diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 13 - 2015

Ancora differenza sessuale

La differenza sessuale c’è. È dentro di noi

* La differenza sessuale c’è, lectio di Luisa Muraro 29 marzo 2015, Book Pride, Fiera nazionale dell’editoria indipendente, Milano, organizzata dall’Osservatorio degli Editori Indipendenti. (27esimaora.corriere.it, 28 marzo 2015)

 

 

Nel Manifesto di Rivolta femminile (1970) c’è scritto «Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale».

Metto queste parole sullo stendardo con cui scendo in campo per affermare che la differenza sessuale c’è.

Ma, attenzione, a non intendere male. Non ho detto che c’è differenza tra uomini e donne, come si dice correntemente. Quel «tra» è un abbaglio. Tra i sessi c’è di tutto: usanze, mode, pregiudizi, leggi, c’è il diritto, il galateo, la scienza, ci sono anche muri, guardie, passaggi… Pensate a una linea di confine tracciata e vigilata da imperativi storici di diversa natura e forza. Questi imperativi hanno un certo potere d’imposizione, che varia da cultura a cultura, unito a un più insidioso potere di mediazione, che è di farci pensare e giudicare così o colà, interpretando anche la nostra personale esperienza. Ma non hanno il potere di arrivare al fondo dell’esperienza, al quale si arriva soltanto con qualcosa di vero. Quest’ultima affermazione prendetela per ora come un punto di resistenza che metto avanti, un avamposto.

La differenza sessuale non è tra, è in. Mi è interna, inerisce alla mia esistenza e io così la concepisco, così la vivo, come qualcosa da cui non posso prescindere, anche volendo. Posso mascherarla, nel senso di enfatizzarla, occultarla, adattarla, per sfida o in conformità, libera o forzata, consapevole o inconsapevole, a quegli imperativi del tra che dicevo. Spesso bisogna farlo. La differenza che c’è, sono io e non sono io; non aggiunge e non toglie. Detto in generale, si tratta di una mancata coincidenza, di un differire di me da me, qualcosa che si vive come un eccesso e una carenza che non si compensano fra loro, uno stato somigliante al trovarsi nel bisogno dell’essenziale disponendo intanto di ricchezze superflue.

Sento l’obiezione: ma questo è il proprio della condizione umana pari pari… Appunto! Secondo la veduta che sto esponendo, non si dà in primis l’essere umano, il famoso Uomo con la u maiuscola e poi la donna/l’uomo; l’umanità sono donne, l’umanità sono uomini. L’umanità sono altri e altre che vivono in un modo o nell’altro quella mancata coincidenza che ho detto, e non c’è teoria che possa sanarla.

Si fanno molte teorie della differenza sessuale, come se fosse qualcosa che bisogna spiegare. Lo è, perché, se c’è differenza, c’è altro, ma non è detto che la conseguenza sia di farci sopra una teoria. Si può anche invitarlo a pranzo, questo «altro», sognarlo, giocare insieme… Segnalo soltanto questo punto che è la cosa più importante che ho imparato leggendo Feyerabend, Contro il metodo, dove descrive la cosmologia arcaica secondo cui troppe sono le cose, gli eventi e le situazioni, per averne una conoscenza completa, e la oppone alla classica concezione del sapere che diventerà la nostra (moderna occidentale).

Le teorie meno sbagliate sono quelle infantili, giustamente valorizzate da Freud. «I bambini hanno i bottoni», mi spiegò una frequentatrice della scuola materna dell’età di quattro o cinque anni. E le bambine? «Noi li abbiamo sotto»; il paradigma proveniva dalla forma dei grembiuli in uso nella scuola, chiusi davanti quelli dei maschi, dietro quelli delle femmine o, più precisamente, dal disegno che lei stessa ne aveva fatto, per cui il dietro, messo sulla facciata del foglio, diventava un invisibile «dentro», proprio del sesso femminile.

Freud stesso ha avanzato una sua teoria di origine infantile, quella della castrazione:all’inizio eravamo tutti di sesso maschile, poi è successo che una parte dell’umanità ha perso gli attributi virili ed ecco le donne. In seguito, Lacan ha precisato che si tratta di una castrazione simbolica e che la cosa riguarda anche gli uomini di sesso maschile.

