diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Relazioni Pericolose

Il virus di Cronenberg cambia sembianze: Spider e History of Violence

 

Un uomo scende da un treno, spaesato, lo sguardo è allucinato, l’andatura incerta e strascicata. Farfuglia tra sé l’indirizzo verso il quale è diretto. E’ Dennis Cleg, che dopo anni di manicomio torna nei quartieri londinesi della propria infanzia. Ospite d’una casa di reinserimento sociale, ha la possibilità di rivisitare le strade, i sobborghi e i claustrofobici interni teatro del trauma che l’ha segnato fin da bambino. Inizia dunque un tortuoso viaggio mentale, dove l’occhio dello spettatore si confonde inesorabilmente con l’occhio del malato, dove niente è ciò che sembra, perché nella ricostruzione dell’accaduto, dell’evento drammatico infantile, non rimangono che tasselli e stralci da ricostruire, sensazioni, odori, ricordi e allucinazioni che si fondono con il reale. La malattia e lo spaesamento si insinuano in chi guarda, e non si è più in grado di distinguere tra realtà e sguardo soggettivo del protagonista. Il virus, l’agente esterno che penetra il corpo, prima concretamente in tutta la filmografia di David Cronenberg, si fa ora in Spider impalpabile e non più visibile, ambiguo. La concretezza dei corpi, dei parassiti, degli agenti patogeni prima tangibili (Il demone sotto la pelle, Rabid, Brood, eXistenZ con i suoi pod carnali, Crash dove lamiere e metallo penetravano la carne, Il pasto nudo dove la droga entrava nei vasi sanguigni, La mosca ove il DNA dell’insetto infettava il genoma umano) lasciano il posto ad un virus e una mutazione che si manifestano nel disturbo psichico del protagonista. E non solo.

Man mano che il racconto procede ci addentriamo in una ragnatela di ricordi che sembra dipanarsi; ricordi che Dennis Cleg rivive quasi fisicamente (il protagonista adulto compare nelle inquadrature che lo ritraggono da bambino, come una presenza esterna che osserva gli eventi passati dalla finestra): il rapporto morboso del solitario ed introverso piccolo Dennis con la madre, l’edipico conflitto con il padre beone che si invaghisce della prostituta del quartiere, il voyeurismo del corpo femminile impuro da parte del bambino, l’uccisione della madre seppellita dal marito che porta in casa la prostituta imponendola come nuova figura materna per il piccolo. Ma la giovane donna è davvero morta per mano del padre oppure sono gli occhi del bambino che la ritraggono come una prostituta perché ne ha scoperto lati impuri ed oscuri che non vuole accettare? Il dubbio è insinuato da Cronenberg man mano nonostante sia chiara dall’inizio la sua volontà di destabilizzare il nostro punto di vista, dato che sia la moglie che l’amante prostituta sono interpretate dalla stessa attrice (una versatile Miranda Richardson). Inoltre, la sequenza in cui il piccolo Dennis uccide la prostituta aprendo le valvole del gas della propria casa, quasi per eliminare l’agente esterno e invasivo che è entrato nella sua abitazione, è reale o è una proiezione del suo desiderio di vendetta? E chi delle due ha veramente ucciso? Non ci è dato sapere, perché Cronenberg non ci dà chiavi di lettura adeguate per risolvere il dubbio. Non usa escamotage filmici per farci distinguere il sogno dalla realtà, l’allucinazione dal ricordo, il volto reale dal volto immaginato, non ci sono soluzioni e non ci sono risposte, come non ci sono per Dennis Cleg, che rivedendo, ormai al termine del suo viaggio nel passato, l’ossessiva figura materna della sua infanzia addirittura nel volto della direttrice della casa di reinserimento sociale, dopo aver cercato di ucciderla, è costretto a ritornare al manicomio dal quale era venuto, anche lui senza risposte. Il cerchio si chiude e siamo al punto di partenza, niente è svelato, niente è conoscibile, il tempo è fermo (come l’orologio che Cleg tiene sul comodino e che segna perennemente le 15.13), niente è davvero intelligibile (come il taccuino riempito di simboli che somigliano a lettere ma non lo sono). Il virus del dubbio si è ormai insinuato: la psicosi di Cleg che costruisce un labirinto di ricordi e desideri inespressi ormai intricati in modo indissolubile e irrisolvibile, l’ha contaminato, il suo è un corpo che non funziona (come tutti i corpi dei protagonisti del regista canadese) e, come sempre, Cronenberg ne analizza l’anomalia dalla quale è attratto, semplicemente la osserva, senza spiegare o dare giudizi. Ma le immagini virali del suo cinema hanno contaminato anche noi, la nostra visione: il reale si è innestato sul non reale, o su quello che potrebbe non essere reale, confondendosi e destabilizzando il meccanismo secondo il quale noi siamo portati a ritenere le immagini soggettive come oggettive e a conferire loro un indiscusso statuto di verità. Come osserva Gianni Canova, “è proprio su questa malattia virale del cinema che lavora Cronenberg, cercando d’insinuare nel pubblico un dubbio mortale sulla natura delle immagini e sul loro grado di attendibilità” (Canova 2007, p.66).

