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per amore del mondo numero 16 - 2019

Mistica quotidiana

La mistica, una cosa di tutti i giorni

Per amore del mondo 16 (2019) ISSN 2384-8944 https://www.diotimafilosofe.it/

 

 

La mistica è collocata in genere in un luogo a parte, separato da tutto il resto: vista come un insieme di esperienze estatiche, eccezionali, di rapimenti, appannaggio di poche e di pochi, la mistica è stata messa ai margini dei nostri saperi e delle nostre vite. E questo vale più che mai oggi, quando, tramontata ormai da tempo una civiltà religiosa, non c’è più un orizzonte di fede condivisa che possa ospitarla: essa appare così non solo come qualcosa di raro e di eccezionale, ma anche come qualcosa che appartiene irrimediabilmente al passato.

È vero che ci sono stati alcuni tentativi di integrarla nella filosofia (ricordo fra gli altri quelli di Hegel e di Heidegger) e che ci sono state anche in tempi vicini a noi delle autrici mistiche (fra cui Simone Weil, Etty Hillesum e Adrienne von Speyr), ma in generale la mistica appare oggi qualcosa di molto lontano dalla nostra esperienza quotidiana, accessibile a pochi e del tutto fuori dalla nostra portata. La patente di eccezionalità della mistica è di fatto un modo di tagliarla fuori dai nostri saperi e dalle nostre esperienze, di renderla inoperante, inservibile per i più.

Io qui vorrei raccorciare questa distanza, ragionando a partire dal presente per integrare nel nostro orizzonte quotidiano l’eredità della mistica.[1] Dicevo che la mistica sembra una cosa lontana da noi, fuori portata. Eppure noi tutti facciamo delle esperienze estatiche: talvolta siamo rapiti fuori di noi stessi da un amore, da una passione politica, da un’esperienza estetica, dalla passione della conoscenza. In tutti questi casi, che io considero delle estasi quotidiane e accessibili a tutti, ci capita di dimenticarci di noi stessi perché siamo presi da qualcos’altro che ci attrae, ci seduce e ci affascina al punto che il centro di gravità non è più in noi ma in altro.

Queste sono estasi felici e quotidiane: a chi studia con passione capita talvolta di essere così preso dall’oggetto di studio da dimenticarsi di sé. Ne parla con cognizione di causa Simone Weil nelle Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici al fine dell’amore di Dio:[2] se ne può ricavare l’idea che l’attenzione è un’estasi della conoscenza, è un dimenticarsi di sé perché presi da qualcosa che attira, affascina e assorbe a tal punto che non interessa più neppure il risultato; finché dura quell’estasi, siamo felicemente immersi nell’oggetto. Per questo l’attenzione pura è, secondo la Weil, affine alla preghiera e come quest’ultima può essere orientata verso l’amore di Dio.

Tuttavia, molti di noi conoscono anche, in negativo, delle estasi infelici e piene di sofferenza: capita talvolta, spesso, di essere fuori di sé a causa di patologie psichiche; ne ricordo solo alcune: la depressione, la mania e il loro alternarsi. Etty Hillesum, per esempio, inizia il suo Diario parlando delle sue altalene di umore, di stati depressivi alternati a momenti euforici: man mano che procede la psicoterapia con Julius Spier e soprattutto man mano che lei scopre Dio dentro di sé come un punto di silenzio e di quiete nel profondo della sua anima, queste altalene di umore diventano più dolci, più temperate, e lei le accetta come parte integrante di sé.[3]

Estasi felici le prime, estasi infelici e sofferte le seconde: nell’esperienza di molti, molte di noi, ci sono entrambe. È come dire che anche noi oggi conosciamo i due versanti, quello divino e quello demoniaco, che le mistiche del passato avevano la preoccupazione costante di distinguere l’uno dall’altro, e per delle buone ragioni. Al posto dell’estasi nel divino, noi oggi abbiamo l’essere estatici per amore, per l’arte o per la conoscenza; al posto dello sprofondamento nel demoniaco, noi oggi abbiamo le patologie psichiche, nella loro multiforme e angosciante varietà. Infine, ci sono anche per noi oggi delle condizioni che ci permettono di riconoscere le estasi felici, di scorgerne la fecondità e di accoglierne la grazia. In questo mio breve testo, mi limiterò a indicarne quattro, quelle che mi sembrano le più importanti.

