diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 1 - 2003

Tesi di Laurea

Ingeborg Bachmann

 La riflessione su l’opera di Ingeborg Bachmann è stata guidata da una domanda di senso tesa ad investigare il rapporto tra il dicibile e l’indicibile il cui significato ed importanza, attraversando la varietà di testi, poetici e letterari, presi in esame, ha orientato e influito sulla lettura e sulla conseguente mia interpretazione. Ciò che mi prefiggo di fare in questo articolo è dare conto del modo in cui l’autrice, all’interno del romanzo Malina, ha posto la questione del rapporto tra i due piani del linguaggio, mostrando a quale desiderio e perciò a quali urgenze di significato tale domanda ha voluto andare incontro e rispondere.

Innanzitutto desidero chiarire che per Ingeborg Bachmann la questione del rapporto tra i due ambiti sopra indicati non si pone in astratto, come una sfida puramente intellettuale, ma è stata sostenuta da una scommessa per l’esistenza della lingua che aveva visto minacciata dal suo crescente uso strumentale. Tale utilizzo, essendo scevro da ogni urgenza di sensatezza, tendeva a piegarla alle esigenze del mercato letterario e all’insieme di stereotipi e luoghi comuni che ne facevano il palcoscenico di quella che lei chiama la chiacchiera generale. Nei saggi, a questo proposito, l’autrice parla di una lingua della canaglia imprigionata in una serie di mode letterarie e frasi fatte che allontanano chi parla e chi scrive dalla possibilità di mettere in gioco, attraverso essa, l’indicibile dell’esperienza; viceversa il senso intimo della sua ricerca, animato e percorso da un desiderio di verità e ricerca di autenticità, auspicava la nascita di una nuova lingua capace di andare oltre la gabbia dei luoghi comuni e delle opinioni. In questo senso la scommessa per l’esistenza della lingua, che si pone negli scritti più propriamente teorici, ma anche in quelli poetici e letterari, ha assunto una valenza anche di tipo etico che ha contribuito a dare maggiore pregnanza allo sforzo di spostamento dei confini che attraversano e tagliano il piano del dicibile dall’indicibile. Detto in altri termini, la domanda sul rapporto tra il dicibile e l’indicibile, sostenuta da una valenza di tipo etico, che via via ha preso forma e spessore nei testi, mi ha offerto le chiavi di lettura per accedere a quei luoghi di senso che pongono emblematicamente in luce, come su un ordito, i fili di un disegno che gradualmente si è dispiegato.

 

Per precisare il senso intimo della scommessa, sottolineo che per l’autrice, essa ha che vedere con la capacità di coniugare, contemporaneamente, fiducia e rischio sia nell’atto di parola, sia nella scrittura le quali, insieme, sostengono il gesto di assumere la responsabilità di parlare a partire dalla propria esperienza, situandosi sul confine tra ciò che si può dire e il silenzio. La fiducia e il rischio, quali presupposti che accompagnano l’atto di parola, agiscono facendo in modo che la tensione verso i limiti del linguaggio acquisti efficacia e possa conferire una nuova possibilità di parola al silenzio.

La componente di rischio, necessaria a chi voglia intraprendere un lavoro sui limiti del linguaggio, riguarda il fatto che non è dato conoscere anticipatamente come possa assurgere al registro della parola quel qualcosa che, essendo dell’ordine dell’indicibile, per antonomasia, ad essa si sottrae. Così la fiducia, trasmessaci da chi ci ha insegnato a parlare, facilita l’assunzione del rischio che il lavoro sui confini comporta, in ragione del fatto che esso mette in questione le strutture del concreto e del reale, svelando la non perfetta coincidenza tra il piano del simbolico e quello dell’ordine sociale. Per questo, il corpus degli scritti teorici è attraversato dal ricorrere di una domanda rivolta a chi scrive mirante, in primo luogo, a stimolare la messa in questione e ad interrogare il proprio modo d’intendere il linguaggio, affinché la tensione verso i limiti si attui nella cornice di un’etica e verità della scrittura che, unitamente alla componente di rischio, faciliti il processo del mostrarsi del fondo indicibile insito nell’esperienza soggettiva senza violarlo.

Secondo Bachmann il modo di abitare la lingua con fiducia e rischio, necessari per situarsi adeguatamente sui confini che l’attraversano, comporta l’atto di assumere la responsabilità di parlare a partire dalla propria esperienza non con la pretesa che il lavoro sul linguaggio possa eliminare la barriera della dicibilità limitata, ma allo scopo che avvenga lo spostamento di un confine che, pur stimolando l’atto di parola in direzione di un oltre, preservi intatta la sua ragione d’essere.

Specifico che il lavoro di spostamento dei confini è letto e interpretato dall’autrice in una prospettiva etica e utopica che si è resa necessaria, allo scopo di mettere in gioco un indicibile dell’esperienza legato alle tematiche della morte e dell’amore luoghi, per eccellenza, dell’indicibile, inseparabili dalla dimensione del dolore, del vuoto e della sofferenza e dal rischio che tali esperienze restino mute, non adeguatamente significate.

 

Al fine di mostrare il modo in cui la lingua opera, affinchè possa avvenire lo spostamento della barriera della dicibilità limitata, ritengo necessario dare conto dei presupposti teorici che hanno informato la presente direzione di ricerca.