Anche Aristotele ha teorizzato che la causa della differenza sessuale sia riconducibile ad un incidente per cui, invece di un maschio, nasce una femmina. Aristotele è un grande osservatore della natura e del mondo umano, è filosofo e insieme scienziato, osserva e ragiona. Nel trattato Sulla generazione degli animaliscrive: «Il primo inizio è nascere femmina e non maschio», dice proprio così, «ma questo è necessario alla natura». Perché «ma»? Da qui prende avvio un discorso molto sottile: è necessario che nascano femmine, ma queste non nascono per necessità, nascono per un anomalo indebolimento del principio generativo (il maschio). Dopo di che ecco il ragionamento che sana l’incongruenza: l’anomalia che fa nascere le femmine non ha la necessità delle cose necessarie a raggiungere un fine, si tratta di una «necessità accidentale». (La donna e i filosofi, p. 79). Che cosa vuol dire? i traduttori di questo difficile passo non si sono ancora messi d’accordo. L’idea però mi pare chiara: le femmine sono necessarie, ma il sesso femminile non è normale. Credo che questo lo pensino anche i combattenti del grande Califfato, solo per fare un esempio. Per parte mia, non mi sento di respingere come ovviamente sbagliato quel pensiero. Direi piuttosto che è un pensiero incompleto.

Restiamo nell’antichità. Per Aristofane, intendo il personaggio che parla nelSimposio di Platone, l’incidente sarebbe la decisione di Zeus di dimezzare delle entità che, in origine, erano rotonde combinazioni di uomo con uomo, oppure donna con donna oppure uomo con donna. Non mi dilungo. Ai nostri giorni molti aderiscono alla teoria che in ogni essere umano ci sarebbe una variabile combinazione di maschile e femminile. Credo che anche qui si tratti di una teoria che tenta di rendere conto di un sentire, un sentire che in questo caso sembra essere condiviso da donne e uomini. Io ci vedo inoltre una versione semplificata e pacificante della mancata coincidenza di sé con sé.

Queste e altre teorie, come ho detto, le considero più o meno sbagliate, inevitabilmente. Le teorie sono totalità coerenti, cioè trasparenti a sé stesse. L’epistemologia lo sa, una teoria non si fa aggiungendo cosa a cosa. Ma, nel caso della differenza sessuale, si tratta del nostro essere corpo e parola insieme, in un rapporto di insormontabile eterogeneità, e qualsiasi cosa si dica, c’è sempre altro che domanda la parola e c’è sempre qualcosa dentro che è di troppo.

Nondimeno possiamo trovare qualcosa di vero in ogni una. C’è, nella teoria-mito di Aristofane, un punto che trovo molto illuminante ed è il sentimento d’incompiutezza interpretato come sintomo o manifestazione della differenza sessuale. Sentimento che non si placa necessariamente con la complementarità. Infatti può dare adito a una ricerca senza fine di sé in altro da sé. Questa è l’interpretazione principale che del mito ha dato Simone Weil. Simile alla sua è quella di un’anonima giovane donna che mi disse: «La mia anima gemella è morta in un incidente di moto, prima del nostro incontro». Ero bambina e sono rimasta incantata dal trovarmi dentro una fiaba vivente.

La differenza sessuale è un tema inesauribile e io credo di immaginare il perché.

La sessuazione, come sapete, è un fatto primordiale, una invenzione della vita tesa di suo a durare. L’incontro del patrimonio genetico di due, uguali e differenti, pare che sia una mossa vincente. Ma c’è un imprevisto, che è l’umano. O, più precisamente, l’irruzione del fatto primordiale nella sfera della parola, cioè del vero, del giusto, del buono (e del suo contrario).

La questione diventa allora: come fare ordine?

