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per amore del mondo Numero 3 - 2004

Filosofe

Intervista a Maria Zambrano (1904-1991)

* Mandata in onda nel programma “Muy personal” (Molto personale, 1988) della Televisión Española. Trascrizione di María Milagros Rivera Garretas, “Duoda. Revista de Estudios Feministas”, n. 25, 2003. Traduzione di Clara Jourdan)

 

a cura di Pilar Trenas (1950-1996)

 

Buona sera. È una grande soddisfazione per tutti noi avere oggi nella trasmissione questa donna, María Zambrano. Di Malaga, filosofa, pensatrice e poeta. Octavio Paz ha detto di lei che ha sempre vissuto al confine tra la poesia e la filosofia, e che per questo i concetti diventano in lei immagini. Cioran, che subì il suo fascino una sera in un caffè di Parigi, ha parlato del prodigio di questa donna che mai ha venduto l’anima all’idea. E oggi tutti riconoscono la ragione poetica che illumina tutte le pagine di María Zambrano.

 

María, buona sera.

 

Piacere, Pilar.

 

Grazie mille di riceverci qui nella sua casa.

 

Felice di averti a casa mia.

 

María, adesso che ha appena compiuto 84 anni, come si sente?

 

Oh, bè non lo so, perché io ho sempre avuto un’età indefinita. A volte mi sono sentita molto giovane, a volte infinitamente… no, niente di infinito conviene alla vita umana, a volte… ormai, di troppo.

 

No, di troppo mai, María.

 

Sì.

 

Stanno per compiersi, fra poco, i quattro anni dal suo ritorno in Spagna, dopo il lungo esilio…

 

In effetti, del lunghissimo esilio.

 

María, è stato difficile questo processo di riadattamento, essere di nuovo Spagna?

 

Bè io direi di no, perché ho portato con me la Spagna nel cuore, e inoltre ho sempre avuto rapporti con spagnoli, sia con gente illustre che con studenti, con operai, con… Io non… in un certo modo, come credo di aver detto all’aeroporto, non sono uscita dalla Spagna; non solo per averla portata, ma perché venivano da me, come la ragazza che faceva la commessa in un negozio dell’Avana e si sentiva sola, e mi telefonava, non osava, e veniva a trovarmi a casa. Non ho fatto distinzioni di classe, ma di persone.

 

Ha scelto, ma solo per altre ragioni, non per la classe…

 

Come dice?

 

 

Ha scelto per ragioni di amicizia e per altre ragioni, ma mai…

 

Sì, per ragioni d’amore, se si può dire. E a volte per ragioni di necessità anche. Ma questa necessità io la facevo diventare amore, perché se no non lo potevo fare, non veniva, non funzionava.

 

Ha sempre funzionato bene, María. Per molti anni la sua opera è stata un po’ tenuta lontana, sconosciuta, è stata sconosciuta in Spagna, ignorata. María, lei crede che l’unica ragione sia stata quella distanza fisica che lei aveva dalla Spagna?

 

Bè, io non direi, no. Perché in questo stesso tempo la Spagna stava come stava, e quelli che vivevano in Spagna rimanevano anche loro sconosciuti. A parte il fatto che le vie del pensiero sono molto difficili da tracciare, lei lo sa.

 

María, lei ha detto di essere stata vittima dell’antiorteghismo [da José Ortega y Gasset, n.d.t.]. Come ha sentito lei questo antiorteghismo?

 

Bè, questo antiorteghismo, in effetti già cominciava in Spagna. Perché questo antiorteghismo… perché ogni figura luminosa, ogni figura preponderante genera sempre il suo contrario. Don José, ai suoi tempi migliori, quando io lo incontravo, quando lo frequentavo, mi riceveva così umilmente, me e alcuni discepoli, tremava per quello che diceva di lui l’ultimo giornalista. Tremava. Non l’hanno mai creduto.

 

María, però lei si è sempre dichiarata anche una fedele discepola, pur non essendo orteghiana, no?

 

No, orteghiana no, perché se fossi orteghiana non sarei discepola. Anche lei, questo lo capisce molto bene, no? Sarei una seguace, non discepola, il contrario che essere discepola.

 

María, cosa ne dice se viaggiamo un po’ insieme fino alla sua infanzia? A Vélez Málaga? Andiamo a ricordare quelle prime immagini della sua infanzia?

 

Sì, sono immagini e sono sensazioni. Una cosa talmente evanescente e che pare destinata a consumarsi all’istante, risulta poi che mentre uno ha una vita qui, e non sappiamo se da un’altra parte, sono rimaste attaccate: l’albero di limoni dell’orto.

