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per amore del mondo Numero 8 - 2009

Filosofe e Filosofie

Il mistico, l’esiliato, l’uomo abbandonato. La condizione umana tra vuoto e inaugurazione

Queste pagine sono solo un tentativo di dire, poiché il dire resta sempre un mettersi alla prova, un esporsi sul limite di sé, un ex-periri. «Scrivere – annotava María Zambrano – è difendere la solitudine in cui ci si trova», ma anche uscire dalla solitudine «per comunicare il segreto»[1]. Le ragioni di fondo di questa riflessione (tratta da un lavoro più articolato, divenuto poi la mia tesi di laurea in Filosofia) attengono a quel groviglio esistenziale in cui si intersecano pensiero ed esistenza, ragione ed esperienza. Il vuoto è stato per lungo tempo il centro gravitazionale di una ricerca personale inconclusa, originata dalla perdita di quei riferimenti che costituiscono la “menzogna romantica” della prima metà dell’esistenza. Un itinerario faticoso, un’orbita inquieta non esente da vissuti malinconici e scivolate nichilistiche, un processo di svuotamento di ciò che aveva costituito per molti anni un mondo, il luogo privilegiato di esistenza e di esperienza.

Orbitando intorno al vuoto, l’incontro inaspettato (quasi l’evento di una promessa) con tre pensatori che, nel loro singolare percorso di vita e di pensiero, hanno saputo guardare dentro l’esperienza del vuoto, tenendo insieme il patimento dell’abbandono e le potenzialità inauguranti che il vuoto rilancia e promette. Meister Eckhart, María Zambrano e Jean-Luc Nancy – ciascuno secondo la propria vicenda spirituale, esistenziale e filosofica – hanno assunto il vuoto (la notte mistica, l’esilio l’abbandono) come mancanza assoluta e radicale e, insieme, come momento d’incubazione di ciò che può ancora venire all’essere, come inaugurazione dell’altro. Seguendo i loro percorsi, saremo forse condotti a un movimento di riscatto del vuoto (re-ex-captare, tornare indietro a prendere qualcosa che è stato tralasciato, come ci ricorda Rosella Prezzo[2]), per poterne intravvedere la sua feconda ambivalenza, la sua paradossale generatività.

 

Fecondità del vuoto

Quando diciamo “vuoto” non nominiamo il non essere, il ni-ente, ma la condizione costitutiva dell’esistere, il suo presupposto imprescindibile. Prendendo a metafora la brocca di Heidegger[3], potremmo dire che ogni esistenza consiste e insiste nel vuoto, lo attraversa nel tentativo di dargli una forma, la propria, di contenere l’inafferrabile.

Il tempo dell’esistere si gioca (ma anche: ha gioco[4]) in questa singolare esperienza del limite, un cercare e un ricercare che diventa altalena incessante tra lo sporgersi-verso e il ritrarsi-indietro dal proprio abisso. In questo senso, in compagnia di Pirandello, potremmo sentirci tutti «figli del Caos»[5], dove Chaos torna ad assumere l’originaria valenza semantica di apertura, abisso, vuoto-matrice da cui l’essere stesso proviene ed è generato: «Lo sbadigliare, ciò che sbadiglia, ciò che si spalanca […] Χάος vuol dire inizialmente ciò che si apre sbadigliando, e indica in direzione di un’apertura che si spalanca insondabile, senza sostegno e senza fondo»[6].

Il vuoto, che la tradizione filosofica ha identificato dualisticamente col non-essere, ovvero con l’esito nichilistico della parabola metafisica occidentale, è impiantato nel cuore stesso dell’essere, esordio ancora celato di qualcosa che si predispone all’esistenza, embrione della possibilità e dell’evento[7]. La cavità dell’essere non è principio di annichilimento, ma è matrice di possibilità ontologiche ed esistenziali, squarcio, ferita e apertura, desiderio di alterazione e di auto-trascendimento. Nell’apparente ni-ente del vuoto si prepara l’evento dell’essere, così come l’epilogo della notte è anticipazione e profferta di luce aurorale, così come la parola poetica ha la sua scaturigine remota nell’illimitatezza del silenzio. C’è nel vuoto (nelle sue molteplici figure privative: la notte, il silenzio, il deserto, l’esilio, l’abbandono) il profilo incandescente di qualcosa che potrebbe affacciarsi al piano dell’essere svelandosi, e in questo ad-venire turbare la stabilità del già-essente disponendolo all’inquietudine, all’attesa, all’ospitalità dell’altro.

Il vuoto prepara e alimenta l’essere, gli dà forma nel tempo dilatato dell’attesa e provvede alla sua venuta al mondo: è in questa provvidenzialità del vuoto la sua fecondità (da fere, ‘nutrire’), ciò che consente di intravvedere nel vuoto il profilo generativo di un’apertura, di un’inaugurazione che è eccedenza, sovrabbondanza, profusione di possibilità ontologiche, «l’indomita pienezza inesauribilmente accavallantesi di ciò che crea e distrugge se stesso»[8]. Ciò che qui chiamiamo “inaugurazione” non indica dunque una condizione esterna, dialetticamente opposta al vuoto, quanto il suo intrinseco, immanente risvolto generativo, in cui si mescolano possibilità e attesa, passività e speranza. “Inaugurare” (dal latino augere, ‘aumentare’, ‘accrescere’) evoca gli antichi auspici verso qualcosa che chiede di trovare la soglia per un nuovo inizio e un altro avvio: un’arte fatta della capacita di vedere i segni, di interpretarne l’ambivalenza simbolica, di attendere il loro manifestarsi rimanendo passivamente attivi, inquieti, «l’inquietudine non come turbamento e confusione, ma come risveglio e vigilanza»[9].