Ecco svelato il significato del discorso di Aristotele, in quel punto del suo discorso in cui dice «ma». La riflessione sulla riproduzione degli animali lo spinge a elaborare la nozione di una necessità che non è necessaria ma accidentale, in quanto non è finalizzata a…, come invece le nostre azioni consapevoli. Nella strana nozione di una necessità accidentale traspare la tesi darwiniana che soppianterà il lamarckismo. Ma perché il filosofo antico dice «ma»? Per separare l’ordine naturale, dove le femmine sono il principio, dall’ordine giusto e vero delle cose, dove il primato è del maschio, cioè dell’uomo. Ai nostri occhi Aristotele sbaglia in quanto considera l’ordine patriarcale come l’unico degno di essere chiamato ordine. Ma non sbaglia a considerare che la differenza dei sessi sia una questione tutt’altro che semplice, infatti se la pone non soltanto come studioso del mondo animale ma anche e soprattutto come filosofo politico.

Tutte le civiltà, che io sappia, si sono misurate con la questione e le hanno cercato una qualche risposta, anzi una grande varietà di risposte, con la lingua, le arti, la moda, gli usi della buona creanza, i codici, i tabù, l’onomastica, i privilegi, le gerarchie, le esclusioni…

Sempre lavorando per immagini, ricordo i miei soggiorni alpestri con la vista degli animali al pascolo che ci guardavano con grandi occhi e mi pareva di capire che fossero stupiti di vederci come siamo, noi che saremmo apparentemente loro fratelli e sorelle, o quanto meno cugini. Mi pareva che notassero soprattutto i nostri vestiti: braghette e gonne, capelli lunghi con il nastro, capelli corti quasi rasati, e mutande per nascondere l’innominabile intimità.

Ma la sorpresa non finisce qui. Una mia studentessa adolescente ci raccontò che un giorno, tornata a casa prima del previsto e salita in camera sua, vi trovò il fratello minore vestito con i suoi vestiti e truccato con i suoi trucchi, che si ammirava allo specchio: la sorpresa la paralizzò al punto che non gli saltò addosso, come avrebbe fatto con una sorella, e lui ebbe il tempo di mettersi in salvo.

La differenza sessuale è un imprevisto che falsifica le teorie, ultima la gender theory.

Nella prospettiva disegnata da Feyerabend descrivendo la cosmologia greca, la gender theory dei cinque generi ha qualcosa di doppiamente aberrante: perché solo cinque? Potrebbero essere tanti e tante, quanti e quante siamo su questa terra. Che cosa cercava quel ragazzino in camera della sorella? Era un viaggiatore, anzi un esploratore, in cerca di altro per trovare se stesso.

Finalmente, nel suo Undoing gender (2004), recentemente riproposto in italiano con un titolo più vicino all’originale, Fare e disfare il genere (Mimesis, 2014), Judith Butler, nota proprio come teorica della gender theory, intitola così un capitolo: «Fine della differenza sessuale?» E così lo conclude: questa rimarrà una questione persistente e aperta. Con ciò, aggiunge, «intendo suggerire di non avere alcuna fretta di dare una definizione inconfutabile di differenza sessuale, e che preferisco lasciare la faccenda aperta, problematica, irrisolta, e promettente». Parole oneste e intelligenti, tanto più che ci arrivano per un passaggio molto significativo, che non è né teorico né ideologico, è «il fatto» della sfida del soggetto femminile per la sua libertà sessuale. Quanto alla ragione che porta la filosofa statunitense a considerare promettente il problema della differenza sessuale, sono d’accordo con lei: si tratta della «inestinguibile impossibilità di stabilire confini certi tra il «biologico» e lo «psichico», il «discorsivo» e il «sociale». La civiltà moderna ha edificato e continua a coltivare un sistema di conoscenze scientifiche ordinandolo secondo precisi confini che separano il biologico e lo psichico, il discorsivo e il sociale. Vale a dire, facendo a pezzi ogni segreta o meno segreta ricerca soggettiva di un senso libero della differenza sessuale.