 

Quell’odore che non ha mai potuto dimenticare, no?

 

Sì, e l’asprezza. Il profumo della sera. Il mio primo viaggio in braccio a mio padre quando io non sapevo cosa fosse essere propriamente padre, non potevo saperlo. La ninnananna del mare, il calare della sera, il profumo, la stella, il giglio… no, lì non c’erano gigli, c’erano vasi che non so che fiori avessero, perché io non sapevo il nome dei fiori, non sapevo nominarli.

 

Ma li sentiva.

 

Li sentivo per sempre. E il sapore della canna da zucchero, che facevano succhiare allora ai bambini, pezzetti di canna da zucchero, mi è rimasto il gusto in bocca, mi è rimasto per sempre, e il pane di fichi, che dopo arrivava a Segovia mandato da alcuni discepoli di mio padre. Ah, che cosa meravigliosa! Persino il vino ho bevuto. Aveva 108 anni quel vino. Ah, che cosa meravigliosa! Non si sapeva che cos’era. E dopo, bè, io il vino non lo posso bere.

 

María, lei parla di suo padre, suo padre fu il suo primo maestro, vero? Che cosa le ha insegnato?

 

Certo, certo che mi ha insegnato, ma come dire quello che mio padre mi ha insegnato! Un calore, una giustezza, un’armonia, una bellezza, una certa rigidità, come può essere quella di un albero con le radici affondate nella terra e la chioma altissima che arriva al cielo.

 

E di sua madre, María, di sua madre?

 

Di mia madre, come non ricordarla, con il suo sorrisetto, con il suo sorrisetto accogliente, con la sua dolce ironia, e con quel dire: bravina, bravina, quando le lodavano sua figlia.

 

Non voleva che fosse vanitosa.

 

No, no.

 

María, però presto lei abbandonò questa terra, di cui ha così bei ricordi, e la sua seconda terra fu Segovia, no?

 

Sì, passando prima per Madrid, sì, per Madrid. Dove ho sofferto il fatto che la casa in cui i miei genitori vivevano, ebbene non aveva terrazzo, non aveva il tetto a terrazza; e io andavo sulla scala; e questo di avere una strada, di vivere in una strada e non in tutto il paese, appunto mi dispiaceva.

 

María, e fu a Segovia che scoprì l’acqua? Questo elemento che è stato sempre…

 

L’acqua. Bè, l’acqua credo sia stata sempre dappertutto, è stata nei miei sogni, ma a Segovia la scoprii nella Fuencisla, goccia a goccia.

 

María, nella sua, in quella specie di autobiografia che lei ha scritto, dice che prima volle essere un carillon, poi volle essere un cavaliere templare, e alla fine, più tardi, una sentinella. Lei…

 

E una serva.

 

Anche una serva. In qualche modo, nel corso della sua vita, questi desideri si sono realizzati o si sono…

 

Io credo di sì. Soprattutto quello di serva.

 

Perché?

 

Perché sono qui per servire a ciò che mi si comanda.

 

Sì?

 

E quello di cavaliere, pure. Il cavaliere porta una cappa, una croce sulla cappa, ed è anche lui per servire; e il carillon… bè questo non ho potuto esserlo, però me ne hanno regalati. Ho fatto in modo, senza imparare il canto, che la mia voce, che il mio dire avesse un po’ di incanto musicale.

 

Di musica. E sentinella? Di che cosa è stata sentinella?

 

Oh, sentinella! La sentinella nella notte che udivo io a Madrid, che andava da una caserma all’altra: “Sentinella all’erta, all’erta sta!” Stare nella notte svegli, questo mi è rimasto.

 

E poi l’esilio. Anche se si vietò la nostalgia, furono anni duri. Pellegrinare dall’Avana a Puerto Rico, e dal Messico a Buenos Aires, da Parigi a Roma e da Roma a Ginevra. La morte di sua madre a Parigi, la separazione dal marito, le conferenze. La solitudine. E sempre alcune idee e alcune parole sacre su cui María Zambrano è scesa in profondità tentando di sviscerarne il più intimo significato: Spagna, Cristianesimo, Cultura, Anima, Filosofia, Morale, Dio, Pensiero, Acqua, Luce, Fuoco, la Fiamma, l’Aurora, i Chiari del Bosco, il Sogno, l’Amore, la Verità. E sempre con il medesimo bisturi come strumento, la ragione poetica che muove la sua vita. Per questo, quel 20 novembre 1984 quando ritornava a Madrid, come l’ultima vittima dell’atroce naufragio spagnolo del 1939, potè dire, rispondendo alla domanda: María, lei pensava che sarebbe tornata in Spagna dopo cinquant’anni?

