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per amore del mondo

Il sapere che nasce dall'esperienza

Inseguendo le voci Racconto di una esperienza

* Da questa esperienza Gisella Modica ha tratto il libro Parole di terra, millelire stampa alternativa, Roma 2004. Questo testo è stato presentato al convegno biennale della SIL l’anno scorso.

 

 

Per la seconda volta le voci sono tornate.

La prima volta avvenne alla fine degli anni settanta quando incontrai le donne che nel ’47 occuparono le terre in Sicilia. Le ascoltavo mentre raccontavano di terre sognate e mai possedute, ma ciò che mi attirava non erano le storie. Era il timbro delle voci, il ritmo della frase, la cadenza, l’odore di cibo e di spezie che sprigionava dai loro vestiti.

Una sensazione mai provata prima, simile ad una vertigine, mi prese allo stomaco: immagini del passato si alternavano nella mente, mischiandosi a quelle del presente, un presente in cui giorno dopo giorno si consumava la mia crisi di giovane donna alla ricerca ostinata di un equilibrio che conciliasse la militanza politica con la nuova condizione di madre. Cercavo il filo che collegasse quelle immagini e dopo qualche tempo arrivò il sogno ad indicare la strada. Sognai di aiutare mia madre a partorire me stessa, e da lì cominciò un percorso che mi avrebbe fatto scoprire il femminismo e riannodare quel filo reciso tra passato e presente, tra corpo e parola.

Da alcuni mesi le voci sono tornate.

Tutto è cominciato quando proposi ad un gruppo di donne – casalinghe tra i quaranta e i cinquant’anni che frequentano un corso di taglio e cucito presso un Centro Sociale 1 – di leggere un romanzo 2 mentre loro cucivano. Avrei poi trascritto su un foglio le riflessioni scaturite dai rimandi che la lettura provocava per commentarli insieme.

Ma l’esperienza non andò nella direzione da me programmata.

Avevo appena cominciato a leggere che  alla parola “crine” una di loro, Enza, interruppe dicendo: “Ve lo ricordate il rumore che faceva il materasso di crine quando una si coricava? Cri, cri. E l’odore?”

“E’ vero – replicò subito un’altra di nome Mariella – certi odori non si possono dimenticare. Prima si sentivano tutti gli odori e quando andavo a Ballarò 3 a fare la spesa mi guidavano gli odori”.

“Quando iamu a Romagnolo, u ciavuru ru mari si sintia prima ancora r’arrivari”4 – s’intromise Mimma che parlava mischiando continuamente il dialetto alla lingua italiana.

“Quando è morto mio padre sentivo uno strano odore – intervenne una quarta,  Francesca, – non era l’odore dei fiori, era più forte, un odore aspro, che bruciava il naso”.

“Com’è secondo voi l’odore della morte?”, domandò a bruciapelo Enza.

“Secondo me è come quando si fa bile, che la lingua si secca e diventa di fiele. Deve essere come quello” – le rispose Francesca.

Finalmente tacquero e io rimasi in silenzio, con il libro aperto tra le mani, completamente spiazzata.

Mi resi conto subito che trascrivere era impossibile, come se le parole impresse sulla carta scivolassero via. Come fossero suoni solo da ascoltare e poi lasciare andare.

Ripresi a leggere ma appena un ricordo, un odore, un sogno irrompeva di rimando nella memoria, storie incredibili popolate da personaggi fantastici – angeli “capricciosi come bambini”, anime di defunti in processione, piccoli mostri con la gobba – “presenze”, come le chiamava Francesca – prendevano forma dentro lo spazio che ci ospitava e si animavano, pronte a disfarsi e svanire  per una vibrazione troppo forte, il trillo del telefono o un grido proveniente dalla strada.

“Io dei morti non mi sono mai spaventata, sono presenze i morti, diceva Francesca. La prima volta le ho sentite quando è morto mio padre. Erano voci di bambini che si rincorrevano”.

 

* tratto da Parole di terra edizioni Stampa Alternativa in via di pubblicazione

E ancora: “Prima quando camminavo nel corridoio (del Centro Sociale) sentivo le presenze di quelle che ci stavano prima, sentivo sempre la presenza di una monaca che camminava veloce, a piccoli passi. Adesso che hanno messo il regolamento e il Centro è diventato, come dire,  più impostato queste presenze non le sento più”.