«Finalmente», ho detto sopra, per una ragione precisa. Solo gli Usa possono correggere gli errori degli Usa: la disparità di potere e di prestigio rispetto a paesi come l’Italia è tale che essi, gli States, capiscono le nostre ragioni solo se diamo loro ragione. Sotto le apparenze di uno scambio culturale, c’è un piano inclinato a senso unico, anche tra femministe, come abbiamo potuto costatare con la sistematica opera di sostituzione del linguaggio sessuato da parte del linguaggio gender. Pensato per gli scopi della ricerca storica, il cosiddetto «genere» è dilagato come uno pseudonimo di «sesso», o come un eufemismo: il «genere» non fa pensare al femminismo e ha l’ulteriore vantaggio che si può adottare nel linguaggio ufficiale e accademico senza suscitare imbarazzanti associazioni sessuali. In breve, la differenza sessuale si avviava ad essere esclusa dalle cose umane, per essere sostituita da un travestitismo generalizzato senza ricerca soggettiva di sé, disegnato dalle mode e funzionale ai rapporti di potere. Insomma: l’insignificanza della differenza e l’indifferenza verso i soggetti in carne e ossa.

Ma a questo esito, piuttosto congeniale alla cultura dell’economia finanziaria, non si arriva senza passare sopra il movimento delle donne cominciato con il femminismo degli anni Sessanta-Settanta, il che non è accaduto, la partita è ancora aperta.

L’ondata femminista che si è alzata in quegli anni è arrivata senza gradualismi, con la forza dell’imprevisto. Riporterò qui un racconto semplice quanto straordinario, che ne riassume molti, non ne esaurisce nessuno.

Stati Uniti, anno 1966: è cominciata la grande ribellione generazionale. Nel corso di questa, in quello stesso anno, accade qualcosa che annuncia la frattura femminista. È la rivolta nella rivolta, meno clamorosa ma più duratura. Come racconta la storica Elda Guerra, nel corso di un convegno di studenti di sinistra, avvenne quello che si considera il primo atto separatista: un gruppo di studentesse decise di abbandonare il workshop misto dedicato alla Woman Question, per riunirsi tra sole donne (Il femminismo degli anni Settanta, pp. 31-32). Il loro gesto, poi ripetuto da innumerevoli altre, fino ai nostri giorni, ha un significato la cui radicalità si è cercato (non senza un certo successo) di sviare con il femminismo di Stato, quello dei diritti e dell’uguaglianza, in continuità con il secolo XIX. E con un’evidente forzatura, infatti le protagoniste della rivolta nella rivolta erano giovani donne emancipate, non discriminate, tendenzialmente promesse all’integrazione paritaria. Esse interrompono questo processo per creare tempi e spazi di relazioni tra donne. La loro esemplare presa di coscienza e di parola ha le caratteristiche di una ripresa, nella sfera dell’umano, del fatto primordiale della sessuazione, che riceve così il significato di una nascita all’esistenza libera.

Il «ma» di Aristotele inciampa nell’imprevisto di un nuovo «ma» che mette in evidenza la storicità del regime patriarcale e ne avvicina la fine.

Non si tratta solo del patriarcato, c’è dell’altro che riguarda il nostro presente. Riguarda, più precisamente, la rappresentazione di un nuovo regime politico all’insegna della biopolitica, ossia di un’intromissione sistematica del potere nella vita delle persone. Ebbene, a questo regime si attribuiscono, come deteriori, caratteristiche che, per sé stesse, sono guadagni del movimento delle donne. Mi riferisco, specialmente, all’intreccio di vita e lavoro, all’eliminazione dei muri separanti vita privata e vita pubblica, e alla valorizzazione del lavoro relazionale.

La liberazione delle donne promossa dal femminismo è solidale di questi guadagni. Perciò, quando vediamo che il potere economico e politico li subordina alla sua logica (che è di durare e crescere) e ai suoi scopi (il profitto), si ragioni partendo da un punto fermo che, secondo me, ha valore di principio: la rivolta femminista ha rivoltato le condizioni basiche del vivere. Ho scomodato Aristotele per suggerire una veduta di quest’ampiezza.

Ad ogni buon conto, se il nuovo regime politico-economico usa le invenzioni del femminismo per plasmare la soggettività umana, non prendiamo la postura della critica contro, quel NO ripetitivo e sterile, e riprendiamoci quello che è nostro con la spada in mano, se così posso esprimermi.