Nei suoi elementi essenziali, la prospettiva teorica di Bachmann, tesa a scalfire la barriera della dicibilità limitata, mi ha mostrato le connessioni e i rimandi tra la ricerca di un dire autentico, giocato sul confine tra dicibile e indicibile, e il suo essere iscritta all’interno di una cornice etica ed utopica, quale presupposto orientante l’atto di parola e di scrittura. Essa trae linfa e ragione d’essere, ad un tempo, dal dolore, il vuoto e l’amore, condizioni che permettono di avviare quel processo di modificazione di sé e del mondo che incarna un sogno di rinnovamento utopico.

L’utopia, volendo andare oltre l’ambito del noto, permette l’apertura ad un nuovo ordine di significati e, in prima istanza, si fonda sulla consapevolezza che non vi può essere un mondo nuovo senza una nuova lingua. D’altro canto, le modificazioni che avvengono sul piano del linguaggio, adoperato per leggere e comprendere i fenomeni del mondo, da sole, non bastano ad avviare un cambiamento sul piano della realtà concreta. E ciò in ragione del fatto che la dimensione del simbolico[1] è pensabile alla stregua di un processo dinamico che del reale dà conto attraverso una parola che opera dei tagli, insinuando sulla sua superficie delle screziature e dei rilievi che mostrano l’esistenza di sentieri sconosciuti, di un altrove non ancora pensato. Il processo di rinnovamento utopico ha il pregio, dunque, di generare uno scatto morale e conoscitivo, a partire dall’esperienza concretamente vissuta, che può trovare testimonianza in nuovi atti di parola. Agire con senso di responsabilità nel lavoro di scrittura, di conseguenza, comporta lo sforzo di stabilire dei solidi criteri guida per tendere in direzione della verità. L’autrice, a tale proposito, riprendendo una massima di Karl Krauss, afferma che i pregi della lingua si radicano nella morale, [2] notazione che, nella pratica della scrittura, si lega all’atto di assunzione di responsabilità e messa in gioco della verità indipendentemente da ogni preoccupazione relativa al problema del bene e del male. In questo snodo, ho constatato, è racchiuso il senso più intimo della scommessa per l’esistenza di una nuova lingua, in quanto sa trarre alimento dal vuoto, dal dolore e dal silenzio. In questo senso, l’indicibile sarà tanto più abbordabile quanto più l’attenzione di chi scrive saprà orientarsi verso ciò che non si può dire, di nutrire la tensione verso il vero, stando in prossimità di un luogo vuoto. Solo tollerando il silenzio tra le parole, e a partire dalla fedeltà alla propria esperienza, sarà possibile rimettere in gioco la riserva di significati che in essa stanno racchiusi, in primis, tramite la parola poetica, data la sua capacità di far risuonare in un tessuto denso, seppur impalpabile e invisibile, gli echi di una altrove.

Come su menzionato per Ingeborg Bachmann la scommessa per l’esistenza di una lingua nuova si coniuga alla capacità di messa in gioco dell’indicibile dell’esperienza soggettiva; ora perciò cercherò di mostrare come buona parte di tale componente abbia a che fare con l’amore, nonostante l’indicibile dell’esperienza non sia completamente riducibile ad esso.

 

L’esperienza dell’amore unisce e ad un tempo separa il dicibile dall’indicibile, ponendosi come via maestra che costeggia il percorso verso l’oltre, l’altro stato, costituendone, talora, il suo necessario, anche se temporaneo approdo.

L’amore assolve la funzione di costituirsi come il campo di tensione e di ricerca tra l’ambito della parola e il fondo oscuro del silenzio all’interno di una cornice ampia, comprensiva anche di una prospettiva etica e utopica. La sua presenza mette in gioco e attualizza la scommessa per l’esistenza di una lingua nuova, che si espleterà in modo tanto più efficace, quanto più il desiderio di trascendere i limiti della dicibilità limitata sarà privo di un fine o una destinazione precisa cui tendere.Come l’utopia, che svincola il desiderio di modificazione di sé e del mondo dall’aspirazione di fare proprio un oggetto l’amore, nella varietà delle accezioni e significati in cui è stato compreso e mostrato, (vuoto, mancanza, principio di trasformazione e istanza che precede l’atto di parola e principio che stimola a ripensare le categorie della soggettività) consente di operare un passaggio di confine, indipendentemente dal desiderio di soddisfare il requisito di una parola piena capace di scalfire il fondo indicibile da cui proviene. Il desiderio, in altre parole, è ciò che permette l’attivarsi di un processo di redenzione tramite l’amore, assunto quale medium che può accompagnare un cammino di trasformazione individuale; su tale dinamica ho avuto modo di riflettere occupandomi de La leggenda della principessa di Kagran, contenuta nel romanzo Malina. Nella figura dell’amore si attualizza e prende forma la scommessa per l’esistenza di una nuova lingua che incarna una tensione utopica dato che il suo significato, dell’ordine dell’indicibile, svolge la funzione di un significante che orienta aprendo nuovi livelli di consapevolezza, senza piegarsi al gioco delle equivalenze linguistiche. Ciò grazie al fatto che l’utopia della parola, segnalata dall’azione vivificante esercitata dall’amore, si collega direttamente alla domanda sul significato del dolore presente come un virus nel micro e macrocosmo delle relazioni sociali, che, tuttavia, se correttamente inteso e rispettato, può aprire a nuovi livelli di consapevolezza. Il dolore, proprio per la sua resistenza e riluttanza ad essere definito in forme linguistiche conchiuse, nella prospettiva della Bachmann è una via maestra per orientare lo sguardo verso l’assoluto che, nell’atto di parola e di scrittura, conferisce un senso inedito all’esperienza, oltre i significati già dati.