 

  1. L’impersonale

 

La prima condizione è dimenticarsi di sé nella relazione con l’altro, sia esso l’altro in carne e ossa o l’arte, una passione politica o la conoscenza. Felicemente immersi in questi “oggetti” o meglio in queste relazioni, ci dimentichiamo di noi stessi, non ci poniamo più al centro, ma ci collochiamo ai margini, in adorazione di ciò che in quel momento cattura totalmente la nostra attenzione. A me capita ad esempio quando dipingo (sia pure male, da dilettante) di essere così presa da ciò che sto facendo, dai colori, dalle difficoltà dell’esecuzione, che la mente si svuota del tutto delle preoccupazioni e di ogni pensiero disturbante. Estasi felice, così come lo è quella dei quaranta minuti di nuoto nella piscina comunale che ogni settimana mi concedo come esercizio fisico e di svuotamento della mente. Non sembri banale quest’ultima cosa: è una pratica che coinvolge il corpo ma che libera anche la mente. Ricordo a questo proposito una poesia di Mariangela Gualtieri: “Quando vuole pregare/ lei va alla piscina comunale/ mette la cuffia e gli occhialini/ entra nell’acqua ma non è capace/ di domandare, o forse non ci crede./ Allora fa una bracciata e dice/ eccomi/ poi ne fa un’altra/ e ancora eccomi. / Eccomi dice/ ad ogni bracciata. Eccomi a te/ che sei acqua e cloro/ e questi corpi a mollo come spadaccini. / E nello spogliatoio, dopo, alla fine / prova sempre una gioia – / quasi l’avessero esaudita,/ di qualche cosa che non ha chiesto/ che non sapeva. / Che mai saprà/ cos’era”.[4]

Dimenticarsi di sé è dunque la prima condizione. La morte dell’io, come è noto, è un passaggio cruciale in tutta la mistica. Io preferisco esprimerla con le parole filosofiche di Simone Weil: per lei la morte dell’io si lega strettamente alla questione dell’impersonale. Ne La persona e il sacro,[5] la Weil afferma che ciò che è sacro in ogni essere umano non è la persona, ma l’impersonale: un impersonale che è sia il corpo – le bracciate in piscina, un “eccomi” rivolto a acqua e cloro – sia l’aspirazione al vero, al bene, al bello – le mie maldestre pennellate di colore su dei pezzi di legno.

Nella politica delle donne legata al pensiero della differenza sessuale, c’è molto che va in direzione dell’impersonale: c’è un partire da sé che è sì un cominciare da sé, con il massimo di esposizione della propria singolarità, ma è anche e soprattutto un allontanarsi da sé per incontrare altre e altro, divenendo estatiche per una passione politica senza progetto, senza rappresentanza, senza delega.

 

  1. Agire senza l’ingombro dell’io

 

La seconda condizione è strettamente legata alla prima, ma riguarda l’agire: si tratta di agire senza il peso dell’io, agire secondo quanto richiedono la necessità, il gioco delle forze, gli squilibri da compensare, come insegna ancora una volta la Weil con l’idea di azione non agente. Vorrei però spiegare meglio l’agire senza l’ingombro dell’io con le parole della grande Teresa d’Avila, una mistica attiva e capace di azioni efficaci. La sua formula simbolica a questo proposito è: “Fare il poco che dipende da me”.[6] Non è una formula riduttiva e limitativa, come potrebbe sembrare a prima vista: Teresa di definisce “donna e tanto misera”,[7] ma si ritiene tale perché si confronta direttamente con Dio, non con un uomo; da questo confronto non esce sminuita, ma anzi rafforzata nella determinazione di dare inizio alla riforma dell’ordine carmelitano. Con questa formula, Teresa si tira fuori dall’altalena immaginaria fra un’onnipotenza illusoria e, all’opposto, una sensazione paralizzante di impotenza: lei dispone di tutte le proprie forze perché ha tolto di mezzo gli omaggi interiori a tutto ciò che non è necessario né immodificabile, perché ha sgomberato il campo dalle servitù inutili, dall’ossequio acquiescente al già dato, dagli ostacoli immaginari. La sua formula completa in verità è: “Fare il poco che dipende da lei e affidarsi”. Teresa fa tutto ciò che dipende da lei e per il resto si affida a Dio. Confida inoltre nella crescita esponenziale della propria capacità di agire se esercitata fino in fondo e sorretta dalla fede: “Se faremo quanto dipende da noi, (Dio) ci darà modo di fare sempre meglio”,[8] scrive. In questo suo agire, non c’è il suo io al centro, ma c’è l’affidarsi al disegno divino: collocata nel posto che le compete, lei ha piena consapevolezza dei suoi limiti ma anche della sua forza.

