diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Taglio del presente

La lingua tagliata

 

Il caso di Milano[1] mi ha scosso terribilmente. Non solo per la follia del gesto ma anche per il valore simbolico che una tale violenza esprime. Mi ha fatto tornare in mente quel bel romanzo di Elias Canetti “La lingua salvata”[2] che è stato, per me, uno dei primi testi che parla esplicitamente di una biografia bi- e multilingue e del valore della lingua materna. Naturalmente la lingua di Elias Canetti non viene tagliata davvero. La domestica fa questa minaccia al piccolo Elias, ma non compie il gesto.

Ma tutti i giorni la lingua materna è minacciata e noi la vogliamo salvare oggi. Molti operatori culturali, scolastici ed amministrativi consigliavano in passato, e anche ora continuano a farlo, alle madri di abbandonare la propria madrelingua a vantaggio della lingua del paese d’arrivo. Si temeva e si teme, infatti, che il bilinguismo possa danneggiare il bambino condizionando negativamente il suo inserimento nel tessuto sociale. Moltissime ricerche sul bilinguismo hanno però ormai dimostrato come l’esercizio di due lingue fin dall’inizio crei intelligenza e favorisca l’apprendimento, oppure, non sia, comunque, uno svantaggio.[3]

Andando in una scuola media nella periferia di Verona per partecipare a un incontro di tante tinte mi sono comunque vergognata in qualche modo. Aveva la borsa piena di testi sul multi-culturalismo e sulla lingua materna e la testa piena di concetti sul rapporto fra il domestico nostrano e il domestico lontano ma entrando nell’edificio esternamente molto trascurato e grigio sono stata succhiata in un mondo di colore Bluette e arancio. Vauo!! Che bel colore: mare, sole, leggerezza, chiacchiera. Nei corridoi erano stati depositati anche le scene di uno spettacolo appena messo in scena da un gruppo di ragazze e ragazzi. In un atteggiamento rilassato come a casa propria studenti di ogni colore salivano le scale o scomparivano dietro una qualche porta piena di foto. Nell’aula dell’incontro con le pareti  che erano un percorso di viaggio le insegnanti responsabili di tutta questa animazione stavano chieti con il loro quaderno in mano per fare appunti e per imparare. Ci vorrebbe un regista di Hollywood, pensavo, con un team di fotografi e un gruppo di giornalisti che litigano per avere la prima intervista, illuminazione da riprese. Quell’atmosfera che ti fa capire che ti trovi partecipe a un momento storico che non devi perdere assolutamente. Invece no. Niente. Tutto dentro la più tranquilla quotidianità. Ma non sono loro le protagoniste favolose di questa scena bellissima? Hanno  creato questo spazio stupendo e stanno già vivendo insieme in modo gioioso questa avventura del multiculturalismo. Io le ammiro, queste attrici anche se loro lo trovano eccessivo.

 

La politica linguistica

Fino a poco tempo fa l’Italia non aveva bisogno di una politica linguistica perché il territorio nazionale era piuttosto omogeneo dal punto di vista  linguistico. Era invece un luogo di varietà dialettale e, di fatti, tutti gli italiani, delle generazioni passate e, in alcune zone ancor oggi, anche se non hanno esperienza di lingua straniera,  possedevano una lingua dialettale. Sono simili, si potrebbe dire, le problematiche che nascono da questa esperienza in quanto il dialetto rappresentava la lingua materna con tutte le sue caratteristiche di lingua degli affetti, e dall’altra con tutte le discriminazioni di lingua parlata per lo più dai poveracci. Era lingua orale che non poteva farsi strada con un libro in mano. Il divieto del dialetto era tanto frequente da provocare il mutismo della madre o il suo tentativo di parlare un italiano colto, oppure standard, senza riuscirci più di tanto. Il motivo della rinuncia al tanto amato dialetto era sempre il bene del bambino posto nella aspirazione di una futura ascesa sociale.

Proprio nei confronti del dialetto si è compiuto un errore politico che deriva da una sbagliata valutazione della lingua materna. Spero che questo errore non si ripeta con le lingue straniere dei figli immigrati. Il dialetto è scomparso a favore di un italiano piuttosto povero e poco espressivo e il bilinguismo dei bambini di campagna di una volta ha fatto posto a un monolinguismo dei nostri figli nutrito dal linguaggio televisivo.