 

Ledig: liberi e vuoti. Meister Eckhart

Il mistico è colui che attraversa la notte oscura dell’anima, in attesa di quell’evento che mai potrà interamente darsi ed essere posseduto: la teofania, la manifestazione del divino, la ri-velazione del sacro. L’etimologia stessa della parola “mistico” mantiene un vincolo semantico con la notte, il mistero, il segreto, qualcosa che si concede e si apre come un fiore notturno[10].

La notte è uno stato di abbandono totale, in cui si è in balia di un vuoto percettivo e di una spazialità aperta priva di oggetti e di luoghi, in cui il nostro essere viene amputato e deprivato di tutte le immagini che ci rassicurano in termini di identità soggettiva. La notte – dice Merleau-Ponty –  «soffoca i miei ricordi, cancella quasi la mia identità personale […] Io non sono più trincerato nel mio posto percettivo per vedere, da lì, sfilare a distanza i profili degli oggetti […] La notte è senza profili […] è una profondità pura senza piani,  senza superfici, senza distanza da me»[11].

In Meister Eckhart, l’attraversamento della notte coincide con un percorso di svuotamento estremo, una radicale viam negationis affinché il vuoto possa spalancarsi interamente nel fondo dell’anima, impadronirsene lasciandola libera-e-vuota, termini che nella lingua tedesca convergono nella parola ledig. Non è sufficiente rimuovere asceticamente gli aspetti che legano l’uomo alla propria condizione fisica, materiale, corporea (beni, denaro, carriera, interessi materiali); occorre scavare più a fondo, sradicare tutto ciò che de-termina e de-limita il singolo in quanto individuo, riempiendolo di Io e separandolo dal cosmo e da Dio.

Attraverso un movimento liberatorio a spirale, si tratta di rimettere in gioco l’intero repertorio degli elementi costitutivi dell’uomo psichico: carattere, temperamento, desideri, progetti, volizioni, sentimenti, immaginazione; in altre parole, l’apparato-bozzolo che ci caratterizza come individui psicologici, finendo per costituire una corazza, una resistenza e un ostacolo al compimento dell’uomo spirituale a cui l’ascesi mistica tende. Solo al termine di questo processo di dis-nascita «il mýstes sarà davvero pauper, spoglio di ogni finita potenza, di ogni intenzione o attesa, di ogni alterità contra sé»[12].

Lo scavo di sé che Eckhart propone per riportare alla luce il fondo nudo dell’anima, non può però arrestarsi neppure a questo livello, in cui l’Io psicologico si auto-oblitera per far spazio all’evento di una doppia-unica nascita, all’apparizione di se stesso come altro e dell’Altro come se stesso. Per rimanere liberi e vuoti è necessario distaccarsi infine dalle immagini e dalle rappresentazioni che ci siamo costruiti dei nostri beni spirituali (la nostra religione, il nostro modo di relazionarci al divino), e infine di Dio stesso: «Distaccarsi da Dio, andare oltre il Dio determinato dei modi, delle rappresentazioni, che è corrispettivo all’Io psicologico, il Dio a cui domando, il Dio padre-giudice: occorre andare oltre tutto ciò affinché si manifesti e si generi in noi il vero Dio, il Dio senza modi, l’abisso di Dio, la divinitas […]. Se si toglie tutto l’accidentale, il determinato, il finito, se si compie questa opera di rimozione radicale, di totale afairesis (Plotino), ciascuno di noi rimane senza moventi per l’agire, nudo e povero, vuoto e libero, senza un fine, privo di ogni progetto. In quel momento si apre la dimensione verso cui siamo indirizzati: nel vuoto che ho fatto di me stesso Dio non può fare a meno di entrare, Dio deve scendere nel fondo dell’anima»[13].

Il  disfacimento del bozzolo dell’io deve dunque pervenire a questo livello di profondità e radicalità, affinché dell’uomo rimanga solo una voragine vuota, un crogiolo in cui possano ricomporsi le separazioni e le opposizioni, in cui il “male ontologico” (che per Eckhart è costituito dal dualismo tra uomo e Dio) possa purificarsi e decantarsi per essere pronti ad accogliere Dio nell’anima: solo così, come uno zampillo d’acqua che proviene da una sorgente sotterranea, il sacro potrà inaugurarsi e venire alla luce dal fondo vuoto dell’anima.

Le parole enigmatiche e paradossali con cui Eckhart nomina questo farsi nudi e vuoti sono un invito all’esilio estremo da se stessi: «Diventa come un bambino / diventa sordo, diventa cieco! / Il tuo essere stesso / deve diventare nulla, / ogni essere, ogni nulla, bandisci di qui ogni senso! / Lascia luogo, lascia tempo / e l’immagine ugualmente! / Prendi senza cammino / il sentiero stretto / così verrai all’impronta del deserto»[14].

Per pervenire a quel «deserto meraviglioso» che suscita «meraviglia e spavento», e che viene indicato come meta di un sentiero stretto e arduo, l’uomo deve farsi-vuoto, uscire da sé affinché il sacro possa prendere dimora nel fondo della sua anima, inaugurando al contempo una doppia rinascita: quella di un Dio-non-più-trascendente, non-separato e non-altro dall’uomo, e quella dell’uomo a se stesso, assimilato a Dio (indiato) e ricreato nelle profondità della sua anima. Occorre qui sottolineare come per Eckhart questo itinerario sia paradossalmente «senza cammino», cioè ametodico, privo di un orientamento che possa suggerire come raggiungere il suo termine ultimo: il “sentiero stretto e senza cammino” si snoda contemporaneamente e tutto in un sol punto, in una coincidenza tra inizio e fine, tra spazio e tempo, «che non richiede alcun trasferimento, [che] si opera “senza attività”. Chi si lascia andare a questa inattività supremamente attiva è già introdotto al centro di se stesso e di tutte le cose»[15].