Tradotto nel linguaggio della politica delle donne attuale, questa formula di Teresa per me suona così: le donne dovrebbero usare tutta la forza di cui dispongono per lottare contro l’ingiustizia, la sopraffazione, il servilismo, l’agire strumentale. Dovrebbero fare tutto ciò che dipende da loro, pur sapendo che in fondo è poco, perché il loro raggio d’azione è inevitabilmente limitato. Le donne sono ben lontane, a cominciare da me, dall’usare tutta la forza di cui dispongono: spesso sono paralizzate da ostacoli immaginari o addirittura usano l’aggressività che potrebbe servire per combattere l’ingiustizia indirizzandola contro di sé, chiudendosi così nell’imprigionamento depressivo. Dall’estasi felice della passione politica si può passare così all’estasi infelice e sofferta della depressione. A me capita, è capitato più volte. Dunque, usare tutta la forza di cui si dispone, fare tutto ciò che dipende da sé, e per il resto affidarsi: a che cosa? Nella politica delle donne, non c’è il Dio di Teresa d’Avila né il soprannaturale di Simone Weil al quale affidarsi. Al posto di questo, c’è la libertà femminile, che è comunque una forma di trascendenza, una trascendenza immanente, perché è in gioco la mia, la tua, la vostra libertà, ma è in gioco anche qualcosa che eccede ciascuna di noi, qualcosa che oltrepassa la singola in direzione dell’impersonale. L’impersonale della politica, come lo ha chiamato Angela Putino.[9] L’impersonale della politica e il soprannaturale weiliano o il Dio di Teresa non sono tuttavia la stessa cosa: in comune, queste cose così diverse hanno però il fatto che in tutti questi casi si cerca di agire senza l’ingombro dell’io, trascinate fuori di sé da una passione politica, in un agire assolutamente non strumentale.

 

  1. Uscire dal linguaggio della ragione

 

La terza condizione è saper uscire dal linguaggio della ragione astratta, puramente argomentativa, senza per questo cadere nel delirio, ma facendo posto ai sogni, all’immaginazione, ai desideri che non possono realizzarsi, alle estasi, al godimento della presenza; infine, occorre lasciare uno spazio per il mistero, innanzitutto il mistero dell’incontro con l’altra, con l’altro. Tutto questo significa far posto nella propria vita a ciò che è irrinunciabile, anche se esso non si concilia con i dati della realtà. Questo lo insegna Cristina Campo, sensibile alla sapienza mistica e al linguaggio delle fiabe. La formula dell’irrinunciabile, con cui il protagonista delle fiabe apre le porte dell’impossibile e sfida la legge della necessità, è del tipo: “Qualunque cosa pur di salvare mia madre”.[10] Qualunque cosa pur di salvare il sogno di una vita migliore, pur di conservare l’orientamento di un desiderio profondo e autentico che pure si sa difficilmente realizzabile, qualsiasi cosa pur di non tradire ciò a cui si tiene veramente. La formula dell’irrinunciabile apre davvero un’altra dimensione rispetto al gioco della forza, rispetto alla legge della necessità.

Certo, con questo invito a uscire dal linguaggio della ragione, che è importante ma che non è l’unico possibile, costeggiamo pericolosamente lo spazio del delirio, dell’estasi infelice e patologica. L’estasi felice che consiste nel far posto al sogno, al desiderio, al mistero, corre sempre il rischio di sconfinare nell’estasi infelice del delirio psicotico.