Un altro possibile modo di pensare e riflettere sull’amore, di cui intendo occuparmi, rinvia ad una particolare forma d’intelligenza, che si potrebbe chiamare del cuore, che ho ricavato dalla lettura del romanzo Malina; tale formula è stata adoperata con l’intento di far convergere sullo stesso piano la componente sensibile e quella intelligibile, funzionale, pertanto, al ripensamento delle categorie su cui si è costruito il soggetto, facendo da preludio alla nascita della nuova soggettività femminile.

 

Affrontando, qui di seguito, alcune figure in cui si declina, nell’opera, l’amore inizio con l’accostarmi a quella che lo pone in diretta relazione al momento inaugurale o sorgivo di accesso al linguaggio, ovvero l’infanzia della lingua, che gli esseri umani vivono e sperimentano in virtù della relazione affettiva con la madre o un suo sostituto. L’importanza di tale legame risiede nel fatto che solo al cospetto di una figura materna si apprende la fiducia che funge, al contempo, da garanzia della relazione e dell’instaurarsi della competenza simbolica. Senza l’amore e la fiducia dette competenze potrebbero, talora, essere, in parte, gravemente compromesse. Per meglio illustrare questo passaggio, che mette in luce come l’amore sia la radice e la misura della capacità simbolica dei parlanti, richiamo quanto sostiene Chiara Zamboni in Lingua materna tra limite e apertura infinita[3], riflessione che si colloca nella prospettiva più ampia delineata dal saggio. All’inizio di tutto la lingua materna. L’approccio alla lingua lì delineato mi ha fornito una prospettiva per leggere il fenomeno dell’amore e comprendere le modalità di accesso al linguaggio. O meglio, esso ha rappresentato una chiave di lettura per illuminare la posizione della Bachmann la quale, nonostante non tematizzi esplicitamente nella propria opera la madre, indica nell’amore la potenza unica al mondo, la sola capace di guarirlo. Nel saggio sopra indicato Chiara Zamboni, riflettendo sulle condizioni di possibilità che rendono il rapporto con la lingua una relazione viva e originale, parla di una forma di complicità con le parole che si radica nella fiducia che fin dall’infanzia si è imparato ad accordare al simbolo, in virtù del legame con chi ci ha insegnato a parlare. Si tratta di un patto che poggia, non tanto su di una scelta cosciente e deliberata della volontà, quanto su un atto d’amore che, nella sua essenza di dono, va al di là dei nostri meriti. Ogni successivo atto di parola, di conseguenza, poggia su quell’antico patto e riconoscenza nei confronti di chi ha favorito l’ingresso nell’ordine simbolico. Tale processo, inoltre, mostra che se l’apprendimento della lingua avviene per il tramite dell’amore si avrà l’affermarsi del soggetto, in quanto parlante, nella cornice di un rapporto di fiducia in cui la lingua materna favorisce, sia la facoltà di esprimersi secondo le regole di un codice condiviso, sia la tensione verso i suoi limiti, in forza del desiderio di messa in gioco di nuove porzioni di senso. Tale caratteristica del manifestarsi della facoltà simbolica per la mediazione di un rapporto d’amore si attesterà lungo il corso e il volgersi delle tappe dell’esistenza individuale, con maggiore pregnanza, là dove il medium dell’amore ha la facoltà di richiamare a sé, come una sorta di catalizzatore, gli echi dell’infanzia e i primi atti di parola. La fiducia alla base della competenza simbolica, tuttavia, non è passibile di obbiettivarsi in una definizione, né di assoggettarsi ad una misura capace di quantificarla, perché si declina secondo modalità che variano in relazione alla tipicità delle storie individuali. Analogamente all’amore che si mostra più che dirsi, secondo configurazioni che variano in base alla diversità dei destini individuali, la fiducia parla di sé indirettamente nella facoltà simbolica, nella capacità di giocare con le parole, manifestandosi in un ampio spettro di possibilità la cui ampiezza si allarga o restringe fino a quel limite che confina con il vuoto e la sua totale mancanza. La relazione con l’altro, in sé, non è garanzia del fatto che al soggetto venga elargito il dono della parola ma, pena il suo mancato instaurarsi, detta facoltà richiede fin dall’infanzia la fiducia e l’amore quale suo presupposto necessario. Tale aspetto rappresenta la condizione imprescindibile atta a favorire l’attività del pensare e dell’agire nel mondo con un surplus di competenza e di possibilità di gioco simbolico, nonostante sovente ciò si accompagni al dolore. Penso, in altre parole, che il legame tra l’amore e il modo di abitare la lingua, secondo l’imprinting acquisito nell’infanzia nella relazione con la madre, accompagnino il parlante lungo il suo percorso esistenziale ripresentandosi con più evidenza in un contesto relazionale capace di disseppellire e illuminare quella matrice.

Questa possibilità nel romanzo Malina l’ho vista esprimersi precisamente nel capitolo Felice con Ivan che tratta della relazione amorosa tra Io, il personaggio femminile, e Ivan, quello maschile. Tale romanzo pubblicato nel 1971 costituisce, nel complesso dell’opera, un momento fondamentale nella produzione letteraria dell’autrice e del suo percorso spirituale, poichè era destinato ad inaugurare il progetto di scrittura Todesarten (Cause di Morte) a cui lavorò per molti anni e che nelle sue dichiarate intenzioni avrebbe dovuto orientare la riflessione e la ricerca sulle cause di morte, i cosiddetti delitti dello spirito propri del nostro tempo i quali, pur attraversandolo, restano per lo più impuniti e che perciò costituiscono una sorta di fantasma non pensato che sfugge alla percezione e consapevolezza generali.