Ci occorre una svolta linguistica. Le lingue sono tutte quante un patrimonio culturale della storia e vanno usate senza per altro impedire l’apprendimento della  lingua franca, quella letteraria e di altre lingue. Il monolinguismo vigente  è anche risultato di una convinzione scientifica largamente superata: che un bambino cresca meglio con un’unica lingua. Ma oggi sappiamo che non è così, anzi che il bambino è capace di apprendere spontaneamente più lingue ed altro ancora.

Possiamo osservare la politica linguistica in Alto Adige, oppure nelle UE, negli USA o in Sudafrica. Potremmo elencare una infinità di paesi che debbono porsi il problema della politica linguistica da adottare perché la convivenza fra popolazioni di diverse lingue è più la regola che l’eccezione. Generalmente possiamo osservare diverse strategie di politica linguistica che mirano alla integrazione delle popolazioni di lingua diversa, – spesso diverse anche per provenienza,:

strategia dell’uguaglianza

strategia di sottomissione

strategia di cancellazione

strategia di valorizzazione della lingua materna.

Non è qui il luogo per spiegare i diversi modelli. I termini comunque suggeriscono di che cosa si tratta. Noi affermiamo la necessità di valorizzare la lingua materna perché anche le altre lingue siano apprese meglio e si possa crescere in un clima umano più sereno.

 

Tutto si mescola o la lingua rimane pura?

Cosa succederebbe alle lingue se fossero lasciate allo stato naturale? se non ci fosse una politica che per motivi ben precisi tiene distinti gli idiomi? Fra le convinzioni culturali che acquisiamo a scuola troviamo la affermazione: la lingua colta è una lingua pura, i linguaggi mescolati sono dei linguaggi bassi. Moltissimi libri di linguistica contemporanea, e non solo, sostengono questa tesi. Mettere in dubbio questa convinzione sarebbe infrangere un tabù  come sposare qualcuno di un altro colore, di un’altra lingua, di un’altra cultura. Contro ogni  ragione continuiamo a comportarci secondo questo implicito. Si tratta di una legge non scritta. Anche se sappiamo che l’apice di certe culture si è verificato proprio in momenti di estremo mescolamento. Pensiamo alla Praga di Kafka, dove erano presenti almeno tre lingue e tre popolazioni di diversa cultura. O alla Königsberg di Kant . E non sono gli unici esempi naturalmente.

Nella lingua bassa il  mescolamento avviene perché il divieto non ha effetto e la gente “parla come mangia”. Il detto non a caso mette insieme il cibo e la lingua. Solo la sociolinguistica e l’etnolinguistica [4] più recenti non ritengono più che la distinzione tra le due sia identificabile con quella tra  un  codice ristretto” e  un “codice allargato” come faceva Basil Bernstein[5]  ma che si tratti di lingue complete che hanno una intelligenza perfetta anche se non rispettano le regole della lingua standard e non rispettano il tabù di mescolamento. Ogni volta che le persone condividono uno spazio, delle emozioni e delle pratiche nasce, si può dire, una comune lingua[6]. Un buon esempio è proprio l’Alto Adige dove la realtà economica e sociale in gran parte è la stessa, e la sfera  pubblica è condivisa anche se differenze rimangono nel mondo  famigliare. Ma quando una realtà e le pratiche sono uguali non c’è più motivo di parlare una lingua diversa. Visto che tutti quanti amano la propria lingua materna avviene un mescolamento che non è una prova di forza né è regolato da leggi di pari opportunità ma nasce forse dal desiderio, dal piacere e dalle competenze delle singole persone. Anche nella UE potrebbe nascere una comune lingua, non l’inglese che sarà la lingua franca, bensì una lingua creata dal basso.  Tra gli europarlamentari e i loro amministratori sta già nascendo una lingua mista. Il Jiddish degli ebrei esteuropei è una lingua di questo genere.

