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per amore del mondo Numero 14 – 2016

Marguerite Duras

Le figure maschili in Marguerite Duras

Intervento al convegno Scrittura, pensiero, differenza sessuale a partire da Marguerite Duras,

Università di Verona 29 Aprile 2016

 

 

Concentrare l’attenzione sulle figure maschili nell’opera di Marguerite Duras significa scostarsi dal nucleo centrale della produzione durassiana, che è sempre connotato al femminile. Tutte le opere della scrittrice ruotano attorno a una donna che, pur non essendo mai l’unica protagonista, polarizza su di sé il focus generale della narrazione[1].

Le figure maschili non possono dunque essere osservate se non in relazione a quelle femminili.

Nelle opere durassiane gli uomini sono quasi sempre le figure dell’altro nella passione, quell’amante attraverso il quale si schiude il movimento della passione. Duras insiste molto sull’eterogeneità fra maschile e femminile, facendone il fulcro dell’incommensurabilità fra gli amanti, dell’asimmetria della passione che mette in crisi la soggettività e supera gli amanti stessi.

Le figure maschili nell’opera della scrittrice cominciano ad assumere i loro caratteri peculiari soprattutto a partire da Moderato Cantabile, a partire cioè da una svolta radicale nella produzione dell’autrice, che rinnova e reinventa la lingua e la forma dei testi stessi perché nuovo è ciò che in essi risuona. Coerentemente con quanto si osservava prima, non appena si libera, secondo le parole della scrittrice stessa, una scrittura radicalmente femminile, anche le figure maschili mutano.

I primi romanzi durassiani, pur raccontando vicende di “emancipazione femminile”, non si scostano da una lingua narrativa che deve molto ai maestri scrittori, ai quali la giovane Duras si ispirava. La stessa cosa si può dire di romanzi come Il marinaio di Gibilterra o I cavallini di Tarquinia. Tuttavia, in questi ultimi due casi, si percepisce più forte una tensione con il mondo maschile, che passa attraverso la figura dell’adulterio, su cui Duras tornerà molto negli anni Settanta. Ci sono dei dati biografici che insistono su queste tensioni e che la scrittrice richiama in diverse occasioni. I primi romanzi durassiani, infatti, prima di essere pubblicati, passavano attraverso la lettura e il confronto con due uomini molto importanti per lei, Robert Antelme e il marito Dyonis Mascolo. Nel caso de I cavallini di Tarquinia tale confronto ha quasi sfiorato la censura.

Il primo libro che non è sottoposto a queste letture preventive è Moderato Cantabile, composto in concomitanza con la relazione fra la scrittrice e Gérard Jarlot. Una relazione passionale che segna profondamente Duras: anche grazie a questa lei accede a una scrittura nuova. Nella relazione con Jarlot la scrittrice sperimenta la convergenza dei nuclei tematici più importanti della sua opera: il desiderio, la fusione, la perdita di sé e il rischio di una follia, che sempre procede anche dall’infanzia. Tale convergenza ha per Duras un carattere femminile: è un’esperienza femminile del reale, che ha una sua lingua, che richiede una sua forma, un suo andamento letterario e spirituale. Un andamento segnato da vuoti e silenzi, tra i quali emergono delle isole di parole, semplici e allo stesso tempo enigmatiche.

Moderato cantabile è la storia dell’adulterio di una donna borghese consumato attraverso le parole, il vino e un solo bacio finale, sullo sfondo di un omicidio passionale. Anne Desbaresdes, moglie del direttore di un cantiere navale, s’incontra con un operaio di quello stesso cantiere in un bar in cui un uomo ha ucciso “per amore” una donna. Irresistibilmente attratta da questo amour à mort, Anne si avvicina all’operaio Chauvin e lascia emergere nei dialoghi con lui un desiderio inconfessabile e inaccettabile, perché tale desiderio è anche desiderio di morire nella fusione fra gli amanti.

In questo contesto Chuavin comincia a rivelare dei caratteri singolari, che appartengono a molti personaggi maschili durassiani. Il primo di questi è quello di essere travolto anch’egli da una passione inconfessabile che lo consuma e lo stanca. Nemmeno Chauvin parla molto né agisce. Anche lui si può immaginare pallido e impaurito davanti a quella passione che sa di morte e contagia lui e Anne. Entrambi bevono molto. In questo senso forse Jean Paul Belmondo era troppo bello e troppo forte nel film che Peter Brook ha tratto da Moderato cantabile. Chauvin fa delle domande più che delle affermazioni; lui si innamora di questa donna che ha davanti e viene come stregato da quell’ombra di silenzio, amore e terrore che lei lascia emergere attraverso le sue scarne e sommesse parole.