Cinquanta? Oh! Io credevo di non essere mai stata via.

 

E, María, come e quando scoprì il pensiero e seppe che avrebbe dedicato tutta la vita a pensare?

 

Bè, questo da una parte è difficilino, da un’altra parte non tanto. Perché io avevo uno stipetto per me, nella mia stanza, il mio nascondiglio, e lì custodivo un libro che avevo sottratto a mio padre, della biblioteca filosofica pubblicata da Zozaya – glielo dico adesso – e questo libro lo custodivo per quando avrei potuto leggere e studiare. E questo libro, poi ho visto che era Leibniz. E anche sentivo mio padre dire, perché lui era un filosofo, ripetere il motto dell’accademia platonica: “Nessuno entri qui senza aver imparato la geometria”; e io gli chiedevo: papà, quando mi insegnerai la geometria perché io possa pensare?

 

María, a ventidue anni lei sta a Madrid.

 

È così, sì.

 

E a Madrid, come fu la scoperta di Madrid? Dato che ci era passata da piccola, ma con l’università…

 

Arrivai a Madrid nel ventisei, ma il fatto è che prima ci ero andata molte volte da Segovia a fare esami da esterna in ardue materie, in cui cominciavano dicendo: “no, senza frequentare qui non si può”; “bè allora mi dica lei quello che devo fare”, e dopo potevo. Tranne in una, se vuol sapere quale gliela dico.

 

Quale? Sì.

 

In Storia della Letteratura. Lì mi sono bruciata.

 

E quando arrivò all’università, qui a Madrid, qual è la prima visione che ricorda di Ortega e delle sue lezioni? Com’erano le sue lezioni?

 

Oh, mio Dio! Io Ortega lo conoscevo già, certo, per averlo letto, ma questa cosa di entrare in una sua lezione… Io cominciai a studiare l’anno ufficiale del dottorato un anno prima, per abituarmi, e per non perdere tempo. Entravo piano piano, lontano, e poi andavo sempre più vicino, sempre più vicino, e credevo che aveva gli occhi verdi, e che era un po’ imponente, ma quando poi mi è toccato stare in prima fila per farmi interrogare, ebbene mi sono resa conto che non aveva gli occhi verdi, ma che era lo stesso, mi faceva tremare.

 

Ma ci fu un momento in cui la sua vocazione filosofica vacillò, vero, María?

 

Ebbene sì, perché ogni vocazione autentica credo che vacilli un pochino, perché io mi sentii incapace di studiare filosofia, mi sentii negata. Perché tra il rigore di Zubiri, che ritornava, e la chiarezza orteghiana, io non ce la facevo, né con la chiarezza né con il rigore. Non ce la facevo proprio; e decisi di non studiare filosofia; e così quell’estate che dovevo studiare filosofia, bè ho fatto quello che volevo, e cioè leggere la terza Enneade di Plotino e l’Etica di Eschilo.

 

E questo l’animò ad andare avanti?

 

Bè certo, se mi sono trovata a studiare filosofia mentre ero in vacanza… un giorno me ne resi conto, scoppiai a ridere e continuai.

 

Cioè i maestri l’avevano spaventata un po’.

 

Bè, i maestri no, la maestria, la filosofia. È che fa molta paura. Come tutto ciò che si ama davvero.

 

María, lei quando era all’università, dato che per finire studiò filosofia e concluse, non era un fatto molto abituale che donne… bè che…

 

No, no.

 

Non era molto frequente. E lei notava che sia i professori sia i suoi compagni la trattavano in un altro modo per il fatto di essere donna?

 

Bè, a volte, ma io non mi lasciavo…

 

Non si lasciava, si difendeva da questo.

 

Allora, non fui femminista, fui femminile: non cedetti. Allora io fui subito assistente di Storia della Filosofia e lì fu lei, perché come fu, perché il professor Zubiri era in Germania, e l’assistente era non so dove, è toccato a me, in mancanza di meglio, e il mio compagno… si dimise, non ha voluto. Ebbene qui ci sono io.

 

E come l’accettavano gli allievi?

 

Felici, mi chiamavano come hanno sempre continuato a chiamarmi gli alunni dappertutto: María.

 

E a lei piaceva questo di stare in contatto con questa gente giovane?

 

Certo, certo. Ero anch’io tanto giovane allora, più di alcuni di loro. Ma dopo, per il mondo, quando sono stata professoressa e mi hanno chiamato in certi posti dottora, perché era il titolo, in altri dottoressa, in altri non so cosa, allora io non dicevo niente, non scendevo dalla predella, continuavo a parlare tranquilla, sicura che dopo quindici giorni mi avrebbero chiamata María.