Anche la lingua degli intellettuali è già una lingua mista, non a livello di superficie bensì a livello dei concetti e della visione del mondo. Nelle scienze il pensiero è già universale, frutto del contributo di scienziati di tutto il mondo. Di fatti non facciamo fatica a leggere un testo scientifico in una lingua che non conosciamo bene perché la realtà rappresentata dalla scienza è una realtà condivisa, simile dappertutto e anche abbastanza standardizzata. Concepiamo in modo simile i concetti e le metafore, perciò abbiamo la stessa lingua interiore nelle scienze. Scriviamo lo  stesso idioma in tante lingue diverse.

La lingua materna, quella di ciascuna persona è diversa, piena di metafore e fenomeni grammaticali tipici che non hanno corrispondenza in un’altra lingua. Esiste davvero una lingua universale, quella della scienza, e dall’altra, una lingua molto particolare, cioè la lingua materna.

Certo una lingua standard  servirà sempre perché altrimenti la comprensione oltre la cerchia delle persone presenti all’atto comunicativo sarebbe molto difficile.

 

Il bilinguismo e i rapporti in famiglia

I libri più famosi sul bilinguismo sono, spesso, stati scritti da professori universitari di linguistica, uomini ed anche donne, che hanno educato ed osservato i propri figli nel processo di apprendimento di due lingue. Certo il loro osservatorio era piuttosto ristretto e la realtà delle molte zone di bilinguismo come p.e. l’Alto Adige oppure le zone metropolitane con alto tasso di immigrazione differiscono parecchio da questi casi di “figli di intellettuali”.

Non si può scindere la lingua dai rapporti che esistono fra le persone e il bilinguismo non è un fenomeno scientifico oggettivabile. Tutto ciò che riguarda la sfera delle relazioni umane è difficilmente oggettivabile e ancora meno programmabile. Renzo Titone nel suo libro “La personalità bilingue”[7] dice a questo proposito: “Tema assai arduo e complesso, quello di penetrare nell’intimo della personalità del soggetto plurilingue: complesso a causa delle fitte reti che legano la competenza linguistica con le componenti dell’ambiente sociale e culturale, storico, politico, anche a causa delle intricate strutture che si sono formate nell’intimo della psicologia del plurilingue adulto durante il corso di una vita più o meno ricca di esperienze a livelli diversi di consapevolezza e di controllo dell’Io. Spesso è più l’inconscio che l’Io cosciente a dipendere dai vissuti linguistici.”[8] Il bel libro “La Babele dell’inconscio, Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica[9] ne da conto.

E’ una questione dibattuta tra studiosi. Traute Taeschner[10] in “The sun is feminin” parla di una prima lingua mista e di uno sviluppo solo posteriore della capacità di separare nettamente le due lingue. Altri invece sostengono che i due sistemi sono distinti fin dai primi versi emessi dal bambino.  Ogni bambino o bambina, secondo me, apprendono la lingua materna in una modalità diversa, per non parlare della diversità dell’apprendimento linguistico fra femmine e maschi. Nelle famiglie bilingui diventano più palesi i rapporti. Il bambino registra come un sismografo ogni movimento relazionale. Di fatti i genitori spesso sono preoccupati e si vergognano di ciò che il bambino potrebbe rivelare della propria famiglia  non tanto perché potrebbe rivelare dei fatti segreti, anche questo, ma soprattutto perchè la sua modalità di parlare, il suo lessico e la scelta del registro rivelano molto dei rapporti che sussistono in famiglia.

 

Lingua per amore

La lingua non è uno strumento puro come un martello e una tenaglia ma è uno strumento che si potrebbe chiamare impuro perché mescolato ai sentimenti e a espressioni del corpo, anche inconsce. La lingua materna e la  famiglia d’origine non solo ci trasmettono la prima lingua ma formano anche il nostro carattere che sarà sempre diverso da quello dell’altro proprio per questa differente educazione primaria.

La lingua normalmente nasce dall’amore. Di fatti agli studenti si vorrebbe consigliare di innamorarsi di una persona straniera per apprendere meglio l’altra lingua perché null’altro che l’amore, che sia materno oppure fra adulti, aprono a un tal punto i sensi e i limiti del proprio essere così che il grande mescolamento possa avvenire. Perché nel caso dell’apprendimento attraverso i  sensi avviene proprio quel mescolamento, quella fusione, quel trasbordare che normalmente non si verifica dopo i primi anni d’infanzia.

