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per amore del mondo numero 17 – 2020

Pandemia: Trasformazioni soggettive

L’autunno del nostro scontento

 

In questo 2020 segnato dalla pandemia di Covid-19, c’è stata una primavera, rubata sì dal lockdown, ma tuttavia viva, anzi particolarmente rigogliosa anche per la scarsità della presenza umana. C’è stato un tempo di condivisione del sentire, di solitudini attenuate da legami coltivati a distanza, c’è stato un tempo in cui tutti abbiamo scoperto il valore di ciò che conta veramente, un tempo di solidarietà, di saluti dai balconi, di consapevolezza della vulnerabilità umana, dell’importanza delle relazioni, della cura della vita e di presa di coscienza della gravità delle offese inferte a una natura troppo a lungo violata.

Usare l’imperfetto a proposito di tutto questo è un errore sia grammaticale sia di senso. Avrei dovuto usare il passato remoto: ci fu un tempo… Non solo perché questo insegna la grammatica, ma anche e soprattutto perché ora sento quel periodo di clausura forzata come irrevocabilmente finito, concluso, archiviato. Finita la primavera del lockdown, c’è stata l’estate della ricreazione e del contagio più o meno indiscriminatamente diffuso in tutta Italia.

Ora c’è l’autunno del nostro scontento, o perlomeno del mio. Prendo a prestito questa espressione da un romanzo di John Steinbeck, il quale a sua volta l’aveva mutuata da Shakespeare: L’inverno del nostro scontento. Un romanzo che lessi nella mia lontana giovinezza e di cui ora non ricordo più nulla se non il titolo, che mi è venuto in mente come una folgorazione stamattina, mentre camminavo nel tepore di quest’ottobre incredibilmente mite e tiepido anche per effetto del riscaldamento climatico. Nietzsche aveva detto che le sole idee buone sono quelle che ci vengono camminando. C’è del vero in questo, perché, mentre si cammina, più che pensare, si è pensati, attraversati da pensieri che toccano il corpo e che ne accompagnano l’incedere cadenzato.

Dunque, questo è l’autunno del mio, del nostro scontento, il quale segnala una cesura netta rispetto alla pur difficile fase del lockdown primaverile, dura ma non priva, come ho già detto, di elementi di consapevolezza fecondi, di presa di coscienza della nostra e altrui vulnerabilità, della centralità della cura della vita e dell’ambiente circostante, dell’insensatezza del sistema capitalistico neo-liberale, dell’importanza delle relazioni, la cui rarefazione ce ne fece sentire in modo più acuto la mancanza. Mi parve un cambio di passo significativo: quello che noi donne sapevamo da sempre e che quelle di noi che si ritengono femministe predicavano da tempo era finalmente condiviso da tutti. (L’avevo scritto in Ora più che mai, “Via Dogana 3”, 6 aprile 2020).

In quest’autunno segnato dalla seconda ondata del virus, non mi sento più di ribadire senza esitazioni quel modo di vedere: avverto una cesura netta rispetto a prima, sento in me una stanchezza, talvolta rassegnata talvolta irosa, di fronte al riesplodere del contagio e al ripresentarsi di misure restrittive volte a contenerlo, ma soprattutto vedo intorno a me chiudersi quegli spiragli di condivisione e di solidarietà che allora si erano aperti.

Forse ho torto io e ha ragione invece Chiara Zamboni quando scrive che la pandemia avrebbe determinato “una svolta esistenziale e politica da cui non si torna indietro” (“Via Dogana 3”, 29 luglio 2020): c’è stata, nella fase del lockdown, una comunità del sentire, uno scambio di narrazioni, di pensieri, di fantasie, d’immagini, di elementi inconsci che hanno affievolito l’io e dato risonanza a un sentire condiviso. Questa esperienza, scrive Chiara, non finisce se noi la conserviamo nella nostra memoria vivente. Dovremmo coltivarla, custodirla, anche se non possiamo farla rinascere volontaristicamente.

Appunto, non basta la buona volontà per far rivivere qualcosa che è stato e che ora non è più. Ho l’impressione, se ascolto il mio sentire, che ci siamo già di nuovo rinchiusi nello spazio ristretto dell’io, che ciascuno si preoccupi soprattutto di sé (anche se il gesto d’indossare la mascherina chirurgica protegge più gli altri che se stessi), che siamo sopraffatti da un senso d’impotenza e di rassegnazione, che siamo preda di una stanchezza mista a rabbia, bombardati come siamo dalle notizie allarmanti diffuse quotidianamente dai mass media.