In relazione a questo itinerario di svuotamento di sé, María Zambrano – che ha riservato grande attenzione all’esperienza mistica, con una sensibilità particolare al castigliano Juan de la Cruz – ha scritto: «Vediamo così che il mistico ha realizzato una completa rivoluzione; si è fatto altro, ha interamente ceduto se stesso; ed ha realizzato la distruzione più feconda, che è la distruzione psichica, affinché in questo deserto, in questo suo vuoto, venga ad abitare un altro, e questa volta per intero. Ha sospeso la sua esistenza affinché un altro si risolva ad esistere in lui. Naturalmente in questo processo di sostituzione vi è un intervallo in cui non vi è nulla, in cui è il nulla assoluto»[16].

L’interiore percorso teogonico che Meister Eckhart indica culmina in questa inaugurazione, in questo lasciar ri-sorgere l’acqua che scorre sotto la terra dell’anima, il fiume carsico che chiede uno sbocco, un luogo vuoto-e-libero (ledig) per riaffiorare e inondare la nostra dimora interiore. La nascita di Dio nell’uomo e, insieme, dell’uomo in Dio, è l’esito non dualistico di questo tragitto sotterraneo, di questa apertura generativa che si fa fonte e zampillo, ma il cui evento teofanico è stato lentamente preparato nell’oscurità e nel vuoto, attraverso quella viam negationis che è al contempo rinuncia e nobilitazione dell’animo, abbandono e liberazione, dis-nacita e ri-creazione in Dio.

 

Esilio e trascendenza. María Zambrano

Se l’itinerario eckhartiano di svuotamento dell’anima è una necessità perseguita consapevolmente (anche se non volontariamente) per poter generare il divino dentro di sé, il vuoto di cui ci parla Zambrano nei suoi scritti è una necessità subita, un’esperienza sofferta e infine amata, che la filosofa andalusa ha saputo riscattare poeticamente e restituire per intero alla riflessione filosofica: si tratta dell’esperienza dell’esilio, che Zambrano ha vissuto per 45 anni e che ha segnato profondamente la sua vita e il suo pensiero. L’esiliato assume nella sua riflessione i lineamenti di una figura metafisica in cui è rappresentata la condizione esistenziale di ogni uomo: «Sono poche le situazioni, come quella dell’esilio, in cui si presentano, come in un rito propiziatorio, le prove della condizione umana. Come se si stesse compiendo l’iniziazione dell’uomo»[17].

Ma che tipo d’uomo è l’esiliato, colui che è ex-solum, espulso e distante dalla propria terra, sciolto dal legame di appartenenza con il proprio humus? L’orfanità sembra essere il tratto che lo distingue e lo segna nel profondo: «Non avere un posto nel mondo, né geografico, né sociale, né politico […] né ontologico. Non essere nessuno, nemmeno un mendico: non essere nulla […] Aver smesso di essere tutto per mantenersi nel punto privo di qualsiasi appoggio, perdersi nel fondo della storia, anche della propria, per trovarsi un giorno, in un solo istante, a galleggiare su tutte»[18].

Il vuoto che l’esilio scava consiste, innanzitutto, in una particolare esperienza dello spazio, che assume i contorni del non-luogo, «uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico»[19]. L’esiliato è un essere fuori-luogo, dis-locato, s-logato: forse è questo il senso profondo di ex-solum, la condizione di chi è fuoriuscito non soltanto dalla propria terra, ma da ogni luogo, colui che in questo distanziamento, in questa esteriorità, si ritrova a dover ex-sistere nello spazio senza luoghi, esposto alla pura estensione in cui non c’è né pace né protezione, né dimora né appartenenza: lo spazio come nuda spazialità geometrica, orizzonte che si estende su un’immensità che è tutto pur non essendo nulla, di fronte alla quale può capitare di confondersi col nulla d’essere, col non-essere-nulla di cui parla Zambrano.

In questo «deserto senza frontiere e senza miraggi», in questa distesa che è come un «abisso pianeggiante, là dove non ci sono strade», l’esiliato procede «errabondo come un cieco senza orientamento, un cieco che è rimasto senza vista per non avere dove andare»[20]. L’esiliato è dunque l’ospite impossibile, poiché non può trovare accoglienza in nessun luogo: non può sperare di ottenere un luogo futuro in cui radicarsi e nuovamente abitare, come accade al rifugiato, «accolto più o meno amorosamente in un luogo in cui gli si fa posto»; non può contare sulla consolazione del sentimento nostalgico che rinnova emotivamente il contatto con il luogo originario, come accade allo sradicato, «più fedele che mai alla sua terra, più di chiunque, più degli altri»[21].

Nell’inospitalità dello spazio atopico, anche l’esperienza del tempo assume per l’esiliato contorni perturbanti: egli si attarda passivamente davanti ad un «orizzonte senza realtà, orizzonte in cui guarda, passa e ripassa, come un rosario, la storia, la storia intera»[22]. Rimasto sulla riva come un naufrago della storia, perduto nel suo fondo, colui che vive l’esilio può allora far proprie le parole di Emil Cioran: «Gli altri cadono nel tempo; io invece sono caduto dal tempo. […] Il tempo si è ritirato dal mio sangue […] Se non sento il tempo, se nessuno ne è più distante di me, in compenso lo conosco, lo osservo senza posa»[23].