Occorre perciò un tessuto positivo perché il miracolo del bilinguismo si possa compiere. Anche nelle famiglie borghesi di intellettuali il bilinguismo non ha sempre funzionato. E’ avvenuto solo se i rapporti fra le persone erano di reciproco rispetto e affetto.

Di contro esistono situazioni dove la lingua non si apprende per amore, anzi, non ha nemmeno un aura positiva. Faccio alcuni esempi: in Alto Adige la popolazione di lingua italiana non sente nessun desiderio di apprendere la lingua dialettale del Sudtirolo.

Gli studenti italiani del dopoguerra non amano il tedesco perché la lingua dei nazifascisti.

Quando ci  troviamo in una tale situazione non esiste quasi mezzo per superare l’avversione che le persone ne hanno. Studiare la lingua anche se è ritenuto utile diventa un impresa molto faticosa e i risultati non  sono in proporzione all’impegno profuso.

Quando la relazione non riesce a stare in un ordine positivo, abbiamo detto, la lingua si apprende a fatica. Nel caso dei nostri bambini stranieri può essere un ostacolo che la cultura alla quale il bambino appartiene non sia accettato. Se, allora, l’insegnante non stima la madre o non apprezza la sua cultura, il bambino non si potrà affidare all’insegnante e di conseguenza non avere la testa libera per apprendere serenamente.

 

Ma cosa succede quando non ci piace la madre di un bambino che abbiamo in classe, la rifiutiamo o la critichiamo p.e. per il suo velo o la sua idea di educazione?

Non rifiutiamo anche contemporaneamente gran parte del “corpo invisibile” del bambino o della bambina?

Ogni essere è fatto di una parte visibile e di una parte invisibile ma il bambino straniero a maggior ragione. Invisibile è tutto ciò che noi ignoriamo, o perché non siamo capaci di vederlo oppure perché  non ci aspettiamo nulla di buono dalla parte invisibile.

Entriamo in rapporto con l’altro, l’altra, credendo che la nostra storia sia tutta visibile e chiara e solo la loro sia avvolta dall’ombra. Dice a questo proposito Rosanna Cima:

“All’inizio, pensando alle donne migranti, mi sono sentita in grado di poter dare…ho sentito la mia eccedenza di tempo, di casa, di soldi, di forza, di lingua…”[11]

Ma successivamente lei deve costatare che è anche lei che riceve e dice:

“E’ forse solo urtando con qualcosa di diverso che si possono vedere le nostre strutture, quelle più profonde, che ci hanno fabbricato, forse in questo modo possiamo considerare di noi qualcosa che prima non abbiamo mai visto.”[12]

Anche noi abbiamo una parte invisibile, spesso invisibile anche a noi stessi. La nostra storia di estraneità (guadagnata magari in pochi chilometri) è ancora tutta da scrivere.

Torniamo assieme a indagare quella parte che forse ci unirà.

Forse è tutta contenuta nella figura di nostra madre e nella nostra lingua materna. Essa sa. La lingua sa, sa chi siamo. Siamo nati nell’amore.

 

La lingua materna

La lingua materna non è solo una lingua ma è la stoffa del nostro esistere. La si apprende nelle zone d’ombra dell’esistenza. Nessuno  si ricorda come ha imparato a parlare, a dire le prime parole. E’ una lingua che apprendiamo senza il nostro consenso, senza volontà, senza libertà, senza coscienza, senza regole, senza grammatica e soprattutto senza traduzione. Ed è per questo che circola in stati di coscienza a noi spesso preclusi ma diffusi in tutto il corpo ed entra nella notte dei nostri sogni e nella creatività del nostro agire. La lingua materna non è solo parola, è sentire, è muoversi, è il ritmo del respiro, l’espressione del viso, il timbro della voce, la qualità del sorriso, la direzione dello sguardo, la stretta della mano. La lingua materna è fatta di odori, immagini, movimenti, sensazioni nello spazio, vibrazione della voce, concetti, percorsi, strutture relazionali ed anche grammaticali.[13]