Che dire infatti delle visioni di Johnny Smith nella Zona Morta? Delle sequenze oniriche di Inseparabili, del sogno de La Mosca, dell’Interzona e le visioni “drogate” de Il Pasto nudo? Da che momento in poi possiamo considerare allucinazioni e non realtà ciò che vede il Max Renn di Videodrome? Senza dimenticare eXistenZ, ove tale modalità di indefinibile confine tra reale e irreale (in questo caso “virtuale”) è il fondamento stesso del film (il protagonista entra nella realtà virtuale di un gioco e non è più in grado di distinguere tra gli eventi che gli stanno accadendo realmente e il gioco stesso). Serge Grünberg, nel suo interessante saggio edito per i Cahiers du cinéma, ci fa notare che le immagini cronenberghiane non hanno mai una provenienza ben definita e la veridicità e affidabilità delle stesse sono ampiamente sospette, “lo spettatore non dispone dei punti di riferimento o degli indizi necessari per distinguere l’immagine realista-naturalista da quella onirica, allucinatoria o fantasmatica (…) in tutti i suoi film il regista alterna immagini sane ad immagini contagiate come se volesse provocare in noi una vertigine, un dubbio sistematico” (Grünberg 1992, trad. it. p. 31). Illusione è anche il cinema d’altronde, ed inevitabilmente torniamo a quel “Niente è vero, tutto è permesso” con cui si apre il film il Pasto nudo tratto da Burroughs, padre putativo di tanto pensiero cronenberghiano.

Il cinema di David Cronenberg è un cinema concatenato e dell’eterno ritorno, quasi un corpus unico e coerente, dove più che in altri autori ogni film è legato all’altro, lo prosegue, lo ricalca o lo espande, elaborando ossessioni e tematiche care al regista in un continuo rincorrersi ed evolvere.

I corpi mutageni ed estranei che contaminano l’individuo si manifestano in ogni pellicola con apparenze e modalità diverse, aprendo ferite, varchi e buchi neri ora visibili (la ferita vaginale nel ventre di Max Renn, dove inserire videocassette, i parassiti del Demone sotto la pelle che deformano il corpo con rigonfiamenti, la secrezione vischiosa che cola dalle orecchie in Crimini del futuro, le teste che esplodono in Scanners, penetrate da forze telepatiche, la piaga pulsante sotto l’ascella di Rose in Rabid, la placenta extra-uterina di Nola in Brood, i peli di mosca che escono dalle ferite di Seth Brundle) ora più impalpabili, ma comunque fisici: Johnny infatti, ne La Zona Morta, sente che l’uso dei suoi poteri psichici gli sottrae energia, in Inseparabili Beverly, “parassitato” dal fratello gemello Elliot, imbocca la strada della droga e dell’autodistruzione, mentre René penetrato come da un cancro dall’immagine femminile di Butterfly, dopo averne posseduto fisicamente il referente (il corpo maschile di Song), “si trasforma fino a diventare la ‘prima donna’ del palcoscenico del carcere” (Scandola 1997). E’ proprio con Spider (penultimo film del regista) che la struttura- tipo di contaminazione cronenberghiana si evolve e si manifesta in modo differente.

In tutta la filmografia di Cronenberg l’orrore e la minaccia provengono in realtà sempre dall’interno, da noi stessi, impotenti di fronte a forze che si scatenano in organismi incontrollabili o parassitati. In ogni caso la mutazione fino ad ora era sempre stata innescata da un conflitto con elementi esterni, con corpi estranei invasivi altri o provenienti dall’altro. In Spider il conflitto si fa puramente interiore, ed è forse questo l’elemento più inquietante, che suscita più paura e disagio rispetto ad un mero confrontarsi con un nemico visibile, che in un certo senso ci dava una via d’uscita, ovvero l’illusione di poterlo in qualche modo controllare ed individuare. Ora non c’è più scampo. In Spider il conflitto è interiore perché non risiede banalmente nel trauma infantile, quanto nella malattia mentale stessa, che come un virus informatico intacca e distrugge dall’interno il programma umano, mettendolo in contraddizione con se stesso, confondendo ricordi, fantasie e verità. Un conflitto celato ed invisibile ai più, come interno ed ancora più nascosto è il conflitto che si agita nella mente del protagonista di History of Violence, Tom Stall, portatore sano (?) di un virus ancora più silenzioso e subdolo: la violenza.