 

Prima diceva di aver sostituito Zubiri alle lezioni, ma a quell’epoca conobbe anche Maravall, García Morente, e…

 

Ma Maravall era un compagno, e non di filosofia, di diritto, e García Morente era professore di etica, che ho superato senza frequentare, ho avuto l’ardire di farlo.

 

E tutto questo gruppo di gente che conosceva all’epoca, com’erano? Con chi lei si identificava di più?

 

Bè è difficile da dire, perché non era un gruppo, era un po’ come… come la Grecia, un arcipelago, sai? La vita non era così semplice, così a compartimenti come schematicamente la si vede quando sono passati tanti anni.

 

María, subito lei già pubblica il suo primo libro.

 

Libretto.

 

“Nuovo liberalismo”…

 

Sì, sì, Orizzonte del liberalismo, editore Morata. E questo avvenne mentre ero ammalata, alla fine della mia malattia.

 

Come visse la malattia, María, questa…?

 

Tubercolosi. Bè, come si faceva allora, stando molto ferma, mangiando molto, e senza fare nulla. Il tempo. Mi trovai da sola con il tempo immenso; e allora la prima cosa che dovevo fare era nuotare nel tempo.

 

Questo a volte è anche un privilegio, essere padrone del proprio tempo, vero?

 

Bè, però è terribile. Io non ero padrona, era il tempo padrone di me.

 

María, e mentre le capita tutto questo, lei fa lezione, pubblica…

 

No, mi riferisco, scusi, al tempo, ai due anni di cura di riposo, che ho fatto a casa mia invece di andare in una clinica, perché casa mia era esposta al sole, c’era aria, c’era mia madre, mio padre, mia sorella Araceli, che quando era molto più giovane e più vitale di me fu anche lei un po’ tubercolotica, e il suo promesso, con cui si sposò, era medico.

 

María, cosa ricorda lei di quelle missioni pedagogiche portate avanti all’epoca della seconda Repubblica?

 

Meraviglioso!

 

Come era la cosa?

 

Partecipai a qualcuna di esse. Quello che ci davano bastava solo per… per i sandali. Se volevamo andare per conto nostro in qualche altro paese, ce lo pagavamo, e a volte ci trovavamo di fronte a spettacoli… bè non era spettacolo. Realtà meravigliose, di una Spagna… devo fare uno sforzo per non piangere… di una Spagna che si risvegliava alla vita, di una Spagna in cui si univa l’antica cortesia, per un intero chilometro, di gente che ci aspettava, vestiti con la cappa, con il costume tradizionale e con il presidente che portava la bandiera della Repubblica. Ci fecero passare in mezzo come se fossimo stati santa Teresa, con lo stesso rispetto. E quegli uomini del popolo che entravano, per esempio, per vedere don Fernando de los Ríos, che era una grande figura del partito socialista e della Spagna, a Yuste. E portandosi una mano al…, come se fosse un copricapo militare, dicevano: “Compagno don Fernando, Dio la protegga”. Meraviglioso!

 

María, si commuove. Fu a quell’epoca, vivendo questo, questi momenti così importanti e significativi anche della storia della Spagna, che si andò formando il suo pensiero?

 

Non so se si andò formando, non lo so. Perché io non pensavo a me, come succede quando uno si dà veramente; io sì sentivo che dovevo approfittare di questi momenti perché sarebbero stati brevi, perché sarebbero durati poco.

 

María, nel trentasei lei si sposa, si sposa con lo storico Alfonso Rodríguez Aldave, e vanno in Cile dove lui è nominato segretario dell’ambasciata spagnola.

 

Sì, ci andammo perché fu nominato secondo segretario dell’ambasciata.

 

E come fu questo primo contatto con l’America, questo incontro, la prima volta che si incontrava con l’America?

 

Bè, meravigliosa. E soprattutto perché dovemmo fare un lunghissimo viaggio, dato che la Spagna era mal considerata in alcuni posti. Dovemmo passare prima per l’Avana, dove mi avevano anche invitata, me, ma io zitta. Allora mi chiesero una conferenza al Lyceum Club, il più elegante che c’era, e chiesi permesso all’ambasciatore e mi disse che sarebbe stata un’ottima cosa, e la feci, su Ortega y Gasset, ed era tutto così… credo che andò molto bene, dico. E poi subito dovemmo andare a Panama, passammo il canale di Panama a piedi, per così dire, cioè attraverso le chiuse. Meraviglioso! E arrivare a Balboa nel momento in cui il sole tramontava nel Pacifico, nel Nuovo Mondo; e poi passare per… il Perù, per città come Antofagasta, fino a fare il giro…, verso dove, mio Dio…

 

Per arrivare fino in Cile.