La lingua materna si apprende attraverso quello che oggi chiamiamo “embodiment” (essere completamente nel corpo), quando il pensiero  scaturisce dal movimento e dai sensi e il sé non è ancora presente. In quel momento nasce  una categoria inconscia dell’esperienza. Il regno dell’esperienza non mediata da altra lingua è il regno dell’inconscio.[14]

La apprendiamo da nostra madre perché  già in utero abbiamo sentito la sua voce e siamo in un intenso dialogo con lei. Non dobbiamo dimenticare che nelle società occidentali si tratta soprattutto del rapporto esclusivo con la madre mentre in altre società la cura dei figli è nelle mani di tutto il gruppo femminile. La madre è allora anche la nonna oppure la zia. Tutta la genealogia femminile è il riferimento per il piccolo o la piccola. In alcune culture[15] la lingua materna è del tutto diversa dalla lingua paterna, cioè da quella degli uomini che i bambini apprendono successivamente. Diverso è anche il rapporto con la madre o “chi per essa” se il bambino è portato addosso a contatto con il corpo materno oppure se è seduto su un seggiola di fronte alla madre. Da una parte abbiamo una trasmissione più corporea della lingua e una maggiore esposizione alla comunità degli interlocutori, dall’altra abbiamo soprattutto una situazione di dialogo individuale.

La lingua non può fare a meno dei rapporti. La lingua materna è per definizione questa: una lingua vincolata alle persone, al  luogo e al tempo.

La lingua materna ha comunque soprattutto il compito di creare la lingua interiore[16]. Così la nostra parola delle origini è composta di una parte udibile e visibile nella scrittura ma anche di una gigantesca parte di sostanza invisibile e non facilmente trascrivibile.

Ma cosa è la lingua interiore? Non è espressione verbale ma quella sostanza di cui ho già parlato. Si crea solo a partire dall’esperienza ed è fatta di questa materia anche se non solo di questa.

Mi capita spesso di voler dire qualcosa ma non riesco a esprimerlo in parole, in nessuna delle lingue che sto usando. Eppure è qualcosa che voglio dire. Si tratta spesso di una sensazione, di cui comunque ho una coscienza abbastanza chiara.

Forse le persone che parlano più lingue percepiscono più chiaramente la esistenza di questa lingua interiore.

La lingua materna in parte si trasforma, ma contiene anche molte immagini e parole che ci abitano concretamente per sempre. Nella vecchiaia e nella malattia ci parlano più fortemente.

 

Il bambino o la bambina che non possiede questa lingua interiore non è capace di apprendere alcunché. Nei testi di linguistica si citano i famosi casi di bambini che hanno imparato la prima lingua dopo i 12 anni . Penso, ad esempio a Kaspar Hauser e a Genny. Non hanno mai imparato bene la loro lingua.

La lingua materna è la lingua migliore e la lingua più completa che possediamo e l’educazione dei nostri figli in un’altra lingua non potrà mai essere così completa. Anzi la maggior parte delle persone migranti che parlano italiano in casa perché lo credono utile al bambino non si rendono conto di parlare una lingua molto modesta con loro e di rinunciare a una lingua meravigliosa.

Ciò che resta inesprimibile, perché alla madre manca la competenza di esprimerlo nella lingua che non è quella dell’origine, resta muto. Anzi, molte madri, come descrive Francine Rosenbaum[17], diventano afasiche. Non parlano più in nessuna lingua. Ciò che resta inesprimibile va  perso o entra nel inconscio.

La lingua essendo un codice simbolico è fatta di una moltitudine di sottosistemi. Conosciamo la lingua dei gesti, la lingua della tonalità di voce, la lingua dei segni, degli odori, degli sguardi, della distanza fra i corpi, dei movimenti del corpo, del colore della pelle, delle immagini, della musicalità, dell’esperienza vissuta, dell’affidamento.

La lingua  risulta perciò un codice complesso e stratificato e quello verbale costituisce solo una parte, anche se una parte molto importante, di tutto ciò che chiameremo lingua materna. La lingua materna trasmessa dalla madre è il codice più complesso e più completo che possa esserci: è voce udita già nell’utero, è movimento delle anche, è gesto della mano, è occhi che ti guardano, è corpo caldo nutriente, è esperienza dell’amore, del cibo, del sole.