Caduto dal tempo, estromesso dalla storia, l’esiliato è un essere fuori-tempo, poiché se dal tempo della storia si sottrae la storia, il luogo in cui si tesse la trama degli avvenimenti umani, non rimane altro che il Tempo nella sua dimensione tragica, sottofondo neutro della vita e dell’essere, il dio senza maschera né figura né volto nella sua nudità implacabile. L’esiliato si sente allora esposto e disincarnato, egli stesso ridotto a puro accadere, nudità dell’esistenza nell’abbandono irreparabile, essere spossessato di qualsiasi pretesa di esistenza che può solo ricominciare ad essere.

Zambrano evoca spesso questa esperienza perturbante del Tempo che si fa nelle situazioni-limite dell’esistenza: «La scoperta del tempo non può che avvenire in un momento negativo della nostra vita, un momento in cui abbiamo perso una cosa che lo riempiva; il tempo è l’essenza della nostra vita e proprio le sta al di sotto, come fondo permanente di tutto ciò che viviamo. Scoprire questo fondo assomiglia quasi a una caduta, che può avvenire solamente in un particolare stato di angoscia, delusione o vuoto. […] Il tempo si scopre in realtà in momenti di abbandono»[24].

Incapace di vivere come di morire, l’esiliato sperimenta così un processo di progressivo svuotamento e assottigliamento di sé, attraverso il quale – facendosi estraneo agli altri e a se stesso –, «si va riducendo all’irriducibile: alla verità del suo-essere-così, spogliato di tutto, di ragione e di giustificazione. Il più vicino possibile all’innocenza»[25]. E’ per questa prossimità al grado zero dell’esistenza che María Zambrano assimila l’esiliato a un’altra figura significativa presente in alcune opere pittoriche: l’idiota, creatura che si aggira tra la gente con la sua visibilità vacillante e provvisoria, «come la luna nell’acqua stagnante»[26]; un essere che non si sa da dove provenga, animale acquatico sconosciuto o astro solitario che segue un’orbita da tutti ignorata, un essere che vive al limite, che incarna egli stesso il limite della condizione umana.

L’idiota-esiliato assomiglia per molti versi a quello «straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato» che dà il titolo ad un libro di Edmond Jabès: un’ecceità umana, una singolarità assoluta che «ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero»[27]. Jabès lo definisce l’estran-io, con un neologismo instabile, plurale, meticcio, in cui scorre già sangue straniero, un’entità che mette continuamente a repentaglio la sicurezza dell’illusione identitaria. Lo straniero-esiliato è colui che ha fatto esperienza dell’inconsistenza del proprio io fino al punto di dover abbandonare se stesso, di doversi abbandonare ad essere-senza-io, esposto e nudo davanti al mondo.

Dopo il dissolvimento del luogo geografico e del tempo storico, lo spossessamento dell’io è il cuore di quel processo lento e sofferto che Zambrano ha chiamato desnacer, dis-nascita o de-creazione, «un movimento regressivo che, disfacendo un’identità non più rispondente a sé, riporta verso una nudità dell’essere simile a quella sperimentata a livello della nascita: viene disfatta quell’immagine di sé che tendeva a convertirsi in personaggio, in maschera che ricopriva e irrigidiva l’impulso a diventare persona, a essere autenticamente se stessi. La distruzione dell’immagine di sé preesistente fa il vuoto, crea lo spazio necessario affinché la vita possa trascendersi senza essere ostacolata dalla fissità del personaggio che si era in procinto di diventare»[28].

Qui, nel punto più intimo di questo vuoto spaziale, temporale e identitario che l’esilio apre e disvela, si avverte la risonanza di una parola essenziale che Zambrano pronuncia all’inizio della sua narrazione autobiografica, e che esprime per intero la dimensione dell’abbandono e della nuda presenza: «Adsum», ci sono, eccomi, voce e presenza di qualcuno che nell’oscurità del vuoto si mantiene in contatto con un nucleo luminoso aurorale, inaugurale, quella «fiamma bianca, certa e lieve […] che galleggia nell’oscurità senza imporsi, come un dono, e fa sì che l’oscurità, senza essere sconfitta, cessi di regnare e si ritragga impercettibilmente, senza minaccia di ribellione; come una palpebra socchiusa davanti alla nebbia che si ritira»[29]. Lo scavo interiore che l’esperienza dell’esilio ha portato a termine disegna i contorni ancora incerti di una radura che si apre davanti allo sguardo, a uno sguardo rinnovato e reso più puro dal contatto profondo con la propria finitezza: uno sguardo convertito, capace di cogliere per intero il profilo delle cose nella penombra della luce aurorale.

In questa radura, in questo orizzonte che si spalanca dalla congiunzione tra terra e cielo, la patria infine appare, si rivela davanti allo sguardo senza pretese dell’esiliato, che quella patria aveva ormai smesso di cercare, pur senza mai aver rinunciato alla speranza: «Ormai senza più sete, il suo sguardo non la intravede nel vuoto lasciato dall’ultimo raggio di sole, né nell’albero caduto che si ostina a rinverdire, né nel ciottolo che, quantunque luccichi un po’, tutti scansano senza guardarlo, né in nessun’altra parte. Quando ormai si sa senza di essa, senza alcuna sofferenza, quando ormai non si riceve più nulla, nulla dalla patria, allora essa gli appare»[30].

Ma proprio nel pieno di questa rivelazione della patria che l’esilio offre, ecco emergere la paradossalità e l’ambivalenza con cui Zambrano sfida il nostro bisogno di ancoraggio e di arrivo: se da un lato infatti è l’esilio a rendere possibile il ritrovamento della vera patria, dall’altro e quasi contemporaneamente la filosofa andalusa ci consegna al destino di una nuova, incessante dipartita da noi stessi e dalle nostre certezze: «Possiede, la patria vera, la virtù di creare l’esilio. E’ il suo segno inequivoco»[31]. Un’inversione spaesante, come a dire che la vera patria non è mai oggetto di una rivelazione intera e definitiva, ma è «sempre incipiente, sempre in atto di nascere», la vera patria è quella che mantiene ciascuno in cammino verso se stesso, ovvero verso la propria trascendenza.