Il romanzo si snoda essenzialmente lungo la fitta rete dello scambio verbale tra il personaggio femminile dell’Io, Malina e Ivan, là dove appare da subito evidente che solo il primo entra in relazione con gli altri, senza che mai tra questi ultimi avvenga la benché minima forma di contatto. L’io femminile si trova, per così dire, al centro di una scena complessa e contraddittoria perché, a seconda che interagisca con Ivan o con Malina, muta il codice della comunicazione e i suoi contenuti, lasciando gli altri all’oscuro della sua esistenza doppia. Malina rappresenta invece l’alter ego maschile, ad un tempo, interno ed esterno all’io femminile; egli pare agisca in assoluta autonomia, mentre funge per l’altro da polo divergente all’interno di una dinamica relazionale caratterizzata dalla tensione dei contrari che sfocia sovente nel conflitto. Grazie allo scambio con Malina, tuttavia, il personaggio dell’Io ha modo di mettere in gioco parti di sé custodite dal segreto, riuscendo così a dare forma e a nominare il trauma che l’ha segnata. Egli svolge, in altre parole, una funzione maieutica, permettendo al personaggio femminile dell’Io di comporre in un disegno i tasselli dispersi del sogno il quale mostra come dietro gli episodi di violenza subiti si celi l’ombra inquietante della figura paterna. Lungo il romanzo si assiste contemporaneamente al manifestarsi della morte reale e metaforica del personaggio dell’Io, il quale patisce la perdita di frammenti esistenziali di sé e reiterate minacce di morte da parte del folle desiderio omicida del padre. L’assassino, pertanto, appare qui inestricabilmente fondersi e mescolarsi con la figura paterna che, secondo Bachmann, costituisce l’emblema di ogni assassino. Mentre Malina, nel contesto dell’opera, ricopre una funzione oggettiva e pensante, di alter ego antitetico, in un certo senso, alla figura femminile per la quale la spontaneità e l’amore rappresentano i tratti costitutivi della sua personalità. Questo romanzo, considerata la centralità nella produzione dell’autrice, ha  sollecitato in me la riflessione su vari aspetti della relazione tra l’amore e l’indicibile, là dove ho visto aprirsi, tra le pieghe del testo, il nesso tra l’indicibile e l’apparire di una soggettività femminile altra, fondata sul principio dell’intelligenza del cuore che mostra un modo di declinarsi dell’amore quale significante che orienta rimanendo perlopiù indicibile, non riducibile ad contenuto o ad una definizione,  che, in talune situazioni, può attivare un processo di trasformazione.

Nel capitolo Felice con Ivan il dialogo che intercorre tra i due personaggi si situa in un continuum in cui l’amore rinvia all’infanzia, quale momento che segna l’accesso alla competenza simbolica. Nell’interazione che vede come protagonisti Io e Ivan esso agisce, infatti, da medium atto a vivificare la loro relazione dato che il dono della parola rappresenta, sia la posta in gioco, sia la preziosa moneta di scambio.

Nell’indagare la dinamica della relazione tra Io e Ivan, allo scopo di comprendere il significato del sottile legame tra l’indicibile dell’amore e la restituzione del dono della parola, sono rimasta colpita dalla cangiante forza delle parole del personaggio dell’Io femminile che definisce questo sentimento alla stregua di un’iniezione di realtà o una forma di assicurazione sul mondo, in antitesi, in certo qual modo, al tono più pacato delle parole di Ivan. L’investimento, che su tale relazione fa il personaggio femminile, risponde al desiderio di trovare una misura all’esistenza, non svincolata dalla necessità, come se solo l’amore potesse soddisfare l’attesa di rapporto con il reale. Senza l’amore la parola del personaggio dell’Io, infatti, rischia di risultare priva di una misura efficace, capace, in altri termini, di contenere la pena e l’angoscia dilaganti di fronte al venir meno del senso. L’amore, come le parole del personaggio dell’Io suggeriscono, viene invocato a farsi garante del rapporto con il mondo, grazie al suo potere di restituire e vivificare la lingua:

 

La parola è Ivan. E sempre, e per sempre, Ivan”.[4]

Penso a Ivan.

Penso all’amore.

Alle iniezioni di realtà

Alla loro durata, così poche ore“. [5]

 

Se Ivan ed io stiamo zitti perché non c’è niente da dire, cioè quando non parliamo, non cala il silenzio, ma avverto, al contrario, che molte cose ci circondano, che tutto vive intorno a noi, si fa sentire, senza essere indiscreto, tutta la città respira e circola, e allora Ivan ed io non siamo preoccupati, perché non siamo separati e chiusi come monadi, non siamo senza contatti”.[6]

 

Il potere vivificante insito nella parola che l’amore veicola si collega, dunque, ad una possibilità di presa sul reale che è un modo di abitare la lingua secondo una spazialità in cui convivono vuoti e pieni, luci ed ombre, un parola in cui riecheggiano le sonorità del silenzio. Tale parola, di cui l’indicibile è fondamento e misura, si colloca nello spazio del discorso senza ambire all’esaustività dei significati, consapevole che il senso trova la propria ragione d’essere solo tra le pieghe del silenzio. Nel silenzio come il taglio, l’orlo e le cuciture detengono il segreto della forma di un vestito.