 

Fino in Cile.

 

Lei ha detto molte volte che il pensiero spagnolo è carente di sistema filosofico. Ci spieghi un pochino di più questo, su che cosa lo fonda…

 

Sì, bè, vedrà lei, leggendo La scienza spagnola di Menéndez Pelayo, che io rispettavo e rispetto perché, pur essendo reazionario, era però un uomo di fede e di verità. Il fatto è che in Spagna ci sono stati precursori, c’è stato soprattutto questo, ma quello che non c’è stato è continuità e vigenza, che sono le note di una tradizione filosofica. Il che va d’accordo con ciò che poi si è osservato, che in Spagna bisogna stare cominciando sempre.

 

È vero.

 

Sempre, ogni giorno bisogna cominciare.

 

María, nel trentasette eravate in Cile e nonostante la guerra si stesse perdendo, siete tornati in Spagna.

 

Bè, però non è nonostante, ma per questo. Ci dicevano: se la guerra è perduta…. Appunto per questo ritorniamo in Spagna. Se fosse vinta resteremmo qui.

 

E voi partecipaste a tutte le vicende della Repubblica, appoggiaste, aiutaste, faceste tutto quello che era in vostro potere. María, a Valencia lei fece l’avventura della rivista Hora de España, conobbe Emilio Prados. Che cosa ricorda di quella…?

 

Bè, però conobbi Emilio un pochino prima. E inoltre Hora de España mi mandò in Cile. Sì, a Valencia. Allora, non so bene, mio marito di allora… Non ne ho avuto nessun altro; dopo mille anni non sono divorziata, perché, non so, non perché non voglia…

 

Non è divorziata perché non sa.

 

No, non c’è modo.

 

Non c’è modo.

 

Però non ho avuto nessun altro marito. Allora, che è successo a Valencia? Siccome ci restammo un po’ di tempo perché il governo stava lì. Quando si trasferisce a Barcellona, ebbene andiamo a Barcellona. A Barcellona… c’erano già i miei genitori. A Barcellona, e anche a Valencia, io collaboro con le…, non mi ricordo. Come si chiama? Con il Patronato dell’infanzia sfollata. Sono del Patronato Nazionale, nientemeno. E dovevo visitare i posti in cui erano alloggiati i bambini che venivano trasferiti da altre parti della Spagna bombardate. E io andavo a visitarli. Non era facile. C’erano molti problemi. Questioni molto delicate, perché allora, fascisti, comunisti, repubblicani, erano tutti mescolati. Non si sapeva. Io mi attenevo a quello che dovevo fare. C’era a volte un battaglione russo, uno solo, perché l’azione della Russia in Spagna fu più…

 

Di facciata.

 

E allora io andavo a nome della Repubblica, e mi tributavano onori, e dovevo fare un discorso, che dovevo improvvisare a stomaco vuoto, avendo viaggiato in un taxi che andava a scossoni. Ma non lo ricordo con amarezza, lo ricordo con gioia. Se si può sapere…

 

Alla fine del trentotto suo padre muore…

 

Muore a Barcellona.

 

E un pochino dopo, all’inizio del trentanove, lei va verso il lungo esilio. Sono due colpi vicini molto forti.

 

Sì, persi mio padre, persi la patria, ma mi rimase la madre, la matria, la sorella, i fratelli. Mi rimase tutto, e perfino mio padre, che sentii che veniva con noi. Però che gioia, padre, che tu non debba soffrire le vicende dell’esilio!

 

Quando lei passò la frontiera, si proibì la nostalgia? Si proibì di avere nostalgia?

 

Sì, certo. Dovevo assumermi la responsabilità della nuova situazione, e non fare come ho poi visto fare a certi profughi, che non disfacevano le valige, in attesa, in attesa, in attesa. Io, in primo luogo, di valige non ne avevo, perché sono sempre stata abbastanza povera, grazie a Dio, ma vivevo alla giornata: adesso è questo, il presente quanto più possibile.

 

E viverlo quanto più intensamente.

 

Quanto più, certo.

 

María, in questo lungo esilio, la prima stazione, la prima tappa è l’Avana, no? All’Avana aveva conosciuto un altro di quelli che sarebbero stati i suoi grandi amici, no? Lezama Lima. Che cosa ricorda di lui? Lei ha sempre parlato della sua trasparenza, no? Della trasparenza nella sua opera. Come la ricorda?