Tom Stall ha una tavola calda in una tranquilla cittadina della provincia americana, una bimba, un figlio adolescente che gioca a baseball, è molto innamorato della moglie ed è stimato dalla comunità dei suoi concittadini. Un’ideale vita comune americana. Ma la realtà è ben diversa. Quando due delinquenti venuti da fuori interrompono la quiete del paese con un tentativo di rapina proprio al suo locale, Tom finisce su tutte le tv e i giornali celebrato per il suo coraggio. E’ stato proprio lui infatti, con prontezza ed un energico istinto di sopravvivenza, a sparare per difendersi dai due malviventi. Tanta pubblicità richiama però qualcun altro a fargli visita: dei loschi figuri della malavita di Philadelphia iniziano a perseguitarlo, insistono nel chiamarlo Joey e cominciano a pedinare la sua famiglia. Un errore di persona? Tom negherà di conoscerli fino all’ultimo, ma in una colluttazione armata nel giardino della sua abitazione con costoro, che avevano preso in ostaggio suo figlio, Tom ammette davanti gli occhi increduli della sua famiglia e dello spettatore stesso di essere quel Joey che i mafiosi cercavano. Il suo passato ha radici infatti nella criminalità di Philadelphia di cui ha fatto parte per anni e suo fratello è un temuto boss della malavita. Nonostante i suoi tentativi di rifuggire la violenza, di scomparire e non farsi più trovare, di seppellire la sua vecchia vita sotto un falso nome per ricostruirsi un’esistenza comune, il suo doppio, il suo io violento è ormai riemerso, prepotente, e Tom non è più in grado di nasconderlo. Lo stesso fratello tornerà a cercarlo per pareggiare conti e vecchi rancori, e solo l’uccisione di quest’ultimo libererà Tom dal suo passato, o per meglio dire, riporterà equilibrio nel suo animo diviso.

History of Violence, ultimo film del regista, può apparire a prima vista un’opera molto distante dalle consuete tematiche cronenberghiane, una storia tipicamente hollywoodiana, con killer, sparatorie e classici luoghi comuni americani, tanto che il regista all’uscita del film fu accusato di aver abbandonato i suoi intenti sperimentali e di essersi piegato a quelle logiche commerciali che fino a quel momento aveva sempre osteggiato. Al contrario, è possibile vedere, in questo suo ultimo lavoro, un coerente ulteriore passo, dopo Spider, verso un ideale di invasività che si fa sempre più metaforica ed impalpabile, perché partendo dai mostri repellenti e dal corpo lacerato dei suoi film degli anni ‘80 e ‘90 Cronenberg si sta dirigendo in questo momento verso un cinema meno corporale, meno vivido e visibile, dove il nemico non è più così evidente; e lo fa proprio in un periodo in cui l’America con la sua cinematografia (e non solo) sta facendo in pratica proprio l’opposto: rende visibili i suoi mostri, reifica le sue inquietudini, mossa da una paura più concreta dovuta ad una minaccia dichiarata (si vedano film recenti come La guerra dei mondi, remake – non casuale – dell’omonima pellicola del 1953 quando, in piena guerra fredda, la paura si materializzava nel nemico invasore).