La prima volta, ai tempi della clausura forzata, subimmo uno shock e tutte, tutti sentimmo il bisogno di scambiare con altre/i il nostro sentire, di rompere il muro d’isolamento facendo delle nostre solitudini un’esperienza comune e condivisa. La seconda volta che lo stato di emergenza si ripresenta – ma in Italia in realtà non è mai cessato del tutto – siamo troppo stanchi per farvi fronte con invenzioni, condivisioni, scambi di vissuti: non ne possiamo più, anche perché non sappiamo quanto a lungo durerà questa situazione di emergenza, ma certo ancora per molto tempo. Ora si tratta di convivere con il virus, lo sappiamo: ma è una convivenza difficile, in cui la solitudine rischia di degradarsi in isolamento, in cui la rassegnazione si alterna alla rabbia, in cui si fatica a fare il lavoro del negativo affinché quest’ultimo non vada del tutto a male.

Ho apprezzato l’intervento di Vita Cosentino, che, in un articolo su “Via Dogana 3” (Gratitudine sociale, 19 ottobre 2020), propone la gratitudine come pratica sociale e simbolica rivolta a tutti: a chi cura, a chi lavora ma soprattutto a chi il lavoro l’ha perso. Non c’è dubbio che, accanto ai risarcimenti economici per chi ha perduto ogni fonte di reddito, occorrano dei compensi di natura simbolica, non meno importanti dei primi. Questa pratica affonda le sue radici, oltre che nell’orientamento della riconoscenza verso la madre auspicato da Luisa Muraro (in L’ordine simbolico della madre, Editori riuniti, Roma 1991) , nello stesso vissuto di malattia e d’invalidità affrontato coraggiosamente da Vita stessa. Ho apprezzato questa proposta, ma faccio fatica a condividerla: mi sento sopraffatta da passioni tristi, dallo scoraggiamento, dalla rabbia e dalla sfiducia verso le istituzioni, che palesemente non riescono a tenere sotto controllo l’espandersi del contagio né il disagio sociale che deriva dalle stesse misure di contenimento.

Accanto all’istinto di conservazione, che mi spinge a comportamenti cauti e responsabili, affiora ogni tanto in me, per la rabbia, la pulsione contraria: per esempio la tentazione di andare a trovare i vecchietti di una residenza sanitaria per anziani infestata dal Covid. E che così sia finita, mi dico. Naturalmente, non lo faccio: gli amici più cari mi hanno detto che non sarei affatto sicura di morire, e che oltretutto non sarebbe una bella morte.

Questa rabbia, certo improduttiva, mi fa tuttavia capire qualcosa, da dentro, delle proteste violente che si sono scatenate recentemente a Napoli, a Roma e in molte altre città italiane in seguito alle nuove restrizioni: sarà anche vero che in quei moti di rivolta si erano infiltrati membri della camorra, militanti di estrema destra e ultrà, ma non c’è dubbio che lì si è espresso anche il disagio sociale molto grave patito da chi, a causa della pandemia, ha perso il lavoro e il reddito. La divaricazione tra i più fortunati, come me, che possono contare su entrate sicure, e coloro che vivevano di lavori precari o in nero si è enormemente allargata, e non c’è da stupirsi che scoppino rivolte di questo tipo. Altre ne seguiranno.

Si è parlato molto di una ripartenza che avrebbe dovuto mirare anche a una più equa ripartizione dei compiti fra donne e uomini, nella consapevolezza che le prime reggono la maggior parte del lavoro di cura: ma non sembra che questa sia effettivamente una priorità, dal momento che gli asili nido rimangono ancora pochi e che la scuola superiore ora torna alla didattica a distanza, col risultato che molte donne dovranno barcamenarsi fra la cura dei figli (e talvolta degli anziani) e  il lavoro, sempre che quest’ultimo sia loro rimasto.