Mimma invece  raccontava di statue di santi grandi come persone che teneva disseminati per le stanze perché, diceva, “quannu caminu pì casa mi piaci talialli”5.

Raccontare e ascoltare storie era per tutte un piacere trasmesso dalla madre, figura centrale delle loro vite. Madri che venivano in sogno per consigliare e proteggere e con le quali ognuna continuava ad intrattenere una comunicazione quotidiana, anche dopo morte.

“Mia madre era una racconta favole – dice Nunzia – e quando raccontava una storia la sentiva, si emozionava tanto che sembrava una storia vera….. Se ne andava al carcere delle Benedettine 6 e a quelle rinchiuse là dentro ci portava le sigarette o la frutta, e in cambio si faceva raccontare le storie. Poi veniva a casa e le raccontava a noi figli… Io con mia madre ci parlo sempre, a casa tengo una sua fotografia e pure ora mentre parlo con te sento che è a lato mio. Vedi come mi si rizzano le carni?”

“Io santi non ne prego, prego solo a mia madre, dice Laura. A casa ho messo la sua fotografia in un angolo sopra un tavolino e attorno tutte le sue cose. Ci parlo sempre come fosse presente, soprattutto quando sono arrabbiata”. Madri vissute come fossero sante.

“Mia madre questo mi ha insegnato e io questo ripeto ai miei figli”, intercalavano spesso nei loro ragionamenti.

Ma raccontare è anche altro.

“Quando una ha qualche tristezza, oppure vuole fare una cosa e sa che non la può fare, viene qui e la racconta …Parlare e sapere che ti capiscono oppure non parlare e sapere che se parli ti capirebbero, per questo vengo qui”, afferma Mariella.

Ancora una volta l’ascolto delle voci, della loro lingua un tempo a me familiare, dimenticata troppo in fretta, lingua dell’infanzia, del gioco, provocò in me la stessa vertigine, lo stesso disorientamento. Le ascoltavo e da sotto la pelle sentivo riaffiorare emozioni già vissute, mentre nelle orecchie mi risuonavano le filastrocche che mia nonna raccontava per addormentarmi: “Rusidda ‘ntontorontò quanti pampini ntò basilicò?/E tu re ‘ncurunatu quanti stiddi ci su nà lu stiddatu?” 7. Parole prive di senso che cullavano i miei sogni e mi trascinavano in mondi popolati da perfide matrigne e mammedraghe.

Lingua delle  emozioni.

“Io e mio marito – dice Nunzia – quando ci sciarriamo 8 parliamo sempre  in dialetto e non ci capiamo più, perché lui è di Ausa 9 e io dell’Albergheria”.

“Io pure quando sono arrabbiata parlo in dialetto, oppure quando sono sola a casa e penso a voce alta che sembro una pazza – intervenne Francesca. Allora mi accendo la televisione e cerco i film pi chianciri 10. E’ come una valvola di sfogo, perché ti senti scoppiare il cuore e vai a cercarti qualcosa di triste per sfogarti e piangere. Magari del film non te ne frega niente”.

“Pure a me certe volte mentre sto facendo una cosa mi viene da piangere – si confidò Mimma – e quannu me maritu mi viri cu l’occhi russi e voli sapiri chi aiu, io ci ricu: nenti, mi ‘ntisi mali. Chi ccè diri a ddu’ cristianu, ca chiaciu pi nenti?”11

Lingua mobilissima, così aderente al corpo come fosse stoffa.

“L’altro pomeriggio mentre ero a casa mi è venuto in mente di ricamare il titolo del libro a punto erba – annunciò una mattina Enza – e mostrò il suo lavoro. “La Creata Antonia a punto erba!” esclamò ridendo.

“Io all’uncinetto posso fare Coccorito 12 – s’infervorò subito Francesca. A casa ho il numero nuovo di Punti Gioiello e c’è un pavone che se gli tolgo la coda pare proprio Coccorito”.

Nacque così l’idea di ricamare ognuna un  personaggio del romanzo 13.