Ciò che si profila dunque, a partire dal vuoto dell’esilio, è un viaggio inaugurale verso di sé, un nomadismo esistenziale, il patimento di un’inquietudine costitutiva che ci rende sempre stranieri a noi stessi, rimpatriati e nuovamente prossimi all’esilio, varco e soglia per ciò che di noi deve ancora venire. In quest’oscillare ci si perde e ci si ritrova, ci si eleva e ci si annulla, come onde del mare o come dune nella notte del deserto: «Un vento ci trasforma / nel silenzio / come fossimo / dune di sabbia. / Il vento del tempo / il tempo del perdono. / Avvolti / sospinti / sospirati / una soglia e poi un’altra / è il nostro abitare»[32].

 

Abbandono e libertà. Jean-Luc Nancy

C’è ancora una terza figura del vuoto su cui occorre soffermarsi, dopo la viam negationis del mistico e l’esperienza dell’esilio di María Zambrano: si tratta del vuoto metafisico, lo scenario filosofico che consegue allo smascheramento della metafisica e all’annuncio nietzscheano della morte di Dio, in cui l’uomo contemporaneo sperimenta un’orfanità e un abbandono radicali, che sfidano l’esistenza e il pensiero filosofico.

Questa sfida è stata raccolta da uno dei più originali pensatori viventi, la cui riflessione occupa un posto peculiare nello scenario entropico della filosofia contemporanea: Jean-Luc Nancy. L’originalità della sua proposta filosofica consiste, secondo Esposito, nella «modalità non tragica, ma neanche ‘debole’ o rassegnata», con cui egli interpreta la crisi della tradizione metafisica occidentale apertasi con Nietzsche: «L’esaurimento del senso non è da lui inteso come una catastrofe e neanche, precisamente, come una ‘perdita’ – dal momento che non succede a nessuna pienezza originaria – ma come l’evento, o l’avvento che abbiamo di fronte e che ci coinvolge come la nostra medesima condizione: quella appunto di essere abbandonati alla fine di ogni senso esterno a noi stessi. Di essere noi stessi – noi tutti e noi soli – il senso sottratto ad ogni origine, fine, orientamento»[33].

La morte di Dio pone il percorso filosofico dell’Occidente di fronte ad una «scansione», ad una «cesura», ad una «sincope»: siamo di fronte ad «un evento – sostiene Nancy – da cui non è possibile riprendersi senza uno choc così profondo da impedire ogni ritorno a ciò che l’ha preceduto»[34]. Nessuna ricostituzione del Senso (Essere, Verità, Dio, Soggetto) è più possibile, secondo il consueto schema per cui ad ogni fase di crisi del pensiero filosofico segue la ricerca e la nostalgia di un nuovo idolo metafisico. L’orizzonte è ormai irrimediabilmente sgombro, e per ciò stesso disponibile e aperto ad ogni evenemenzialità. Quella che si inaugura dopo Nietzsche è insomma «un’altra storia, aperta davanti a noi al di là del significato e il cui senso non potrà mai consistere in un ritorno del “senso”»[35]. L’Occidente ha raggiunto la sua fine e il suo fine, il pensiero filosofico è oggi esposto sul limite estremo, davanti alla necessità di pensare l’esposizione stessa, sottraendosi alla gabbia onto-teologica e accettando l’abbandono a questo vuoto spalancatosi in ogni direzione, uno spazio che tuttavia non è inerte ma respira, «alita su di noi», come diceva il folle nietzscheano[36].

Nelle riflessioni su questa necessità di pensare l’esposizione stessa, Nancy utilizza immagini e metafore sorprendentemente vicine al concetto di passività attiva e di pietà di Zambrano[37]. Pensare l’esposizione significa, per il pensatore francese, «accogliere lo stupore davanti a ciò che si presenta», e ciò consiste non tanto nel rimanere passivi (come se la passività fosse il polo opposto dell’attività), bensì nell’essere «passibili del senso […], capaci di riceverlo, suscettibili ad accoglierlo. Il pensiero non è un discorso, ma la disposizione e l’attività passibile dell’evento del senso: lascia venire questo evento […] E’ dunque un “fare”, e tuttavia non è una produzione […]. Si potrebbe dire che è qualcosa come “registrare”: fare entrare in un ordine di impronte una realtà eterogenea a quest’ordine e che non gli diventa omogenea»[38].

La figura che meglio riassume –  a livello ontologico ed esistenziale – il vuoto metafisico spalancato dalla morte di Dio è l’abbandono, un concetto a cui Nancy ha dedicato particolare attenzione, e che ha già conosciuto nella tradizione mistico-religiosa e filosofica varie declinazioni semantiche: revoca della volontà egoistica, distacco, remissività e docile accoglimento della volontà di Dio; consapevolezza e accettazione della necessità di ciò che accade; rinuncia e fuoriuscita dalla logica del volere, per accedere alla dimensione dell’attesa e della passività attiva che lascia aperto ciò di cui è in attesa, senza prefigurarlo e immobilizzarlo in un’aspettativa[39].