È lei la protagonista del romanzo, è in lei che succede tutto. Ma lui, di quest’ombra, non sa forse niente? Perché rimane lì? Perché la fascinazione fra i due ha effetto?

Si potrebbe dire che lei lo scavalca, che lei si rivolge a qualcosa in lui che lui non sa, che non gli appartiene. O a cui non sa o non vuole dare voce. Per questo Chauvin risulta essere un personaggio un po’ schiacciato, un po’ miope o un po’ inavvertito.

Questo è un primo affondo durassiano sulla differenza tra maschile e femminile. Tale affondo risulterà più esplicito in Il viceconsole.

Prima di Il viceconsole Duras pubblica un altro testo fondamentale all’interno della sua produzione: Il rapimento di Lol V. Stein.

Con quest’opera si apre la questione del sesso della voce narrante, del maschile e del femminile nella scrittura. Anche nel Rapimento al centro c’è una donna, Lol V. Stein. Ma a narrare la storia è un uomo, Jacques Hold, rapito dal desiderio e dal fantasma di Lol V. Stein. Come scrive Lacan, è impossibile decidere se il genitivo del titolo del romanzo sia oggettivo o soggettivo.

Analogamente a Chauvin, Jacques Hold è allo stesso tempo innamorato e incuriosito da Lol V. Stein. Tuttavia lui è più forte di Chauvin, se non altro perché governa la parola, la scrittura.

Perché Marguerite Duras ha sentito il bisogno di affidare a una voce maschile la narrazione, la scrittura?

Se si osserva molto da vicino il “sistema di autorialità” del testo che Duras ha lasciato emergere, è possibile riconoscere che in fondo è Lol V. Stein a condurre l’azione. Un’azione che si sviluppa come una scena o un fantasma che lei ri-attiva, ma che non le appartiene e che la esclude a sua volta. Ancora una volta si tratta di un vissuto femminile dell’indicibile o dell’impossibile. Jacques Hold, autore di una scrittura piuttosto lineare e coerente rispetto alla lacunosità di Moderato cantabile, è dunque allo stesso tempo un uomo che scrive e che tenta, senza riuscirci, di rendere conto di una “follia” femminile, ma è anche un uomo che è rapito da Lol V. Stein. Con questo la sua posizione di forza, di colui che detiene la parola, è già scardinata. Prova ne sono i numerosi “non so” oppure “immagino” che punteggiano il testo. Ci si trova di nuovo di fronte a un uomo scavalcato dalla passione della donna di cui è innamorato.

Tuttavia l’alleanza uomo-parola/scrittura non è affatto scalfita. Tanto che Marcelle Marini ha evidenziato un’amara ambiguità in questa scelta durassiana di far parlare un uomo: da una parte c’è dell’ironia nel far fallire il discorso maschile su una donna, dall’altra, però, questa scelta sembra l’ammissione del fatto che una parola femminile positiva non è possibile.

A questo punto, però, è necessario allargare lo sguardo e notare che la composizione di scene il cui centro è occupato da una donna che porta con sé un indicibile e un impossibile è un tratto ricorrente nelle opere durassiane a partire dagli anni Sessanta. Si vedano per esempio Distruggere-lei disse, Il viceconsole o L’amore. In tutti questi casi nel testo “si parla” di donne che attraggono l’attenzione, che sfuggono alla presa delle parole, spesso maschili, degli altri personaggi. D’altra parte questa stessa inattingibilità è il movente stesso delle parole, della scrittura.

Tutto ciò suggerisce di considerare il centro vuoto attorno a cui ruotano i testi, e nelle immediate vicinanze del quale ci sono delle donne, come l’autentico motore del testo. Tuttavia, nella lettura e forse anche nella scrittura, tale centro produce effetti in modo tale che sembra una scoperta che avvenga gradualmente, mentre in realtà è fin dall’inizio il movente (inconscio?) della scrittura.

A questo centro non si può guardare direttamente perché è una spirale di amore, annullamento di sé, fusione e morte. Non ci si può avvicinare ad esso se non di riflesso, attraverso gli sguardi e le parole degli altri. Ma dal momento che tale centro ha a che fare con l’amore, con l’apertura all’altro, nel mondo durassiano esso non può non avere a che fare con il desiderio, anche sessuale, dell’altro. Né la figura femminile, che porta con sé questa apertura all’ignoto, né quella maschile, che se ne innamora e che suscita anche il desiderio femminile, possono mancare. E non tanto per giungere a una completezza, quanto piuttosto per far circolare il desiderio fra più amanti, e tanto meglio se questi  sono radicalmente altro l’uno per l’altra, come il maschile per il femminile. Non è questione di compensazione, ma proprio di dissimmetria.