Il silenzio del linguaggio, che Bachmann ha voluto restituire ad una nuova possibilità di espressione, non è perciò una mera presenza, ma tensione desiderante senza cui il processo di significazione non avrebbe una direzione verso cui tendere; esso plasma una parola refrattaria ad esaurirsi in un significato conchiuso poiché, essendo dell’ordine dell’indicibile, è parola in cui la parola tace.

Da qui deriva l’incapacità da parte di Io e di Ivan, i due soggetti implicati nella relazione amorosa, a trovare le frasi sui sentimenti, consapevoli, forse, che ciò potrebbe portare ad una loro stereotipizzazione e quindi al venir meno, in certo qual modo, della tensione amorosa che li anima.

Con Bachmann ho trovato conferma dell’intuizione che non sempre l’incapacità a formulare dei gruppi di frasi per spiegare i sentimenti rappresenta un limite nel senso deteriore del termine. L’amore, nella tessitura dell’opera, essendo figura dell’indicibile si situa nell’ambito oscuro del mondo, ne abita i confini costituendone l’ossatura e, perciò, dà conto di sé in maniera più puntuale e felice attraverso il registro non verbale, in una gamma di gesti, atteggiamenti ed azioni, laddove il ricorso al registro verbale e alla metacomunicazione  sui sentimenti potrebbe tradire, paradossalmente, la loro intensità e presenza. L’amore, pur sottraendosi ad ogni definizione, fa mostra di sé indirettamente, nello scambio tra Io e Ivan, in veste di significante che orienta ed assicura il soggetto nel mondo in qualità di parlante, facendo tralucere il riflesso della sua esistenza nel luogo dell’infanzia, all’inizio del processo dello strutturarsi della lingua.

Altrimenti come interpretate le parole del personaggio femminile dell’Io che a proposito di Ivan dichiara: “…lui è venuto per rendere di nuovo le consonanti solide e palpabili, per aprire di nuovo le vocali perché risuonino piene, per farmi tornare le parole sulle labbra, per ristabilire i primi rapporti distrutti e redimere i problemi e così non mi allontanerò di uno iota da lui”.[7]

In questo senso l’indicibile dell’esperienza amorosa risulta vicino alla sua verità, quanto più il soggetto si astiene dal proferire una parola che pretende di circoscriverla con un termine indicale o una definizione convenzionale: l’amore in questo senso, come sentimento, non è definibile né indicabile.

Un altro aspetto che illumina il nesso esistente tra l’indicibile e l’amore, all’interno del romanzo Malina, stimola la riflessione sul modo di darsi della soggettività tramite il personaggio femminile dell’Io che ha permesso di ripensarla, da un lato, facendo tesoro della critica che nello scorrere di secolo è stata avanzata in ambito letterario e filosofico a tale nozione, rivelando, contemporaneamente, dall’altro, una nuova possibilità d’esistenza radicando il suo modo d’essere in una forma d’intelligenza del cuore, in antitesi all’astratta e fredda razionalità che prescinde dal corpo e dal sentimento. Su tale questione Bachmann ha dato conto del lavoro di ripensamento critico delle nozioni di io, identità e interiorità, così come sono state elaborate e tramandate dal pensiero occidentale, nel capitolo L’io che scrive contenuto nel saggio Letteratura come utopia. [8]In questo testo, attraverso l’esame di alcuni romanzi, lei ha sapientemente illustrato i passaggi cruciali e significativi che, a cavallo tra il XVIII XIX secolo, hanno portato, dapprima ad interrogare e a decostruire la nozione tradizionale del soggetto, dislocandone, in un secondo momento, il senso dall’ambito dell’inteririotà a quello del discorso. L’aspetto interessante di questo processo di spoliazione, ivi illustrato, sta nell’aver indicato come l’esautorarsi dell‘io, inteso come sostanza, non significa la sua definitiva messa al bando o scomparsa, perché, per quanto schiantato e offeso, l’io permane nella funzione di shifter, ovvero istanza irrinunciabile del discorso, data l’imprescindibile necessità del soggetto di rapportarsi ad un altro tramite una parola che lo preservi e restituisca all’esistenza. L’approdo, cui la riflessione condotta da Bachmann riguardo alla categoria della soggettività giunge, è che l’io, per quanto frantumato e non più credibile, continua a vivere mantenendo il proprio statuto di esistenza ancorato all’attualità del proprio dire, nella veste di semplice locutore di atti linguistici. Inoltre, ne L’io che scrive, l’autrice sottolinea che la messa fuori gioco della nozione d’identità, intesa come sostanza, deriva dal fatto che l’io non dà più garanzie poichè, mentre nel passato si trovava al centro della storia come fautore degli avvenimenti, ora è la storia a trovarsi al centro dell’io, al quale ora è riservato il ruolo di semplice palcoscenico e organizzatore degli eventi. L’io, in altri termini, avendo perduto la propria centralità lo si potrebbe paragonare ad un astro di cui ancora non sono state individuate né posizione  l’orbita, formato da un nucleo di sostanze tuttora sconosciute. L’identità del soggetto che si è venuta a configurare non poggia più sulla garanzia di un nome, che in qualche modo ne rivelerebbe l’essenza, poichè, essendo insostanziale, è pensabile alla stregua di un’entità dell’ordine dell’indicibile, che il discorso rivela nella trama dei significanti, nel silenzio e nei suoi punti di sospensione. L’identità,  paragonabile ad una sostanza sognata, si situa perciò  in una zona di confine tra il dicibile e l’indicibile, è una frontiera in costante mutazione, lontana dalla possibilità di darsi in maniera univoca. L’immagine dell’astro che sortisce un effetto di siderale lontananza, utilizzata dalla Bachmann per definire il luogo proprio di esistenza del soggetto, rinvia pertanto all’ambito dell’indicibile e dell’invisibile più che alla dimensione del visibile e del dicibile. Ma in questa prospettiva, in ogni caso, il vuoto e il silenzio non equivalgono ad una caduta del soggetto nel nichilismo, anche se tale rischio, di fatto, è continuamente segnalato, poiché l’io di chi parla mantiene il proprio statuto di esistenza ancorato all’attualità del proprio dire. Il romanzo Malina, tuttavia, non scioglie l’ambiguità del destino del personaggio femminile che in conclusione è fatto scomparire attraverso la parete, lasciando il quesito della sua messa fuori gioco, morte o suicidio, senza risposta. Il dialogo finale tra Io e Malina, pur non chiarendo il ruolo della responsabilità di quest’ultimo riguardo all’omicidio/suicidio del primo, è illuminante nel far comprendere come la tensione presente tra aspetti divergenti della soggettività umana mostri il prevalere dell’istanza del dominio e della forza. E ciò nonostante l’autrice sottolinea che la funzione di Malina non è quella di spingere la figura di Io verso la morte quanto di portarla alla consapevolezza di quel che le è capitato, ossia di essere stata colpita mortalmente nel proprio sé già altre volte in precedenza.