Nancy assume fino in fondo, radicalizzandoli, questi significati, per tracciare uno scenario ontologico in cui l’abbandono si annuncia come l’unico predicato dell’essere, facendo dell’essere, originariamente, un essere esposto, consegnato al suo stesso abbandono, un essere che patisce se stesso nell’abbandono e che, in questa passione di sé, si inaugura come fenditura, dischiusura e abbondanza di sensi. In questo orizzonte aperto dall’ontologia dell’essere abbandonato ecco l’uomo (ecce homo, dice Nancy), l’esser-ci la cui esistenza inizia e finisce con un abbandono, un’esistenza che oscilla indefinitamente sulla sua assenza di fondamento. Guarda qui l’uomo esposto nella sua presenza, «spogliato di tutto ciò che non è il suo esser-qui», localizzato e spaziato, l’uomo come pura arealità ontologica, «libera area su cui l’essere è gettato, abbandonato»[40].

E’ questa per Nancy la condizione dell’uomo contemporaneo, che sfida il pensiero e sulla quale occorre riflettere senza indugiare in tentazioni luttuose e malinconiche: «C’è, tra le donne e gli uomini di questo tempo, un modo piuttosto sovrano di perdere la bussola senza angoscia, e di camminare sulle acque nella quali il senso annega»[41]. L’esser-ci è consegnato al bando, alla legge che decreta il suo essere-qui-ora, esiliato, esposto, bandito nell’esistenza. Abbandonare, infatti, come vuole l’etimologia, significa “dare in bando” (il francese à ban donner), “mettere al bando”, dove la radice “bando” richiama l’antico proclama del signore feudale che rappresenta il segno tangibile, udibile, diffusivo della sua sovranità (in gotico bando si dice infatti bandwa, che vuol dire “segno”). Il bando è dunque un ordine, una prescrizione, un divieto che può talora imporre a qualcuno l’allontanamento, la proscrizione. Per questo Nancy può concludere sostenendo che «abbandonare significa rimettere, affidare o consegnare a un tale potere sovrano, e rimettere, affidare o consegnare al suo bando, cioè alla sua proclamazione, alla sua convocazione e alla sua sentenza. Si abbandona sempre a una legge». Ma, continua Nancy, «la sola legge dell’abbandono, come quella dell’amore, è di essere senza ritorno e senza ricorso»[42].

Esistere significa stare nell’irreparabilità dell’abbandono, sapendo che è in virtù di questo abbandono che l’esistenza può essere anche abbondanza, prodigalità e profusione di possibili. Il vuoto-abbandono dell’esser-ci, il suo rimanere esposto al venir meno del Senso, diventa la condizione affinché l’esistenza possa aprirsi all’altro da sé, sperimentarsi in tutti i sensi, «nascere incessantemente» a se stessa e inaugurarsi: «Se da un lato qualcosa si chiude, infatti, dall’altro qualcosa sboccia, anche se non ci accorgiamo di nulla e ci sentiamo in preda alla desolazione, anche se ci mancano le parole e il pensiero per questa fioritura […]: qualcosa sboccia, poiché l’evento della chiusura produce a sua volta storia e poiché ciò che esso porta a compimento, sul suo limite interno, corrisponde anche, sul limite esterno, a una inaugurazione»[43]. L’inaugurazione dell’esistenza abbandonata è il risvolto esterno del suo vuoto, del suo abbandono. Nancy ritiene che questa inaugurazione consista in due momenti cruciali, che si annunciano come sfide per il pensiero e per l’esistenza stessa.

Il primo momento è definito dal filosofo francese decisione d’esistenza, e prende le mosse dalla consapevolezza che, al di là di ogni fondamento essenzialistico e di ogni riferimento metafisico, l’esistenza è priva di un’essenza originaria, anzi è l’essenza di se stessa. L’assenza di fondamento dell’esistere è ciò per cui è possibile dire – ma questo dire è solo l’annuncio del compito futuro del pensiero filosofico, ciò che resta da pensare – il senso siamo noi: in questa breve affermazione, che ricorre in più punti delle sue riflessioni, Nancy sembra voler corrispondere al grido incandescente del folle nietzschiano, cogliendo e interpretando ciò che in quell’annuncio resta non detto, non esplicitato, ancora avviluppato nel bozzolo dell’inattuale annuncio della morte di Dio: «Noi non ‘abbiamo’ più senso perché siamo noi stessi il senso, interamente, senza riserve, infinitamente, senza altro senso al di fuori di “noi”»[44]. L’abbandono, la derelizione, la gettatezza, la finitudine, sono in questa affermazione non più rimossi e trascesi in un Senso metafisico, ma assunti interamente fino a costituire il cuore pulsante di un nuovo atteggiamento, di un “afferramento modificato” della propria condizione esistenziale, che si fa decisione di esistenza, la «spoglia fermezza» con cui l’essere abbandonato si offre e si concede, nella sua radicale finitezza, all’esistenza stessa, infondata e infondabile, consegnata al suo costitutivo vuoto di essenza ma, proprio per questo, liberata-per la possibilità di «esistere a fondo perduto».

E qui si innesta il secondo momento cruciale, che chiama in causa e riconsegna all’apertura del pensiero e dell’esistenza una sua dimensione fondamentale: l’esperienza della libertà. Occorre innanzitutto liberare la libertà dal viluppo di categorie, schemi, definizioni e valori con i quali la filosofia, il diritto, la politica hanno cercato di ammansirla e com-prenderla, quasi sempre all’interno di un’impostazione soggettivistica e volontaristica. La libertà non è un diritto, una qualità, una proprietà dell’individuo, qualcosa che l’individuo possiede per nascita, come voleva Rousseau. Non alla dimensione dell’avere attiene la libertà, ma a quella dell’essere, della pratica dell’esistenza abbandonata: «La libertà è tutto tranne che un’ “Idea”… La libertà è un fatto… è il fatto dell’esistenza come essenza di se stessa»[45].