 

Io l’ho tenuto, mi sono scritta con lui finché ho potuto. È stata un’amicizia che è sempre rinata; sono stata collaboratrice della sua rivista. E io ricordo quel giovane silenzioso che era seduto accanto a me senza dire una parola. E mancando, lui e io, alla buona educazione, ci assorbimmo in una conversazione tra noi due. E allora, senza rendercene conto, la cena era finita.

 

In tutto quell’andare per il mondo che è stato il suo lungo esilio di tanti anni, ci fu sempre al suo fianco, a partire da un certo momento, sua sorella Araceli…

 

Finché ha potuto. Perché arrivò un momento in cui lei restò in Francia con mia madre e io dovetti andarmene. Sì.

 

Che cosa ha significato Araceli? Che cosa è stata Araceli per la sua vita, María?

 

Che cosa faceva Araceli?

 

Che cosa è stata Araceli per la sua vita?

 

Ahh! È mia sorella. La mia unica sorella. Scrivendo Antigone, io andai al termine greco “autoadelfos”, perché adelfa [oleandro] significa sorella. E curiosamente, nei giardini di Segovia se ne piantavano sempre due, una rossa e una bianca. Mia sorella, mia sorella unica. Come l’ho aspettata! Perché nacque quando io avevo sette anni. Che gioia avere una sorella; con lei scoprii ciò che è più importante nella mia vita, la sorellanza, la sorellanza, più della libertà, la sorellanza.

 

In tutti questi anni lei, nonostante i viaggi, pubblica libri, scrive articoli, saggi, fa conferenze; lei ha sempre detto che il lavoro è stato a volte la sua maggior felicità e altre volte un tormento.

 

Certo. Come deve dire, come deve essere quello di qualcuno che si vede costretto a creare. A volte, un’agonia, a volte, un parto impossibile, a volte una felicità.

 

E durante tutti questi anni vanno sorgendo i suoi libri più importanti. María, si è detto che l’originalità del suo pensiero sta nel fatto che, partendo da Ortega, torna alle origini della filosofia.

 

Sì, certo.

 

Per cercare di apprendere la realtà, ma in un altro modo, in un’altra maniera.

 

Si, certo.

 

Lei è d’accordo che sia in questo l’originalità del suo pensiero?

 

L’originalità viene da origine. La filosofia doveva nascere dentro di me. Non solamente dalle parole così ricche di Ortega e prima da quelle di mio padre.

 

Si è detto che lei è riuscita a riconciliare due tradizionali nemici, la filosofia e la poesia. Come l’ha ottenuto? Come lo ha reso possibile?

 

L’ho reso possibile senza accorgermene. L’espressione “ragione poetica” figura in uno dei miei primi saggi, pubblicato, pensi, in Hora de España, a proposito della “guerra”, la guerra tra virgolette, un libro di Antonio Machado che lui mi disse essere solo degli articoli, degli articoletti senza unità. Uso lì la ragione poetica; anche prima, ma lì la riconosco; no, non vedo che questo sia la ragione poetica, mi si va imponendo.

 

Quando si rende conto che ormai c’è la ragione poetica?

 

Quando mi fanno rendermene conto. Abellán, in un libro, La filosofia spagnola fuori di Spagna, mette: María Zambrano, la ragione poetica.

 

E qual è l’importanza del sogno e il potere del sogno?

 

Ah, questo sì che è mio. Perché scoprii l’atemporalità del sogno; e poi, in scala, i sogni della persona, i sogni dove si appare in un istante, una profezia, un destino unico. E allora scrivo I sogni e il tempo molto in fretta perché avevano annunciato sulla rivista Diógenes dell’Unesco che avrebbero dato un premio a un artista, a un pensiero, capace di rinnovare le scienze umane. E io l’ho mandato in busta aperta, perché era così, a Roger Callois, che mi rispose una lettera piena di entusiasmo. E si era tanto entusiasmato lui che allo stesso tempo stava scrivendo, e poi si diede un anno, e il mio uscì con una menzione tra i primi dieci. Però da lì viene, dopo, il convegno a Rogemont sui sogni e le società umane.

 

María, e quando lei volle scrivere un libro su filosofia e cristianesimo, nacque L’uomo e il divino. Come concepisce il rapporto della divinità con l’uomo?

 

Bè ecco io, questo di Dio detto così, come se a una tirassero una pietra in faccia, no. Né che mi dicano Dio è Dio. Bensì il divino nell’uomo: Emmanuel, Dio nell’uomo, in un modo o nell’altro. Lui saprà.

 

Lei intende la filosofia come la trasformazione del sacro nel divino.

 

Sì, è una delle definizioni che mi sono venute della filosofia: la trasformazione del sacro nel divino. Perché il sacro è ascritto a un luogo; delle pietre possono essere sacre, un luogo, un ditale, un oggetto, ma non divino. E allora il pensiero è quello che fa la trasformazione, pensando veramente.