Secondo la mia lettura la scomparsa dell’io che narra in prima persona all’interno della parete, tra le varie ipotesi, è interpretabile come un tentativo di messa a morte, non tanto di un soggetto in carne ed ossa, quanto di un elemento dello spirito, di una componente vitale dell’essere umano che si radica nel sentimento e nell’amore.

In che modo allora, mi sono chiesta, il personaggio femminile dell’Io, nella dinamica dello scambio con Ivan e Malina, testimonia del lavoro di ripensamento critico della categoria del soggetto e dell’intimo legame vigente tra il linguaggio, l’indicibile e l’amore?

Innanzi tutto ciò si rende evidente nella scelta operata dall’autrice di chiamare il personaggio dell’io di Malina, “Io”, che va nella direzione di non conferirgli un nome preciso, che potrebbe far supporre l’esistenza di un’identità definita, sussistente in maniera avulsa dall’atto di parola e dalla relazione e lo scambio con altri. Il pronome io usato al posto del nome, infatti, implica sempre un tu e rinvia all’aspetto per il quale chi parla sa, anche se solo implicitamente, che la sua identità non poggia sulla garanzia del nome, ma trae misura e senso di sé dalla relazione, dalla necessità di una parola rivolta ad altri.

In secondo luogo, il personaggio femminile dell’Io, che appare dal confronto e conflitto con Malina, il suo alter ego maschile, si pone in antitesi alla fredda e lucida razionalità di quest’ultimo, laddove la spontaneità, l’amore e il sentimento rappresentano i tratti costitutivi e caratteristici della sua personalità. Infine alla centralità dell’io è sostituito il soggetto, inteso quale centro del desiderio, luogo del semplice accadere e dispiegarsi dell’io che ottempera una funzione puramente linguistica.

Malina: “Gli antichi dicevano che uno stupido non ha cuore. Hanno spostato nel cuore la sede dell’intelligenza. Tu non devi sempre sprecare il tuo cuore e lasciar fiammeggiare tutti i tuoi discorsi e le lettere:”

Io: “Ma quanti hanno teste, niente altro che teste? e magari niente cuore[9].

 

Da questo scambio di battute si constata che il personaggio dell’Io è la figura simbolo di quell’intelligenza che presso gli antichi aveva sede nel cuore che, non incontrando un’adeguata corrispondenza nella relazione con l’altro, né con gli uomini né con le donne, tende a soccombere rimanendo pressoché indicibile. Questa forse è la ragione per cui l’io femminile è apostrofato come il soggetto che non sa fare un uso ragionevole del mondo, mentre Malina, apparentemente sgravato dal peso del corpo, appare perfettamente adattarsi alle aspettative esterne.

Per questo chi dice Io afferma che l’equilibrio e l’imperturbabilità di Malina la porteranno alla rovina, dato che lei reagisce emotivamente in tutte le situazioni, laddove afferma: “A me non è neppure applicabile la legge della conservazione dell’energia. Estatica, incapace di fare un uso ragionevole del mondo, io sono il primo esempio di sperpero totale…”[10]

Il personaggio dell’Io incarna, secondo la mia lettura, un nuovo modo di darsi e costituirsi della soggettività, che informa il proprio essere ed esistenza sulla sapienza del partire da sé e nell’intelligenza del cuore. Questa possibilità dello spirito, di cui Io è interprete, ho visto esprimersi, sia nel confronto conflitto con Malina, sia dallo scambio epistolare che intrattiene con l’amica Lily. A questa donna Io si rivolge utilizzando lo pseudonimo una sconosciuta, lasciando così intendere a chi legge che il segno irriducibile della propria soggettività è la non identificazione con l’io. La figura femminile dell’Io non solo rinuncia alla certezza del nome, ma si presenta svincolata da un sistema di valori rigidi e predefiniti, traendo misura al proprio agire nel mondo dal desiderio e dalla necessità ispirati all’intelligenza del cuore, facendo propria una parola in cui riluce l’amore. Tale parola, mossa dall’energia del desiderio, mostra come il luogo proprio del soggetto è situato tra la sfera del visibile e l’invisibile, in uno spazio che è trait d’union tra corpo e spirito. La soggettività di Io, che appare attraverso lo scambio epistolare, si definisce scavando una distanza con l’amica, dovuta all’impossibilità a far coesistere due opposte posizioni esistenziali, la sua più aderente al corpo e alla sfera del sensibile, quella di Lily pressoché identificata con una razionalità fredda e disincarnata. Ritengo, perciò, che sia un tratto caratteristico della ragione del cuore del personaggio dell’Io esprimersi in una modalità esistenziale che agisce in contesto e in fedeltà a sé nella cornice di una dimensione affettiva e sensibile. In tale universo simbolico il desiderio e la necessità orientano e fanno ordine, occupando una posizione prioritaria rispetto alla legge e all’obbligo di adesione e coerenza ad un sistema dottrinale e di ciò dà testimonianza quanto scrive Io.