Cosa vuol dire per Nancy “fare esperienza” della libertà? Già Heidegger aveva avuto modo di precisare che «fare esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e ci trasforma. Parlandosi di “fare” non si intende affatto che qui siamo noi, per iniziativa e opera nostra, a mettere in atto l’esperienza: “fare” significa qui provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso. Qualcosa “si fa”, avviene, accade»[46]. Nancy si ricollega a questa intuizione heideggeriana attraverso l’analisi etimologica della parola “esperienza, che deriva da due radici – una greca e una latina – tra loro intimamente connesse: peira ed experiri. Sappiamo che peira in greco vuol dire prova, tentativo arrischiato e spinto all’estremo, che si confronta con l’azzardo, col pericolo di ciò che sta sul e oltre il limite del consentito. L’esperienza implica sempre un essere direttamente alle prese con un’apertura del possibile (l’evento) di cui si è in balia, al quale ci si abbandona, che si patisce nella sua imprevedibilità.

Ma questo primo significato, che rimanda alla passibilità dell’esistenza sul limite di sé, deve essere integrato da un secondo, suggerito dal termine ex-periri: qui l’esperienza viene evocata nella sua dimensione dinamica di percorso, passaggio, un muovere da (ex) per dirigersi-verso un altrove che non è garantito, ma che si disegna con l’andare stesso. L’experiri è il «tentativo che giunge sino al limite, e resta sul limite, di fronte a un limite; ma in questo stare sul limite, l’esperienza è già sempre un essere andati oltre», senza «disporre di nulla di dato, di fondato»[47]. In questo senso, l’esperienza della libertà è assimilata ad un atto di pirateria e di fondazione, di sconfinamento e di «incisione inaugurale» dello spazio dell’esistenza. Il pirata è infatti colui che, senza averne diritto, si espone sfidando il limite, operando su questo un’effrazione, una violazione che è liberazione dal e del limite, che è fondazione e creazione di nuovo spazio, come nel movimento espansivo delle galassie.

L’esperienza della libertà è dunque sorpresa, libero evento e «libera disseminazione dell’esistenza», qualcosa che ricomincia ogni volta, «inizio sempre iniziante», nascita incessante dell’esistenza a se stessa e al proprio tempo. Libertà è ciò che eccede continuamente il limite dell’esistere, è testimonianza di una assoluta prodigalità dell’essere, di una generatività che si apre all’impensato e all’inedito. La libertà è per Nancy trascendenza nel finito, trans-immanenza: una trascendenza che non nega ma esalta la finitezza, che traduce il vuoto dell’essere abbandonato in una fioritura: l’inaugurazione dell’esistenza singolare annodata alle altre singolarità, nella libera partizione dell’essere-in-comune.

 

Due immagini, per finire…

Una pianta cespugliosa proveniente dalle regioni semi-desertiche, sprovvista di radici, apparentemente secca e priva di vita. In mancanza di acqua si chiude a riccio, abbracciando il proprio vuoto. Permane a lungo in uno stato di aridità pressoché assoluta, rotolando su se stessa, abbandonata al vento che la conduce. Poi, attraversata dalla pioggia o dall’umidità del terreno, si colora di verde muschio e lentamente si distende come radura bagnata, offrendosi piana alla luce. E’ la Rosa di Jericho, pianta del genere “anastatico”, dal greco anástasis che vuol dire “azione del sollevarsi, rinascita, risurrezione”.

Infine, le parole di Rilke, che nell’intimità del logos poetico raccolgono l’interezza di quanto si è tentato di dire:

«Vie della vita. All’improvviso sono i voli

che ci sollevano sulla faticosa terra;

mentre ancora piangiamo le nostre brocche infrante

ci sgorga la sorgente nella mano poco fa ancora vuota».

 

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Salvatore Piromalli  vive e lavora a Trento come operatore sociale nel settore penitenziario. Nel 2007 si è laureato in Filosofia con una tesi dal titolo: “Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di María Zambrano e Jean-Luc Nancy”, da cui è tratto questo contributo. Attualmente frequenta il dottorato di ricerca in Filosofia all’Università di Verona. Da diversi anni coordina un gruppo di ricerca e pratica filosofica, con seminari annuali su tematiche legate alla dimensione esistenziale (tempo, identità, memoria) e alle sfide del presente (tecnica, razzismo, totalitarismo).(E-mail: terramare61@gmail.com  ).

[1]              Maria Zambiano, Perché si scrive, in Ead., Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 23 e 26.

[2]              Rosella Prezzo, Pensare in un’altra luce. L’opera aperta di María Zambrano, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 55.

[3]              Cfr. Martin Heidegger, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, pp. 109-124, in particolare pp. 111-112; cfr. anche, più recentemente, Id., Colloqui su un sentiero di campagna (1944/45), Il melangolo, Genova 2007, pp. 111-115: «Il Saggio: “…allora la brocca, in quanto contenitore che in sé sta lì, consiste non già in ciò di cui esso è fatto, vale a dire la terracotta a cui è stata data forma, bensì nel suo vuoto”. L’erudito: “Questo niente della brocca è proprio ciò che la brocca è” ».

[4]              “Gioco” è qui inteso nel significato meno consueto di spazio che consente un movimento, un’oscillazione, uno scostamento limitato; “avere gioco”, come la vite o l’ingranaggio non del tutto inseriti e stabilizzati nella loro sede naturale.

[5]              “Io dunque sono figlio del Caos”, scriveva Luigi Pirandello in un frammento autobiografico, per identificare il luogo fisico e simbolico della propria nascita, che è anche il luogo dove oggi riposa: la “Villa del Caos” di Agrigento.