 

Ma come si può scoprire il sacro, María, dove si scopre?

 

Si impone. Il sacro si impone.

 

Quando era ormai nel Jura francese, a La Pièce, in quella casa vicina al lago Lemano, che è lo scenario di uno dei suoi libri fondamentali…

 

Bè, è qualcosa di più. È uno dei luoghi meravigliosi in cui mi è toccato vivere nella vita. Vicino a Ginevra, nel Jura francese, in un villaggio che aveva tre case. Che meraviglia quel bosco, quel sentiero! Mia sorella è rimasta lì, perché lì morì; e poi io, ormai sola, ma sempre accompagnata da qualcuno della mia famiglia, perché ho sempre avuto accanto qualcuno della mia famiglia, che mi protegge.

 

María, lì è dove nasce Chiari del bosco.

 

Sì, lo stavo scrivendo quando morì mia sorella.

 

Questa è stata una delle tappe migliori della sua vita? In quel luogo?

 

Sì, e non posso parlarne senza piangere.

 

Senza emozionarsi, vero? María, e l’Aurora, l’aurora è un altro degli elementi che sempre appaiono. Come le si rivelò l’Aurora?

 

Mi si rivelò in molte maniere, come succede con ogni rivelazione. Prima, alla fine della guerra di Spagna, in cui vidi un’aurora di sangue, con un’immagine terribile, e dopo, “quella dell’alba sarebbe” del nostro signor Don Chisciotte, secondo il libro esemplare di Cervantes. Dopo, l’alba: io scappavo dalla notte, dalle prime ore del mattino per, sdraiata per terra, all’Avana, sorprendere l’alba. Ho camminato sempre verso l’alba, non verso il tramonto; ma ho sofferto per tanta alba gettata al tramonto, come si è dato in Spagna, e senza dubbio nel mondo. Un’alba, questo è stata la Repubblica: un’alba gettata al tramonto. Ma poi rigermoglia e torna la luce del giorno.

 

Come sempre, si torna a cominciare.

 

Torna a cominciare.

 

María, verso questi anni, gli anni sessanta, quando lei sta già nel Jura, la sua opera si comincia a conoscere in Spagna, comincia ormai a diffondersi.

 

Sì, o prima. Mi arrivavano richieste di collaborazione. Amici, sì…

 

E lei crede di aver lasciato un’impronta nei giovani pensatori spagnoli?

 

Questo dovrebbero dirlo loro.

 

Ma una anche lo nota, lo sente; sono molti i giovani, immagino, che si avvicinano a lei, che fanno lavori sul suo pensiero, che…

 

Sì, però è da tempo.

 

È da tempo.

 

Anche se sono presente, non ho smesso di essere assente in buona maniera.

 

María, comunque, lei sembra che si sia sempre trovata meglio con i poeti che con i filosofi, no? Che sempre…

 

Bè, a volte sì, tra l’altro perché di filosofi ce n’è pochi e…

 

Ci sono più poeti.

 

Sì. Però mi sono intesa molto bene anche con i pittori.

 

Anche la pittura è stato un punto di riferimento.

 

Oh, quanto! In Italia e in Spagna, quando tornai dall’Italia e scoprii Zubarán in Luis Fernández, che era passato tanto tempo e lui non lo conosceva perché era venuto a Parigi negli anni venti. E gli diedi la rivelazione, Il mistero della pittura spagnola in Luis Fernández.

 

Stavamo parlando un po’ dei poeti, del modo di scrivere dei poeti, che lei pensa che in qualche maniera i poeti debbano scrivere senza sapere molto bene di cosa scrivono.

 

Certo, perché corrono il rischio di diventare retorici, di ascoltare se stessi. E i filosofi, quando si danno tanta importanza, corrono il rischio di diventare sciocchi.

 

Cioè, anche il suo metodo di indagine nel pensiero, assomiglia un po’ a quello dei poeti.

 

Certo.

 

María, come si può percepire l’invisibile?

 

Ahi, che cose mi domandate, signora! L’invisibile, se si percepisce, è perché esso ci visita e non lo sappiamo classificare. Sì. Lei mi fa delle domande molto ben fatte: troppo buone.

 

Che cose sono quelle che l’hanno fatta soffrire di più?