Ne offre un esempio illustre un filosofo ben noto, Jean-Jacques Rousseau.[11] Effettivamente perseguitato da molti per la sua opera e per le sue idee, Jean-Jacques, dopo la stesura delle Confessioni, è preso da un vero e proprio delirio di persecuzione: ritiene che sia stato ordito un complotto universale contro di lui, al quale parteciperebbero non solo i suoi nemici ma anche i suoi più cari amici, con i quali infatti egli interrompe immancabilmente ogni relazione. In un primo tempo, Rousseau cerca di combattere contro il suo delirio persecutorio con la ragione argomentativa: dopo le Confessioni, scrive i Dialoghi, in cui, scindendosi in tre personaggi, Rousseau e un Francese, dei quali rispettivamente il primo difende e il secondo accusa un terzo personaggio, l’inerme Jean-Jacques, l’autore cerca di decifrare con la ragione argomentativa l’enigmatica congiura e di smantellarne i capi d’accusa, di respingerne le imputazioni di colpa.[12] Questo tentativo di combattere il delirio interpretativo con la ragione argomentativa fallisce miseramente:[13] non si può infatti opporre al delirio un’interpretazione, perché quest’ultima sarà inevitabilmente catturata e incorporata come una nuova escrescenza nell’interpretazione delirante stessa. La ragione argomentativa è inefficace e addirittura controproducente nei confronti del delirio, come afferma con cognizione di causa, sulla base della sua esperienza di psicoanalista, Cristina Faccincani.[14] I Dialoghi di Rousseau sono la testimonianza toccante ma anche angosciosa del penoso sforzo di una mente che combatte vanamente contro se stessa con le armi della ragione argomentativa, senza riuscire a scalfire in alcun modo il delirio. La ragione argomentativa è come l’Arpia, che, ne La tomba di Antigone, María Zambrano contrappone alla protagonista, all’eroina greca la quale invoca invece le ragioni del cuore e del sentire contro la ragione astratta.[15]

Dopo aver scritto i Dialoghi, tuttavia, Rousseau trova un’altra strada, un altro linguaggio che non è più quello dell’argomentazione, della ragione astratta. Trova o meglio inventa il linguaggio della rêverie e dell’estasi: Le fantasticherie del passeggiatore solitario documentano in modo commovente le estasi di Jean-Jacques nella natura, il suo rifugio nelle rêveries, il suo perdersi nel godimento immediato.[16] Il nucleo paranoico – la congiura universale ordita contro di lui – rimane intatto, ma le estasi nella natura e l’affidarsi a un linguaggio che non è quello della ragione argomentativa, ma è piuttosto quello della rêverie e della comunione estatica, gli consentono di offrire un contenimento al delirio, di circoscriverlo, di acquietarlo temporaneamente. Così, Jean-Jacques guadagna uno spazio altro da quello della ragione argomentativa, uno spazio in cui egli può sostare felicemente, sia pure in modo intermittente.

Il dramma di Rousseau è tuttavia che, a quel punto, egli non ha più nessun interlocutore: le Fantasticherie sono scritte solo per se stesso o forse per dei posteri che nel momento in cui scrive tuttavia egli non può neppure immaginare. Troncata ogni relazione umana per il sospetto onnipresente della congiura, Rousseau non ha davvero più nessuno a cui rivolgersi, è rimasto del tutto privo di interlocutori.

 

  1. La grazia di avere degli interlocutori, delle interlocutrici

 

Vengo così al quarto punto, all’ultima condizione che permette di dire se ci collochiamo o meno in un’estasi felice: la grazia di avere degli interlocutori, delle interlocutrici, perché la realtà è sempre anche dell’altro e non può essere mai possesso esclusivo di uno solo, pena lo sconfinamento nel delirio.[17] Le mistiche hanno sempre avuto almeno un interlocutore, l’Altro divino. E poi c’erano i confessori e le consorelle a cui confidare le proprie esperienze mistiche. Da questo punto di vista, l’obbligo di confessarsi, di scrivere le proprie esperienze mistiche, per il sospetto di eresia o di falsa mistica sempre incombente, era in realtà a mio avviso una felice contingenza, per esempio nel caso di Teresa d’Avila, alla quale il Libro della mia vita veniva sottratto dall’Inquisizione man mano che lei lo scriveva.[18] Così Teresa sapeva che c’era comunque qualcuno pronto ad accogliere le sue parole, fossero pure i membri dell’Inquisizione. Tuttavia, Teresa non scrisse solo sotto il controllo dell’Inquisizione; scrisse le Fondazioni per le consorelle, per altre monache. Scrivere un’esperienza estatica, in qualche modo comunicarla, è una sorta di necessità: lo per non restare murati nel silenzio angoscioso che nasce dal fronteggiare un’eccedenza, un mistero, che non si sa bene, almeno all’inizio, se sia di origine divina o diabolica.