Parole trasfigurate, restituite attraverso la vista, il tatto e poi cucite insieme. Storie per immagini create dall’occhio prima che dal pensiero, che solo in controluce lasciavano trasparire tutta la loro bellezza, come le trine che intrecciavano mentre ascoltavano.

Cosa lasciavano trasparire quei racconti che io non riuscivo a vedere?

“Sintiti sta cosa ca vi cuntu, ca è fattu veru e successi a me nonna” 14 – esordiva sempre Mimma prima di cominciare a raccontare, e Francesca parlando della sua esperienza di teatro 15 diceva: “A me del teatro mi piace tutto, non solo recitare. Mi piace occuparmi dei costumi, lavarli, stirarli”,  e più avanti aggiunse: “in tasca porto sempre un rossetto, la cipria, un paio di orecchine, e quando vedo qualcuna che sta male dico: “vatti a truccare subito”.

Dove stava il confine tra realtà e finzione?

I costumi di cui parlava, appesi lungo il corridoio del Centro Sociale come a segnare il confine tra realtà e finzione, sembravano stessero lì ad avvisarmi che da quel luogo un nuovo percorso stava per iniziare. Verso quale approdo ancora non sapevo, ma nella mente continuavano a risuonarmi le parole che Francesca pronunciò durante il nostro ultimo incontro: “Le donne non lo fanno capire agli uomini che loro hanno capito e se vogliono fare qualcosa bisogna andarci per via traverse, con le armi dolci, fare credere che sono loro a decidere, e ci riusciamo lo stesso che andarci per via dritta. Le donne siamo più forti, vediamo oltre, e l’uomo di questo ha paura. Tu che ne pensi?”.

Dopo qualche tempo ad illuminarmi arrivò puntuale il sogno:

Attraversavo di notte la piazza dell’Albergheria e uno sconosciuto alle mie spalle mi dice: “non dovresti attraversare la piazza da sola, è molto pericoloso”. In quel momento mi accorgo che indosso un vestito da sposa, lo stesso che stava appeso nel corridoio tra i costumi teatrali. Si tratta di una finzione, ma lo sconosciuto non può sapere, e io decido di non svelare il segreto e recitare la parte…..

 

 

 

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1 Si tratta del Centro Sociale San Saverio ubicato all’Albergheria, uno dei quartieri più antichi e poveri di

Palermo.

2 Il romanzo in questione è La Creata Antonia  di Silvana La Spina – ed. Mondadori 2002. Racconta la storia di una serva (criata) ambientato dentro un convento dove stavano rinchiuse le repentite, donne peccatrici e ree di omicidi vari. La scelta del romanzo è dovuta al fatto che anche il Centro Sociale un tempo era un convento di repentite. Le storie scaturite dai rimandi che la lettura provocava sono state registrate e trascritte durante un laboratorio di lettura e narrazione  intitolato “Le donne si raccontano”.

3 Antico mercato di Palermo.

4 Quando andavamo a Romagnolo (località balneare alla periferia di Palermo) l’odore del mare si sentiva prima ancora di arrivare.

5 Quando cammino per casa mi piace guardarli.

6 Carcere femminile di Palermo oggi chiuso.

7 Filastrocca intraducibile, riportata dal Pitrè in “Fiabe e Novelle del popolo siciliano”.

8 Ci bisticciamo.

9 Quartiere attiguo all’Albergheria.

10 Per piangere

11 Quando mio marito mi vede con gli occhi rossi e vuole sapere cosa ho io gli dico: “niente, mi sono sentita male”. Che gli devo dire a quel cristiano che piango per niente?

12 Personaggio del romanzo.

13 Durante il laboratorio è stato realizzato un unico esemplare del libro che  narra le storie, per una parte cartaceo (su cui sono state trascritte le storie) e per metà di stoffa su cui le donne hanno ricamato i personaggi del romanzo.

14 Sentite questa cosa che vi racconto, che è un fatto vero ed è  successa a mia nonna .

15 Il Centro è anche sede del teatro di Franco Scaldati uno dei drammaturghi più amati dai palermitani. Francesca fa parte del gruppo teatrale.