Da questo punto di vista la scrittura maschile di Jacques Hold che, pur parlando, fallisce, è funzionale all’emergenza di un indicibile, che è un vissuto femminile. Che questo vissuto femminile sia o meno in grado di trovare un’espressione positiva, come pretenderebbe Marini, è un problema da valutare nel confronto con i testi durassiani. Duras cerca, vuole un’espressione femminile positiva? Sicuramente sì, ma in che termini, in che senso tale espressione va considerata “positiva”?

Il viceconsole è il romanzo che più di ogni altro offre una galleria significativa di personaggi maschili durassiani. Troviamo anche qui un giovane scrittore, Charles Rosset, che vorrebbe fare della scrittura un’esperienza di contatto e fusione con il reale più sofferente, scrivendo della mendicante indiana. Ritroviamo inoltre il fidanzato di Lol V. Stein, Michael Richardson, che è uno degli amanti di Anne Marie Stretter, la moglie dell’ambasciatore di Francia a Calcutta. Michael Richardson è figura emblematica dell’amante durassiano. La scrittrice ha creato questa figura a partire da un aneddoto sentito nell’infanzia, secondo il quale un giovane si era suicidato per amore di quella donna che nei testi diventa Anne-Marie Stretter. L’amante durassiano, anche per l’immagine che si può farsene a partire dal film India song, è un uomo giovane, consumato da una passione che lo attrae in un processo di annientamento di sé e che lo rende molto sottile, fragile e spossato. Si potrebbe dire che sia un uomo inoperoso, la cui unica occupazione è la passione.

Oltre al circolo degli amanti di Anne-Marie Stretter, all’ambasciata di Francia a Calcutta c’è anche un altro uomo che, in qualche modo, è il doppio maschile della protagonista femminile: il viceconsole di Lahore Jean Marc de H. Duras ne tratteggia la figura con degli elementi molto incisivi: ha una voce falsa, è vergine ed è stato richiamato da Lahore perché una mattina ha sparato dal suo balcone sulla folla di lebbrosi accalcati fuori dall’ambasciata di quella città. Lui non dà né cerca spiegazioni per il suo gesto, in relazione al quale Duras richiama le parole di Breton nel Manifesto del surrealismo: “sparare a caso sulla folla”.

Nel libro di interviste Les parleuses concesse a Xavière Gauthier, la scrittrice mette esplicitamente a confronto il viceconsole e Anne-Marie Stretter:

 

C’è un’equivalenza, più che una identificazione, c’è un’equivalenza nel dolore di Anne-Marie Stretter e nella collera del viceconsole di Francia. Il dolore cola in lei. È come un fiume che l’ha attraversata, attraversata da questo fiume di dolore, se si vuole, e lui è al contrario come una macchina di morte, che è piena di fuoco, di esplosivo, è necessario che tutto questo esca, che esploda, che si esprima all’esterno, che sia pubblico, bruciante, mentre l’ingresso di Anne-Marie Stretter nelle Indie è carnale. Lei è interna.

 

Io penso che il viceconsole, se vuoi, è un pensiero generale che lo abita. È come un libro ambulante. È vivo a malapena. È esangue, in lui, c’è un’idea generale.

Lui spara sui princìpi, sulla filosofia. Questa è l’apertura al sensibile. Verso il desiderio è lei.[2]

 

Ecco dunque la differenza fra maschile e femminile che Duras riconosce rispetto a due personaggi cruciali in tutta la sua opera. Ciò che per Anne-Marie Stretter è dolore, per il viceconsole è collera che esplode e che non si trattiene. In questo senso Anne-Marie Stretter è più “forte”, perché non si difende né reagisce al dolore, ma lo porta con sé e se ne fa attraversare. Fino a morirne, alla fine del romanzo.

Dovremmo dunque concludere che il femminile non è riuscito ad avere voce nemmeno in questo romanzo?