La mistica occidentale è un’esperienza estatica che si svolge in solitudine (a differenza per esempio delle estasi dionisiache presso gli antichi greci): proprio per questo occorrono degli interlocutori. La politica delle donne ha concesso a quelle che vi partecipano la grazia di avere delle interlocutrici. Nel mio caso, alcune esperienze-limite, il vissuto della depressione e un breve episodio delirante, ho potuto sobriamente riattraversarle nella scrittura. La rielaborazione scritta è andata di pari passo con la ricognizione attenta e paziente di tali episodi nella relazione psicoanalitica. Ne è nata una scrittura fin dall’inizio segnata dalla presenza di altre: la mia psicoterapeuta innanzitutto, e poi le amiche di Diotima, che ho convinto a giocare insieme con me questo gioco di una scrittura che potesse ospitare anche la depressione e il delirio; questo è accaduto soprattutto in due libri di Diotima, La magica forza del negativo e Immaginazione e politica.[19] E poi, oltre alle compagne di Diotima, c’erano anche altre interlocutrici, le ascoltatrici e le lettrici. Così, anche queste esperienze patologiche hanno avuto la possibilità di essere reintegrate in una ragione allargata. Personalmente, non ho scelto la forma della narrazione, quanto piuttosto quella dell’accostamento delle mie esperienze-limite ad altre analoghe, sia psicotiche sia letterarie sia filosofiche.

Come ho già accennato, noi oggi, al posto del demonio, abbiamo le numerose e varie forme di patologie psichiche. Questo è il lato negativo e angoscioso delle estasi contemporanee. Ma per fortuna abbiamo anche l’arte, che può ospitare dentro di sé quello che non rientra nei confini della ragione: l’eccedenza, il sogno, la follia; l’arte può dare a tutto questo una forma, una forma bella. Come ha scritto Nietzsche, che ha sfiorato a lungo e che infine è sprofondato nei territori tenebrosi della follia, “abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”.[20] Abbiamo bisogno dell’arte per non soccombere alla ragione astratta, per contrastare le aride argomentazioni dell’Arpia.

In quest’ultimo passaggio, accenno alla possibilità che anche le estasi negative, patologiche, possano un giorno essere riscattate e integrate in un percorso positivo grazie all’arte e alla scrittura. In effetti, nei percorsi mistici, solo all’inizio, nei primi stadi, ricorre l’angoscioso interrogativo se le visioni e le estasi provengano da Dio o dal demonio; progredendo nel percorso, come si vede bene leggendo il Libro della mia vita di Teresa d’Avila, matura la certezza crescente che l’esperienza mistica sia frutto di un autentico contatto col divino. Nei gradi più alti del cammino mistico, si ritrova un senso di unità, come in quel punto di quiete nel profondo dell’anima di cui ci parla Etty Hillesum e che lei chiama Dio: là tutte le voci discordanti tacciono, là non c’è più posto per il dubbio né per il sospetto. Secondo Luisa Muraro, la mistica è la lotta contro i dualismi che si producono a causa della perdita di contatto con la propria interiorità.[21] E in fondo la distinzione, che pure io sento necessaria, fra le estasi felici e quelle patologiche è ancora una forma di dualismo. Tuttavia, le estasi quotidiane a cui ho cercato di accennare possono essere paragonate semmai solo ai primi stadi, agli inizi ancora incerti delle esperienze mistiche. Un profondo sentimento di unità, di quiete fiduciosa, lo possiamo sperimentare anche noi in rari momenti di grazia, ma, per il resto, le nostre piccole estasi quotidiane recano ancora traccia di una lotta, da ricominciare ogni giorno, per non perdere il contatto con la nostra interiorità, sia nelle sue estasi felici sia in quelle infelici. Che anche quelle infelici possano essere un giorno riscattate dall’inferno in cui giacciono è solo una speranza, un auspicio e, a giudicare dal punto in cui personalmente sono arrivata, per ora non può essere altro che questo: una speranza, un auspicio, forse perfino una timorosa fiducia, ma nulla più.