 

La lingua della memoria

Ma cosa succede se la madre o chi per essa non parla la propria lingua materna ma cerca di parlare nella lingua del paese d’arrivo? Pascal Mercier nel suo romanzo molto avvincente dal titolo “Il silenzio di Perlmann” riflette sulla “lingua in quanto costituisce la memoria della singola  persona” e sul “passato personale come risultato di una creazione linguistica”, “creazione di  un passato personale con le narrazioni”. La lingua scolpisce una persona come se fosse una scultura.

Non parlando più la lingua dell’origine  questa madre non racconterà neanche le storie legate al passato. Non perché non lo voglia ma perché non sono più estremamente attuali e non sono più evocate dalle parole in uso. Perché generalmente non abbiamo il proposito di raccontare una storia ma ci viene fuori, inizialmente in modo inconsapevole, perché probabilmente un suono o una parola o una frase ci hanno fatto ricordare quella data situazione. Le storie nascono dalle parole come le parole nascono dalle storie. Ogni parola è solo la punta di un iceberg di una storia. Ma se la madre o la zia o il padre raccontano sempre meno storie, il bambino avrà un passato bianco, vuoto. Il luogo della nascita così diventerà lentamente un solo nome senza sostanza e senza radicamento. Ma siccome anche il luogo d’arrivo è un luogo senza storie per il bambino o la bambino, esso si troverà fra due luoghi vuoti e potrà solo col tempo colmare questo vuoto con storie di vita che vivrà in futuro nel nuovo paese. Manca il radicamento indietro e la persona è esposta a un puro radicamento in avanti che comunque è un controsenso. Non possiamo radicarci nel futuro. Non ci darà sicurezza, calma e autoconferma perché non sappiamo ancora cosa ci succederà e come usciremo dalle future esperienze. Ogni persona ha bisogno di un radicamento nel già vissuto perché è la prova della realtà, tangibile, già goduto, sostanza solida, anche se sofferta, ma presente.

Da queste riflessioni si fa urgente il bisogno di raccontare.

 

La lingua che lega

La lingua riflette i rapporti fra la madre e i figli. La lingua è una forza che tiene il figlio nel campo magnetico della madre. La lingua materna è la legge e l’etica che regolano i rapporti con la madre e con il mondo. Liberarsi della lingua materna vuol dire liberarsi del rapporto con la madre. Vergognarsi della lingua materna vuol dire vergognarsi della madre.

La madre a sua volta può vergognarsi della propria lingua e della propria origine oppure può essere costretta a reprimere il desiderio di parlare nella propria lingua.  Forse ritiene essa stessa inopportuno trasmettere la propria lingua. In questo caso si genera un vuoto che lascia al figlio una pesante eredità e un disordine sentimentale e mentale.

La madre che non parla la propria lingua materna è una madre “dimezzata”. La sua voce è poco energica e convincente perché privata della sua forza iniziale. Di fronte al cambio imposto di lingua molte donne cominciano a tacere, da una parte perché viene meno il desiderio di parlare e la capacità di parlare e dall’altra perché tutto ciò che desidererebbero dire non possono esprimerlo nell’altra lingua: quei giochi di parole, quei scherzi, quelle modulazioni nella voce quando la voce si fa strumento di gioco e musicale o severo mezzo di educazione, non sono più possibili, inoltre, i gesti che accompagnano queste modulazioni, non sono gli stessi nelle due sfere culturali e si verifica il fenomeno di una gestualità appartenete ad una lingua ed il lessico ad un’altra. Il linguaggio del corpo materno è in contraddizione con il suo linguaggio verbale. Tutta quella zona densa di emozioni e di divertimenti non trova espressione e rimane in  gola. Nella lingua imposta dall’esterno oppure dalle proprie convinzioni ragionevoli si esprime ciò che è più un linguaggio pubblico, un linguaggio regolativo-educativo a cui manca tutta quella parte prima descritta. Tale linguaggio è perciò mancante delle cose essenziali di una lingua materna. Non solo. Anche la grammatica di una lingua imposta, se non presenta proprio degli errori possiede in ogni caso una struttura rigida, povera di modulazione sintattica. Lo stesso vale per la competenza conversazionale. Ogni lingua segue delle regole con mille variazioni nell’arte del conversare. Nella seconda lingua, se non si sarà completamente bilingui, non si avrà mai la competenza e flessibilità strutturale che si possiede nella lingua materna. Il bambino e la bambina che non crescono imparando bene una lingua materna non ricevono la stessa ricchezza linguistica, emozionale e le stesse capacità intellettive.