Ancora una volta controcorrente dunque, e sempre coerente con la sua cinematografia: c’è infatti ben più da vedere in questo film se andiamo oltre l’apparenza di banale thriller all’americana. Gli orologi della cittadina sono ancora fermi, questa volta sulle 13.15, siamo sempre di fronte ad un “contesto a tempo bloccato” (Canova 2007 p.124). Ci sono piccoli segnali che Cronenberg ci lascia, e alcuni di questi ci fanno sospettare che il vero pericolo per Tom/Joey non sia l’arrivo dei killer di Philadelphia: il pericolo c’è già, è tra le mura della sua casa e si sta espandendo come un’infezione. L’inconscio della piccola figlia del protagonista l’ha già registrato, si sveglia urlando di notte addirittura nella seconda sequenza del film: “ci sono i mostri!” dice “si nascondono nelle ombre..” il padre nega, la prima di tante negazioni, dicendo che i mostri non esistono, ben conscio che forse è proprio lui il mostro, il “portatore sano” di una violenza che esplode nel momento del pericolo, durante la prima aggressione nel suo locale, apparentemente in modo circoscritto, ma che da quel momento in poi intacca irrimediabilmente l’equilibrio che reggeva la morale della famiglia. Come un virus invisibile e furtivo. Il figlio maggiore infatti dopo quell’episodio, dopo che il padre ha sparato, non reagirà più solo a parole davanti alle provocazioni dei bulli della scuola durante le partite di baseball, risponderà a pugni, a sangue, e inutilmente Tom potrà redarguirlo come avrebbe fatto un tempo, essendo ormai un padre che ha “sparato per risolvere i suoi problemi” come lo accusa il figlio. La stessa moglie punterà il fucile contro il marito scambiandolo per un aggressore, e forse il suo istinto non si sbaglia del tutto. Durante la colluttazione nel giardino di casa Tom si rivela per l’assassino che era e che è ancora, ma solo il colpo di fucile sparato dal figlio lo salverà dal nemico. La violenza è dilagata, ed ha imbrattato le mani di tutta la famiglia. Cronenberg sottolinea il suo dilagarsi molto più esplicitamente dell’autore della graphic novel da cui è stata presa ispirazione per il film. Nel testo originale infatti la violenza si concentra nelle mani dei malavitosi, la famiglia è assolutamente in secondo piano, la bimba ha gli incubi solo dopo gli episodi di violenza in cui è rimasto coinvolto il padre e ben più ampio respiro è dato al passato di Joey e alle ripercussioni che ha dovuto subire per le sue azioni di allora. Tra l’altro nel testo lui pare quasi vittima casuale di un ambiente degradato, ed i suoi familiari reagiscono con assoluta comprensione e fiducia nei confronti del capofamiglia. Nel film ciò non avviene. Si può intendere che Tom fosse ben inserito nel contesto criminale, certo non ne era vittima; inoltre i suoi familiari nel film sono lungi dall’essere comprensivi: dopo la sparatoria in giardino, infatti, la moglie si ribella, non riconosce più il marito, l’uomo che ha sposato è totalmente diverso da quello che ha di fronte ora. E’ tutto diverso, tutto è corrotto: anche il loro cognome è un inganno. La totale perdita di complicità e di fiducia, la rabbia e la diffidenza che si insinuano nella coppia, sfociano in un passionale ma violento rapporto sessuale tra i due sulle scale di casa, da lasciare lividi sulla schiena, ben diverso da come avevamo visto vivere la sessualità dalla coppia all’inizio del film.

E’ su questo che vuole infatti porre lo sguardo Cronenberg, sulla cellula maligna, il virus della violenza, insito nei nostri rapporti, già interno, che assume il sembiante di una cellula sana per introdursi nell’organismo della nostra quotidianità, che usurpa l’identità di colui che vuole rovinare, in questo caso la famiglia. Perché dopo la mutazione interiore di Tom, che riacquista l’equilibrio della sua identità scissa dopo l’uccisione fratricida (altra metafora dell’io duplice ), anche la famiglia stessa si ritrova mutata, contaminata. E tutti i componenti scenderanno a patti con questa mutazione nel momento in cui, nella scena finale, riaccoglieranno in casa Tom, tornato da Philadelphia, facendogli posto a tavola. Sarà proprio la bimba la prima a far posto al padre: la prima che ha percepito l’orrore, e la prima che lo accetta, prendendone coscienza.

 

Bibliografia

Serge Grünberg, David Cronenberg Parigi, Edition Cahiers du Cinéma, 1992 (trad. it. David Cronenberg, Milano, Shake Edizioni, 1999).

Alberto Scandola, “Della follia dell’amore” in L’immagine allo specchio – il cinema della metafora e del doppio, a cura di Alberto Scandola, Verona, Cierre Edizioni, 1997.

Francesca Alfano Miglietti, “Incontro con David Cronenberg”, in Virus, n.10, gennaio 1997.

Niccolò Rangoni, “I Mutanti come segno dei tempi – Squarci su Cronenberg da eXistenZ a ritroso”, in Gli Speciali – Monografie, www.spietati.it, 2000.

Teresa Macrì, Il corpo postorganico Milano, Costlan Editori, 2006 [1996].

Gianni Canova, David Cronenberg Milano, Editrice Il Castoro, 2007 [1993].

Filmografia di David Cronenberg

1969 Stereo (id)

1970 Crimes of the future (Crimini del futuro)

1975 The Parasite Murders (Il demone sotto la pelle)

1976 Rabid (Rabid – sete di sangue)

1979 Fast Company (Veloci di mestiere)

1979 The Brood (Brood – la covata malefica)

1980 Scanners (id)

1982 Videodrome (id)

1983 The Dead Zone (La zona morta)

1986 The Fly (La mosca)

1988 Dead Ringers (Inseparabili)

1991 Naked Lunch (Il pasto nudo)

1993 M. Butterfly (id)

1996 Crash (id)

1999 eXistenZ (id)

2002 Spider (id)

2005 A History of Violence (id)