 

 

 

[1] Sulla mistica in relazione al quotidiano, cfr. Antonietta Potente, Come il pesce nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Edizioni Paoline, Milano 2017, pp. 83-95.

[2] Cfr. Simone Weil, Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici al fine dell’amore di Dio, in Attesa di Dio, tr. it. di Orsola Nemi, Rusconi, Milano 1972.

[3] Cfr. Etty Hillesum, Diario 1941-1943, edizione integrale, tr. it. di Chiara Passanti, Tina Montone e Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2012.

[4] Mariangela Gualtieri, Bestia di gioia, Einaudi, Torino 2010.

[5] Cfr. Simone Weil, La persona e il sacro, tr. it. di Nicole Maroger, in AA VV., Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, a cura di Roberto Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 63-92.

[6] S. Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, in Opere, tr. it. di Padre Egidio di Gesù, Postulazione Generale O.C.D., Roma 1985, p. 541.

[7] Ibidem.

[8] S. Teresa di Gesù, Castello interiore, in Opere, cit., p. 963.

[9] Cfr. Angela Putino, Impersonale della politica, relazione al Grande Seminario di Diotima, novembre 2006, in Stefania Tarantino e Giovanna Borrello (a cura di), Esercizi di composizione per Angela Putino, Liguori, Napoli 2010, pp. 108-111.

[10] Cfr. Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 32.

[11] Sul delirio di persecuzione nell’ultimo Rousseau, cfr. il mio libro La ragione alla prova della follia, Liguori, Napoli 2018, cap. I, pp. 1-18.

[12] Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Rousseau giudice di Jean-Jacques. Dialoghi, tr. it. di Pierangela Adinolfi, in Scritti autobiografici, a cura di Lionello Sozzi, Einaudi-Gallimard, Torino 1997.

[13] Su questo, cfr. Jean Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, tr. it. di Rosanna Albertini, Il Mulino, Bologna 1982, p. 328.

[14] Cfr. Cristina Faccincani, Alle radici del simbolico. Transoggettività come spazio pensante nella cura psicoanalitica, prefazione di Gaetano Benedetti, postazione di Chiara Zamboni, Liguori, Napoli 2010, pp. 61-74.

[15] Cfr. María Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, tr. it. a cura di Carlo Ferrucci, con un saggio di Rosella Prezzo, La Tartaruga, Milano 1995, pp. 94-99.

[16] Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del sognatore solitario, tr. it. di Beppe Sebaste, Feltrinelli, Milano 2016. Poiché questa recente traduzione modifica il titolo originale, Rêveries du promeneur solitaire, ho preferito citare nel testo la traduzione letterale e più comune del titolo, Le fantasticherie del passeggiatore solitario.

[17] Cfr. Cristina Faccincani, La realtà è sempre anche dell’altro, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009, pp. 33-53.

[18] Cfr. S. Teresa d’Avila, Libro della mia vita, tr. it. di Letizia Falzone, a cura di Giovanna della Croce, Edizioni Paoline, Milano 1988.

[19] Cfr. il mio libro La scrittura del deserto, Liguori, Napoli 2004, e il saggio omonimo in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, pp. 163-193; cfr. inoltre il mio saggio Soglia, in Diotima, Immaginazione e politica, cit., pp. 67-102.

[20] Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di Sosio Giametta, Adelphi, Milano 1974, p. 289: “La verità è brutta: abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”.

[21] Cfr. Luisa Muraro, Per vincere il primo premio della lotteria bisogna aver comprato il biglietto, in AA. VV., Un altro mondo in questo mondo. Mistica e politica, a cura di Wanda Tommasi, Moretti e Vitali, Bergamo 2014, pp. 17-26.