 

Cosa penso dell’amore cristiano del prossimo dovresti saperlo. Ma mi esprimo male, voglio dire solo che nemmeno l’amore cristiano del prossimo esclude una certa possibilità: si può, per esempio, essere refrattaria a esso, come me, e al tempo stesso posso immaginarmi perfettamente che si agisca per causa sua, e tu avresti potuto agire per causa sua.”…Cara Lily, conosco la tua generosità il tuo comportamento forse stravagante in tante situazioni, e l’ho sempre ammirato. Ma ora sono passati sette anni, e nemmeno una volta la tua intelligenza è riuscita a non ingannare il tuo cuore. Quando uno ha molto cuore e molta intelligenza, eppure non quanto basta, deve essere per lui più grave deludere se stesso, che non per il suo prossimo essere da lui deluso “[11].

 

Il personaggio dell’Io femminile in queste dichiarazioni mostra di essere ancorata ad un tipo di ragione non disgiunta dal cuore e che il nodo del conflitto con Lily, al pari che con Malina, s’iscrive in un ordine in cui confliggono istanze di tipo spirituale incompatibili e, forse, per tale ragione, senza soluzione.

Nel proseguo del romanzo, ne La leggenda della Principessa di Kagran, compare un altro nesso esistente tra il desiderio e l’amore, matrice della competenza simbolica, capace d’innescare la scintilla che prelude ad un processo di trasformazione. In essa l’amore viene posto in diretta relazione all’attivarsi di un cammino di redenzione, nonché in stretta vicinanza al desiderio che agisce da concreta figura della mediazione. Entrambe le figure si collocano in una posizione aderente al piano dell’indicibile per l’intrinseca impossibilità a piegarsi al gioco delle equivalenze linguistiche, in un luogo che si manifesta più propriamente in una forma di vita (Lebensform). Inoltre, prefigurando un cammino di redenzione, l’amore e il desiderio compaiono in tale processo in veste di figure della mediazione e direzioni di senso che conferiscono all’esperienza concretamente vissuta un valore di verità maggiore rispetto ad una conoscenza appresa in via puramente teorica. Come se il di più riconosciuto all’esperienza racchiudesse il significato di una vera e propria iniziazione ai segreti dell’amore.

La protagonista della leggenda è una giovane principessa che, venutasi a trovare due volte in situazioni di pericolo, per due volte incontra il soccorso e viene tratta in salvo da uno straniero.

Nel primo caso è stata fatta prigioniera da una popolazione di barbari che stanno tramando affinché lei vada in sposa al re degli Unni, l’origine del pericolo, dunque, è esterna. In un secondo tempo, invece, venutasi a trovare prigioniera in un paesaggio fluviale è attorniata dallo spirito dei morti, pericolo che appare, metaforicamente, più una minaccia di ordine interno. A capovolgere radicalmente la situazione in entrambe le situazioni è l’entrata in scena della figura dello straniero, il quale la trae in salvo proprio nel momento in cui pareva non esserci più alcuna via d’uscita.

Nella prima situazione di pericolo la principessa trovandosi prigioniera dei barbari, ormai quasi senza speranza, improvvisamente ode una voce che le chiede di esprimere un desiderio e subito dopo le appare uno straniero avvolto in un nero mantello che però nasconde il volto nella notte. Lei, benché non potesse vederlo, sapeva che in suo nome aveva intonato un lamento e un canto di speranza.

Secondo la mia lettura, la figura dello straniero che non ha nome, né volto e non parla, rappresenta una metafora del desiderio il cui intervento riveste, nella dinamica del processo, una valenza trasformativa. Senza il desiderio, che prende forma attraverso la figura dell’amore per lo straniero, infatti, la principessa non sarebbe stata in grado di trovare la via per superare le situazioni di pericolo in cui versava.

Lo straniero, per vicinanza metonimica, è accostabile al desiderio, perché sia l’uno che l’altro mostrano il fondo ineffabile dell’esistente nell’atto simultaneo di presentarsi, adombrandosi allo sguardo. Egli rinvia, al pari del desiderio, ad una dimensione di possibile trascendenza, nonché all’indicibile dell’amore, che si dà nel paziente lavoro di messa al mondo della parola e di rinnovamento della lingua.

In un secondo momento, invece, la principessa versa in pericolo a causa dell’improvvisa piena del fiume, denominato il mostruoso essere animato, che suscita in lei un’oscura fascinazione per lo spirito dei morti. L’immagine del fiume, tuttavia, è interpretabile come luogo che segna un passaggio di confine, poiché lì si poteva morire per fame, ma anche provare l’estasi suprema nel furioso della fine. Nei suoi pressi, come la leggenda narra, la principessa era giunta al confine del mondo umano, là dove il limite non è solo sbarramento, ma anche soglia, un tra, che dà accesso ad un altrove.