Una mia cara amica sta ammirevolmente sacrificandosi per accudire i genitori vecchi e malati, impegnandosi contemporaneamente nel suo lavoro: ascoltando i suoi sfoghi, mi aveva preso a un certo punto una rabbia per la sua vita così sacrificata; in seguito ho capito che questo dà un senso alla sua esistenza. Accudendo i suoi genitori fino al limite delle sue forze, lei aiuta anche se stessa a non sprofondare nel totale non senso. L’amore per sua madre è ciò che la orienta e la ripaga dei sacrifici che fa.

Metto questo esempio di amore incondizionato accanto all’indignazione e alla rabbia che talvolta mi assalgono, per sottolineare come il nostro attuale vivere nell’incertezza sia anche un vivere nell’ambiguità, nell’ambivalenza, in un tempo di attesa e di timore potenzialmente aperto sia al meglio sia al peggio.

In questa situazione, ci sono molti vuoti che non dobbiamo avere fretta di riempire, ha detto Lucia Vantini al Grande Seminario di Diotima (il 9 ottobre 2020): per me personalmente quelli dell’attesa  e dell’incertezza sono tempi vuoti difficili da sopportare. Forse anche per questo vivo male questa seconda ondata del Covid.

Mi aiuta un po’ fare alcune cose che facevo anche nel periodo del lockdown. Allora, benché fosse proibito, facevo solitarie passeggiate in collina, che peraltro non nuocevano a nessuno. In quest’autunno del mio scontento, ho ripreso a farle: camminare, contemplare il paesaggio che muta con i colori dell’autunno mi dà gioia, ritempra il corpo e alleggerisce lo spirito. Mentre cammino, il corpo si ricorda delle passeggiate di allora: è un modo di ritrovare dentro di me una traccia di quel  desiderio di condivisione del respiro che allora accomunò molte, molti. È un filo esile, ma tuttavia è qualcosa a cui mi posso aggrappare, qui e ora, per non perdere del tutto il senso di ciò che vivemmo la primavera scorsa, e che altrimenti rischierebbe di sprofondare nell’oblio.

Altre pratiche a cui feci ricorso allora per fronteggiare l’angoscia furono pregare e dipingere: la prima mi riesce ancora, la seconda no. È come se qualcosa dentro di me si fosse inaridito, pietrificato. È un vuoto che non posso riempire volontaristicamente. Così come faccio fatica a colmare il vuoto che si è creato in me a causa della concomitanza della seconda ondata del virus col mio pensionamento. In pensione ci sono andata per scelta, non per costrizione: c’erano aspetti del mio lavoro in università, pur privilegiato, che non sopportavo più, come la crescente burocrazia informatica e le logiche di potere che governano le carriere, l’assunzione dei nuovi docenti, il reclutamento dei dottorandi, ecc.; a questi mali, a causa della pandemia, si è aggiunta la didattica a distanza, la quale taglia fuori il confronto diretto, in presenza, che per me è qualcosa di irrinunciabile.

Altri aspetti del mio lavoro però mi piacevano e mi gratificavano: oltre al contatto con le/gli studenti, lo studio, la scrittura, il lavoro del pensiero. Questi ultimi naturalmente li posso coltivare ancora e infatti non sono venuti meno: non c’è più il lavoro in università, ma prosegue l’impegno con le amiche di Diotima, ci sono articoli da scrivere, qualche conferenza da preparare, relazioni da tenere vive e da curare.

Tuttavia, il tempo non è più scandito da obblighi quotidiani: la sua gestione è totalmente nelle mie mani. E non è facile. Primum vivere è l’esortazione contenuta nel “Sottosopra” della Libreria delle donne di Milano Immagina che il lavoro (ottobre 2009); lì si afferma un principio con cui mi trovo assolutamente d’accordo: prima di tutto vengono la vita e la cura necessaria per sostenerla, il resto è meno importante.

Tuttavia non ho ancora maturato dentro di me il senso che può prendere questa nuova fase della mia vita: molti sogni che ho fatto recentemente alludono a una nuova nascita, ma so bene che questa è anche l’ultima fase della mia vita, l’autunno della mia esistenza. Come fare in modo che quest’autunno non ospiti solo lo scontento, ma dia anche frutti fecondi? Lascio in sospeso la risposta, ricordando solo che anche l’autunno ha i suoi frutti: fra i molti, c’è la melagrana, simbolo di morte e di rinascita. Forse la sapienza della terza età mi consentirà prima o poi di tenere insieme questi due aspetti, il senso della morte e la speranza di una rinascita, certo non garantita ma comunque possibile.