Dominijanni).

[12]            Situazione peraltro non del tutto insensata visto la perdita di capacità di offrire una visione più complessiva di cui soffrono le discipline del linguaggio ormai sempre più chiuse nei loro specialismi.

 

 

[13]            Il dubbio scettico è sostanzialmente insieme inconfutabile e ininfluente. Nella vita non cambia nulla, come era già nelle versioni antiche, ma come ammetteva Hume.  La più recente radicale versione wittgensteiniana sul paradosso di seguire una regola, nella lettura scettica di Kripke, ribadisce questa intuizione, perché ciò che viene distrutto dall’argomento scettico non reggeva in effetti nulla di ciò che sostiene le pratiche della nostra vita.

[14]            Per questo principio potrebbe far valere qualcosa di formalmente simile al principio di non contraddizione, che in sostanza si può ben dire lo traduca: non ha dimostrazione che venga prima, perché è primo, ma nel negarlo lo si presuppone.

[15]            Si può leggere in questa prospettiva la frase di Meneghello presa come titolo del recente seminario di Diotima  “La lingua materna dà accesso immediato all’autentica sfera della realtà ma anche alla follia”. Nel contatto con il luogo da cui ci si è allontanati c’è una doppiezza di verità e follia.  Essa mi pare segno di un dualismo che separa due miti: quello della lingua come gabbia logica sostanzialmente strumentale, mero mezzo tecnico di comunicazione nel registro paterno, e quello della creatività sorgiva poetica legata al materno. Un dualismo ricorrente nella nostra tradizione cui non sfugge nemmeno la prospettiva di Kristeva.

[16]            Vladimir Jankelevitch avanza questa prospettiva nei suoi: Il non so che e il quasi niente, Marietti, Genova 1987 e La menzogna e il malinteso, Cortina, Milano, 2000. Su una linea  ricerca analoga si muove Franco La Cecla, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Roma-Bari 1997.

[17]            Si tratta di un sapere pratico, del tipo di cui Diotima si è occupata in Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori, Napoli 1999.

[18]            Personalmente non cesso di sorprendermi di quanto poco avessi capito certe cose nel passato, eppure le avevo capite, ne parlavo, ho sostenuto esami e accaniti dibattiti, ne discutevo, ne ho persino scritto a volte, e altri hanno inteso! E non dico di cose marginali, ma di cose su cui ho speso energia passione, addirittura orientandovi scelte fondamentali per la mia vita. Un esempio per tutti è “differenza sessuale” che venticinque anni fa nell’incontro con Diotima mi aprì uno sforzo di comprensione di cui non sono ancora, per fortuna, affatto venuta a capo. Ciò accade soprattutto con le parole più importanti: giustizia, amore, felicità, libertà, bene… C’è chi li chiama “significanti vuoti” su cui è sempre aperto il conflitto simbolico su quale sia il loro senso.

[19]            La definizione è di La Cecla, cit.

[20]            Si radica qui anche la possibile ambiguità identitaria delle politiche del riconoscimento. L’ambivalenza è la stessa che risuona nel “Lei non sa chi sono io”: da un lato può essere rivendicazione di una identità che si presume nota e stabile come una certa entità posseduta , la richiesta di essere riconosciuti per quel che si è, dall’altro rispondere ad un giusto sentimento nei confronti di una legge, una norma comune che per la sua natura formale e universale non sa chi sono io, non mi vede per quel che sono o sento di essere. La notazione anti-identitaria di chi non può sapere bene chi è appare salutare in questa prospettiva.

[21]            Così “nessuno è autore della propria storia” come afferma in Vita activa. Per una riflessione sulle politiche dell’identità a partire da questa frase mi permetto di rimandare al mio Nessuno è autore della propria storia. Identità e azione, in Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996. Adriana Cavarero parte da questa posizione arendtiana per il suo Tu che mi parli, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997.

[22]            Ho già usato questa espressione per sottolineare la priorità delle pratiche di convivenza su quelle di comprensione in Oltre il giardino. Comprensione e linguaggio in Wittgenstein, in AA.VV., Esercizi di filosofia al cinema, Pensa, Lecce 2006.