 

La vergogna della lingua dell’intimità

Dall’altra parte è il bambino che si vergogna della lingua materna. Essa è qualcosa di assolutamente intimo. E ogni piccolo o piccola se ne rendono conto quando arrivano alla scuola materna oppure alla scuola elementare: non parlano con nessuno. Non avendo a disposizione una lingua, come dire, pubblica diventano muti. Talvolta possiedono due lingue, una quella per loro pubblica, cioè quella con la quale comunicano all’esterno e un’altra più intima con la quale parlano a casa: sarà il dialetto meridionale o un qualsiasi dialetto oppure una lingua straniera.

A scuola negano quanto possono il fatto di parlare un’altra lingua a casa. Se ne vergognano come se dovessero far vedere il corpo nudo. Solo quando hanno stabilito una relazione di fiducia con l’insegnante e con i compagni di classe fanno trapelare che possiedono anche un’altra personalità, un’altra lingua, appunto. Ma occorre una grande intimità e un giudizio positivo sulla loro origine perché possano ammettere di essere diversi. Il loro silenzio è la strategia di difesa quando temono di essere messi alla gogna per la loro diversità. Molti dei nostri studenti a scuola non si fidano ancora di noi, insegnante e compagni, e quello che raccontano non corrisponde al vero. Avrebbero bisogno di una relazione forte a scuola che sia con un compagno, una compagna oppure con un insegnante. La lingua nasce dall’esperienza comune, dalle pratiche che creano fiducia oppure almeno misura. Dove non esiste ancora la convivenza e la reciproca accettazione occorre tempo perché si realizzi e pazienza nell’attesa della prima parola.

 

 

La bugia

Tutt’altro problema sono le bugie. Alcuni bambini e bambine sono molto abili nell’ inventarsi delle storie. Quando un bambino straniero racconta qualcosa nessuno può verificare se ciò che racconta è vero. Nessuno è mai stato a casa sua, e ancora meno nel suo paese di origine, nessuno conosce p.e. suo zio e il fatto che possiede dieci cammelli oppure non. Mentre nel caso dei bambini del quartiere possiamo facilmente accorgerci se afferma cose non vere, in quello dei bambini stranieri questo non è possibile perché manca il testimone.

Di fatti una storia vale un’altra perché tutte sono altrettanto diverse per le persone locali. Invece mi sembra importante che si possa raccontare la verità. Questi bambini fantasiosi che raccontano cose  non vere mettono in imbarazzo i genitori che non sanno cosa fare e per quale motivo succede questo. Un’amica  che ha avuto la  figlia quando lavorava in Africa ha questo problema. La bambina sa più lingue perché ha avuto babysitter di diversa origine, ma siccome la famiglia si è trasferita dopo alcuni anni in un altro paese ancora le è mancata una realtà descritta con autorità. La madre non le aveva parlato in lingua materna, ma in inglese. Credo che manchi alla piccola il garante della realtà. In questi casi può nascere un divario fra realtà e irrealtà che impedisce che nell’età dello sviluppo si formino delle amicizie personali molto importanti e che la persona sia saldamente inserito nel tessuto sociale. D’altra parte se la verità spesso è troppo crudele perché non nominarla in codice?

All’esterno del mondo della famiglia, quando tutto è diverso e la diversità risulta minacciosa, il bambino può essere indotto a raccontare una cosa per un’altra. E’ tipico dei bambini di diversa provenienza di essere molto fantasiosi ma spesso quella fantasia è solo una battaglia di autodifesa e, a lungo andare può creare un grande  disagio, quello di non sapere più cosa è la realtà

Marìa-Milagros Rivera Garretas nel suo testo “Il linguaggio oracolare di Marìa Zambiano”, parla della madre in quanto si fa garante della realtà. Nominando la cosa per il bambino si crea quel nesso fra suono-parola, oggetto e concetto del reale.