Nuovamente la figura dello straniero interviene nella situazione di pericolo, ma nel momento in cui lei gli chiede di accompagnarla nella risalita del fiume si sottrae. Il sottrarsi dello straniero simboleggia l’impossibilità del compiersi del desiderio, del suo poter giungere ad una qualche forma di oggettivazione, dove il vuoto dovuto alla sua mancata soddisfazione si rende disponibile, alla stregua di una fonte di energia che apre a nuove possibilità d’essere. La principessa non riesce ad appropriarsi dell’amore, realizzando il desiderio di congiungersi allo straniero, il quale, indirettamente, lascia traccia di sé elargendole il dono della seconda vista, che le consente di vedere e sentire là dove altri non vedono e percepiscono. In altre parole il desiderio di redenzione, che si sostanzia nel dono della seconda vista, opera e suggella un passaggio trasformativo che non può essere indolore perché essendo indipendente dalla volontà, quale condizione del suo accadere, richiede uno stato di resa interiore e la rinuncia ad ogni desiderio di totale appagamento e possesso individuale.

La figura dello straniero è accostabile all’indicibile dell’amore perchè, parimenti, mostra di prediligere, come propria dimora, il luogo informe della voce e del silenzio, più che la parola. Questo non significa che l’amore si sottrae ad ogni tentativo di farne parola e di simbolizzarlo, ma al contrario, essendo in primis, matrice della vita e della facoltà simbolica non è riconducibile ad un contenuto, ma leggibile in una forma di vita.

 

Chi sei, come ti chiami, o mio salvatore? come posso ringraziarti? Lui si mise due dita sulla bocca, ella indovinò le ordinava di tacere, le accennava di seguirlo, e l’avvolse nel suo mantello nero, in modo che nessuno potesse vederla[12].

 

L’azione vivificante esercitata dall’amore, che tale dialogo suggerisce, lo situa in un luogo che sta tra il visibile e l’invisibile, al di qua e al di là del linguaggio che lo vorrebbe definire e da questo altrove agire innescando un processo di trasformazione interiore. Nella leggenda della principessa di Kagran tale passaggio ha preso forma nel dono della seconda vista, ossia nella capacità di vedere e di sentire là dove altri non vedono e sentono, che equivale a un ampliamento delle possibilità di esercizio della competenza simbolica. In essa si è trattato di un effetto imprevisto di spostamento del confine tra il visibile e l’invisibile che ha aperto lo sguardo ad una nuova angolatura del senso e fluidificato il campo di tensione tra il piano del dicibile e l’indicibile, paradossalmente, proprio nel punto di passaggio tra la vita e la morte.

 

Il sole era già alto nel cielo quando lo straniero svegliò la principessa dal suo sonno simile alla morte. Aveva ridotto al silenzio i veri immortali, gli elementi. La principessa e lo straniero cominciarono a parlare, come da sempre, e quando uno parlava, l’altro sorrideva. Si dicevano il chiaro e l’oscuro[13].

 

Nella leggenda della principessa di Kagran, secondo la mia lettura, si è delineato il legame tra l’indicibile e l’amore nel luogo proprio di una forma di vita, la quale più che dirsi si mostra anticipando ogni formulazione di tipo teorico. Questo racconto ha messo in evidenza il primato dell’esperienza là dove l’amore, intimamente legato alla sfera dell’indicibile, si sottrae al gioco delle equivalenze linguistiche e alla completa adesione al piano del dicibile. L’amore, infatti, mostrandosi in veste di significante che orienta e di mediatore tra la vita e la morte fa sfoggio di sé, indirettamente, attraverso il dono della seconda vista rifuggendo, in certo qual modo, da ogni definizione.

Infine l’immagine del fiume in movimento, che simboleggia l’esistenza del singolo continuamente esposta all’abisso del non essere, suggerisce che solo l’amore detiene la possibilità di strapparlo a tale rischio inaugurando, talora, un cammino di redenzione e una nuova apertura del senso.

[1]              Quando parlo di ordine simbolico e ordine sociale mi avvalgo delle riflessioni elaborate dalle pensatrici della differenza sessuale, in particolare, Cfr. il saggio di Chiara Zamboni, Ordine simbolico e ordine sociale, in AA.VV., “Oltre l’uguaglianza” le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli, 1995

[2]              Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia, trad. it. di V. Peretta, Adelphi, Milano, 1993, p.42

[3]              Cfr. Chiara Zamboni, Lingua materna tra limite e apertura infinita, in AA.VV.,  All’inizio di tutto la lingua Materna, a cura di Eva-Maria Thune, Rosenberg e Sellier, 1998, Torino

[4]              Ingeborg  Bachmann, Malina, trad. it. di M.G. Manucci, Milano 1973,  Adelphi, p. 30

[5]              Ivi, p. 42

[6]              Ivi, p. 52

[7]              I. Bachmann, Malina, cit., p 31

[8]              “Il miracolo dell’Io è appunto questo: dovunque parli, l’Io vive; non può morire – per quanto schiantato o oppresso dal dubbio, non più credibile e amputato – questo Io privo di garanzie!” I. Bachmann, Letteratura come utopia, cit., p. 79

[9]              I. Bachmann, Malina, cit., p. 216

[10]            I. Bachmann, Malina, cit., p. 221

[11]            Ivi, p. 126

[12]            I. Bachmann, Malina, cit., p. 59

[13]            Ivi, p. 63