A mio avviso no, perché il suo tratto, il tratto tipicamente durassiano, è la capacità di orchestrare una complessa architettura di piani in cui la logica e il linguaggio maschili risultano essere una piccola parte, nonostante la loro pretesa universalità. È  in questa articolazione e nelle pregnanti parole di Anne-Marie Stretter, nei suoi movimenti e anche nella punteggiatura dei suoi silenzi che va riconosciuto il timbro della parola femminile che non è e non pretende di essere, in Duras, “positiva” nello stesso senso in cui “positiva” si può definire la parola maschile. Quest’ultima può forse risultare “positiva” nel senso che si sradica dalle sue origini vocali inappropriabili soggettivamente e si riflette solo in se stessa. La trama dei silenzi e gli arcipelaghi “musicali” di parole di una lingua femminile sembrano invece in grado di restituire il suono di un’origine della parola che resta indicibile, ma che consente la dicibilità di tutto ciò che viene detto.

Sono significative in questo senso le critiche durassiane al Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso (troppo letterari, troppo “scritti”), così come alla narrativa di Sarte, assoggettata alle necessità imposte da un tema o da una tesi, e le incomprensioni con Blanchot.

Per Duras sono solo le donne a scrivere completamente, quando siano riuscite a sottrarsi alla posizione che l’ordine simbolico maschile prevedeva per loro. Per la scrittrice è come se gli uomini si proteggessero, anche per mezzo di un’omosessualità simbolica latente, dal reale attraverso i princìpi, i temi, le parole di altri uomini, senza affrontare né ospitare i silenzi e il balbettio che provocano le regioni più ignote del vissuto.

Duras collega questa “forza” delle donne anche alla loro storica vicinanza alla vita materiale e ricostruisce così una genealogia femminile, a partire però da una presa di coscienza, da una consapevolezza, qual è quella che Duras conquista attraverso la scrittura. Consapevolezza anche di ciò che sfugge, che non può essere appropriato soggettivamente e con cui si tratta di vivere. Perché ne siamo parte.

Nella prospettiva femminile di Duras sono gli uomini a risultare infantili, tumultuosi, ma non “forti”, stanchi e distratti, non attenti. La scrittrice dice anche “alienati”.

L’ultima figura maschile importante dell’opera durassiana è Yann Andréa Steiner. Un giovane ammiratore dei libri della scrittrice che finisce per entrare al contempo nella sua opera e nella sua vita. Yann Andréa rimarrà con Duras fino alla sua morte.

Intorno a Yann Andréa la scrittrice intesse una serie di opere e riflessioni molto dense che rimettono in discussione la sua poetica a partire da un amore impossibile (poiché Yann Andréa era omosessuale), ma comunque vissuto in presenza. Egli diventa così la figura che regge su di sé la distanza e la separazione degli amanti propria della poetica durassiana. La sua relazione con Duras diventa l’emblema di un amore che non è vissuto come tale nemmeno dall’interno.

Yann Andréa viene integrato nell’opera durassiana come l’uomo con cui non è possibile intendersi, come l’uomo infantile e come l’uomo che per la sua inattingibilità diventa l’occasione per aprire di nuovo lo spazio di un’asimmetria incolmabile con l’altro.

Un uomo che ama la sua scrittrice e che si lascia inglobare nella sua vita e nella sua opera. Senz’altra occupazione che questa passione.

Ritornano dunque anche con la figura di Yann Andréa i caratteri tipici dell’uomo durassiano, di cui l’amante cinese è sicuramente l’archetipo. Anche se ne L’amante la scrittrice riveste questa figura di una malinconia e anche di un romanticismo, che probabilmente non rispondono in maniera fedele dell’esperienza vissuta dalla protagonista, i suoi caratteri non sono per questo meno efficaci e rappresentativi dell’amante nel mondo durassiano: un uomo infelice, fragile, consumato da una passione per l’amata che lo stanca e lo rapisce via da se stesso. Un uomo inoperoso, che non fa nulla se non amare la propria amante, lasciarsi consumare dalla passione che lo attrae a lei.

Si potrebbe dire, con un po’ d’ironia, che Duras ha offerto alle sue figure maschili la possibilità per una volta di non fare nulla, di rimanere inoperose e di dedicarsi soltanto all’amore. Nella sua opera narrativa, ha lasciato loro uno spazio per discostarsi dalla mascolinità tradizionale, impegnata attivamente nel pensare e nell’agire, per aderire alla domanda d’amore che viene dalle donne: esausti, inoperosi, i personaggi maschili di Duras ci parlano di un altro modo di essere uomini, di una potenzialità alternativa della differenza maschile.

 
NOTE
[1] Una delle poche eccezioni è costituita da Il pomeriggio del signor Andesmas.

[2] Marguerite Duras, Xavière Gauthier, Les parleuses, Minuit, Paris 1974/2013, pp. 234. Traduzione mia.