“Oggi sappiamo e diciamo che la garante della lingua è la madre, ogni madre. Secoli fa, nell’Europa feudale il garante dell’ordine simbolico era Dio, il dio cristiano […]. Successivamente, nell’occidente capitalista moderno e contemporaneo, garante dell’ordine simbolico è stata la scienza. Oggi diciamo che la lingua è un dono della madre[…], che è lei, la madre, ogni madre, la  garante della verità delle parole, della coincidenza tra le parole e le cose. E’, quindi, la garante del senso della realtà, del fatto che il simbolico sia un ordine.”[18] Ogni bambino che ha dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine, dove era conosciuto dalle persone, ha a maggior ragione bisogno della madre e del padre come garante dell’ordine della realtà perché solo loro conoscono il mondo dal quale provengono e quello nel quale ora vivono. Solo loro sono testimoni di ciò che i loro bambini raccontano.

 

La lingua materna comunque non è solo la lingua dell’infanzia[19], essa è la lingua che comprende in se stessa tutte le conoscenze linguistiche del reale, è come un DNA della lingua, il codice genetico del parlare che si genera nel contatto con la madre e rimane, si può dire, tutta la vita la cellula generatrice del nostro parlare.

 

 

[1]              A Milano, nel marzo del 2007, una insegnante di sostegno taglia la lingua di un bambino straniero con la forbice.

[2]              Elias Canetti, La lingua salvata, traduzione di Amina Pandolfi e Renata Colorni, Adelphi Milano 1991.

[3]              vedi anche:  Corinna Belliveau, Simultaner bilingualer Spracherwerb unter entwicklungs- und kognitionspsychologischen Aspekten, Shaker Verlag, Aachen 2002.

[4]              Alessandro Duranti, Antropologia del linguaggio, Meltemi 2005.

[5]              B.Bernstein, Classi sociali e sviluppo linguistico: una teoria dell’apprendimento sociale, in E.Cerquetti (a cura di), Sociologia dell’educazione, Milano, Angeli, 1969.

[6]              Consiglio a questo proposito la lettura del testo: Lingua bene comune, a cura di Vita Casentino, edizioni città aperta, 2006.

[7]              Renzo Titone, La personalità bilingue, Bompiani, Milano 1995.

[8]              Renzo Titione, ivi p.37,

[9]              Jacqueline Amati Mehler, Simona Argentieri, Jorge Canestri, La babele dell’inconscio, Raffaello Cortina editore, Milano 1990.

[10]            Traute Taeschner, The sun is feminin, Berlin, Springer Verlag, 1983.

[11]            Rosanna Cima, Abitare le diversità, Carocci editore, Roma 2005, p. 35.

[12]            Rosannna Cima, ivi, p.48.

[13]            Vedi  anche: Corinna Belliveau, Simultaner bilingualer Spracherwerb unter entwicklungs- und kognitionspsychologischen Aspekten, Shaker Verlag, Aachen 2002.

[14]            Cfr. P. Kugler, L’alchimia delle parole, trad.it. di Luciano Perez, Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2002, pp. 24-25.

[15]            John Bradley, Man speak one way, women speak another, in: Jennifer Coat (edited by ), Language and Gender, Blackwell Publishers, Oxford UK 1998, pag. 13-20.

[16]            Naturalmente ognuna di noi ne possiede una diversa. Non è la lingua pura di Benjamin e non è la capacità innata di Chomsky.

[17]            Francine Rosenbaum, Approche transculturelle des troubles de la communication, Masson Editore, Paris 1997.

[18]            Marìa-Milagros Rivera Garretas, Il linguaggio oracolare di Marìa Zambrano, in: Il cuore sacro della lingua, Poligrafo, Padova 2006, p. 71.

[19]            Vedi a questo proposito anche Chiara Zamboni: Parole non consumate, Liguori editore, Napoli 2001, pp. 13.