 

Di più? Ebbene mi ha fatto soffrire molto quello che succedeva in Spagna quando io non c’ero, quello che succedeva in Europa quando io non c’ero. Mi ha fatto soffrire molto l’assenza. Non dico, non mi paragono a quelli che in Spagna facevano la fame, pativano miseria e persecuzione, ma ve lo dico ancora una volta, come mi siete doluti, nel fondo della mia anima, come ho avuto davanti a me piatti squisiti che non ho potuto mangiare perché io avevo da magiare e voi, figli miei, fratelli miei, non avevate neanche un pezzo di pane da mettere in bocca. Questo è ciò che più mi ha fatto soffrire, credo.

 

E che cosa ha imparato dal dolore, María?

 

Ah! Dicono che il dolore sia un grande maestro; ma mio padre, che era un grande educatore e pertanto molto ironico, diceva: tanto maestro non serve.

 

Lei ha parlato anche di quello che è stato chiamato lo stoicismo spagnolo. Da dove viene questo atteggiamento?

 

Bè, questo atteggiamento viene… dal fatto che è quello che persiste di più nella filosofia antica, quello che trascende di più, quello che è rimasto di più fino ad arrivare, per esempio, a luoghi come l’Avana, quando un nero diceva: io sono “etronco”. E cosa vuol dire essere… Bè, che mi pestano il piede e io faccio finta di niente.

 

María, e la morte, cos’è per lei la morte?

 

Per me no, io sono per lei. Ma neanche: la morte, Dio la sa, io no. Però sì mi è successo che, per esempio, all’Avana, una ragazza di società voleva fare lezioni private con me, cosa che a me non è mai piaciuta, dare lezioni private, anche se mi portavano un po’ di ciò di cui avevo tanto bisogno, non lo nomino. Allora le chiesi: e lei, perché vuole studiare filosofia? Dice: perché io voglio – era giovane, era bella, era facoltosa, più che ricca, aveva un futuro, aveva tutto – dice: perché ho sentito, l’unica volta che l’ho sentita parlare, che lei mi potrebbe insegnare a cominciare a morire, a morire.

 

La morte è il passaggio alla vera vita, María?

 

Credo di sì, se non lo credessi…

 

Non ci sarebbe altra speranza.

 

Sì. Che domandine mi fai, Pilar.

 

Ma io gliele faccio perché so che le ha pensate, che le sente…

 

Sì, lo so, lo so, lo so; non giustificarti con me.

 

María, e come si ottiene la serenità? Quella serenità che lei ha sempre, o per lo meno sembra avere?

 

Oh mio Dio! A prezzo di sofferenze. Io sono stata molto timida, molto timida; mia sorella no. E quando stavamo ormai insieme e io dovevo fare qualche conferenza, lei dietro di me mi spingeva, perché io non osavo entrare; ed era lo stesso andare timida rispetto a un solo alunno che ci fosse in classe, che, a Parigi, davanti alla più brillante intellettualità. Era, non so, dovermi scoprire.

 

Questo le dava un certo pudore?

 

Un po’ di pudore sì; ma anche tremore e timore.

 

María, e adesso che lei sente che in Spagna la trattano con affetto, la amano, la sua opera si diffonde, si studia, la fanno figlia adottiva della sua terra natale, la fanno…

 

Direttrice dell’istituto, figlia prediletta, scuole di bambine che portano il mio nome…

 

Anche una fondazione.

 

La Fondazione.

 

Come vede tutto questo adesso?

 

Ebbene lo vedo come una grazia, come qualcosa che non mi merito e che aspiro a poter adempiere, sia pure minimamente, a tutto ciò.

 

E oggi, qual è la sua speranza?

 

La mia speranza, ebbene credo di averla appena enunciata: adempiere, adempiere come Dio comanda.

 

María, e quale è stata la sua grande libertà?

 

L’obbedienza.

 

Sembra incredibile, vero? Sembra un paradosso.

 

È che la vita si nutre di paradossi. E io credo più nei paradossi della vita che nelle antinomie del pensiero.

 

In quel suo testo, Due frammenti sull’amore, dice che l’amore è un fuoco senza fine che anima ogni vita, la speranza di ogni vita, il segreto di ogni vita. È stato questo il suo segreto, l’amore?

 

Bè, credo che sia il grande segreto. Lì dove anima.

 

María, abbiamo finito. E la lasciamo riposare. Ci resta solo da ringraziarla di averci ricevuto, di averci aiutato a sviscerare la sua vita, la sua opera, un’opera che ci lascia sempre pensosi; ma forse è questo il proposito, no?

 

Bè, e io voglio ringraziarvi, lei, Pilar, e tutti quelli che hanno promosso e tutti quelli che ascoltano questa trasmissione; la mia grande emozione perché è proprio in Spagna, perché mi si ama, soprattutto questo, perché mi si ama. Io rendo grazie al tempo e all’amore.

 

Molte grazie, María.

 

Grazie a voi.