[6]              Questo significato originario del termine è attestato da Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 2005, pp. 294 e 463, che si rifà direttamente a Esiodo, Teogonia, 116, Rizzoli, Milano 1994. Nel commento e note al testo esiodeo, il curatore Graziano Arrighetti scrive: «Che cosa Esiodo intendesse con Caos è ancora un grosso problema. La parola sembra indubbiamente collegata col verbo “aprirsi”, “spalancarsi”, per cui viene facile pensare che Esiodo designasse con Caos il luogo dove le cose vengono a sussistere», p. 138.

[7]              Il termine embrione, etimologicamente, indica “ciò che germoglia, fiorisce e cresce dentro”, da en- ‘dentro’ e bryein ‘germogliare, fiorire’.

[8]              Martin Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 468.

[9]              Martin Heidegger, Nietzsche, cit., p. 304.

[10]            Cfr. Massimo Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, p. 418. L’autore ricorda che il termine ‘mistico’ deriva da una radice che indica il tempo notturno, i riti misterici che evitavano la luce del giorno: «Mýstes è colui che è tenuto a serrare le labbra e rendere impenetrabile (come la notte più fonda) il segreto cui ha partecipato […] Egli tace di ciò che gli si mostra, nella ‘notte’ del rito, con perfetta evidenza […] E’ necessario abbandonare ogni immagine, farsi-notte, per pervenire alla teoria che conclude-e-inizia».

[11]            Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 372.

[12]            Massimo Cacciari, Della cosa ultima, cit., p. 423.

[13]            Marco Vannini, Il fondo dell’anima, il fondo di Dio: Meister Eckhart, relazione tenuta alla Settimana di mistica cristiana organizzata dal Convento di Camaldoli, 23-29 agosto 1992, ascoltabile su supporto audio.

[14]            I versi sono tratti dalla strofa VII del Poema di Meister Eckhart.

[15]            G. Jarczyk, P.J. Labarrière, L’impronta del deserto. L’a-teismo mistico di Meister Eckhart, Guerini e Associati, Napoli 2000, p. 9 [corsivo mio].

[16]            Maria Zambrano, San Giovanni della Croce. Dalla notte oscura alla più chiara mistica, in Ead., La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 116 [corsivo mio].

[17]            Maria Zambrano,  Lettera sull’esilio, in «aut aut», n. 279, maggio-giugno 1997, p. 5.

[18]            Maria Zambrano,  I beati, Feltrinelli, Milano 1992, p. 36. Il capitolo dedicato alla condizione dell’esiliato è alle pp. 29-45.

[19]            Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, p. 73.

[20]            Maria Zambrano, I beati, cit., pp. 33-34.

[21]            Ivi, pp. 31 e 37.

[22]            Maria Zambrano, Lettera sull’esilio, in «aut aut», cit., p. 11.

[23]            Emil Cioran, La caduta nel tempo, Adelphi, Milano 1995, p. 124.

[24]            Maria Zambrano,  Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 37-39 [corsivo mio]. E’ significativo che Zambrano utilizzi qui il termine “caduta”, analogamente alla “caduta nel tempo” e alla “caduta dal tempo” di cui parla E. Cioran, La caduta nel tempo, cit.

[25]            Maria Zambrano,  Lettera sull’esilio, in «aut aut», cit., p. 8.

[26]            Maria Zambrano,  Un capitolo della parola. L’idiota, in Ead., Spagna. Pensiero, poesia e una città, Città Aperta, Troina 2004, p. 36.

[27]            Edmond Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE, Milano 2001, p. 11.

[28]            Wanda Tommasi La scrittura del deserto, Liguori, Napoli 2004, p. 76.

[29]            Maria Zambrano, Dell’aurora, Marietti, Genova 2000, p 45.

[30]            Maria Zambrano,  I beati, cit., pp. 43-44.

[31]            Ivi, p. 44.

[32]            Patrizia Lorenzi, Coniugazione del silenzio, Book editore, Castel Maggiore 1996, p. 31.

[33]            Roberto Esposito, Libertà in comune, saggio introduttivo a Jean-Luc Nancy, L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino 2000, p. VII.

[34]            Jean-Luc Nancy, L’oblio della filosofia, Lanfranchi, Milano 1999, p. 69.

[35]            Ibidem.

[36]            Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 2003, § 125, p. 163.

[37]            «La Pietà è il saper trattare adeguatamente con l’altro […] quando parliamo di pietà ci riferiamo al rapporto con qualcosa o qualcuno che non sta sul nostro stesso piano vitale […] una realtà appartenente a una regione o piano dell’essere diverso da quello in cui siamo noi esseri umani, oppure una realtà che confina o sta oltre i confini dell’essere», Maria Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 185.

[38]            Jean-Luc Nancy,  L’oblio della filosofia, cit., pp. 108 e 111 [corsivo mio]. Al di là delle differenze di linguaggio, è possibile individuare molti significativi  punti di tangenza (terminologica e concettuale) tra il pensiero di Zambrano e quello di Nancy: in questo articolo sarà possibile indicarne solo alcuni.

[39]            Per una ricognizione sintetica dell’uso del termine abbandono nella tradizione occidentale, si rimanda ad A. Fabris, Note al testo di Martin Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 2006, in particolare cfr. nota n. 3, p. 78.

[40]            Jean-Luc Nancy,  L’essere abbandonato, Quodlibet, Macerata 1995, p. 22. L’abbandono dell’esser-ci presenta significative similitudini con l’esperienza dell’esilio di Zambrano.

[41]            Jean-Luc Nancy, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997, p. 11.

[42]            Jean-Luc Nancy, L’essere abbandonato, cit., pp. 16 e 22.

[43]            Jean-Luc Nancy, L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino 2000, pp. 8-9.

[44]            Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, p. 5.

[45]            Jean-Luc Nancy,  L’esperienza della libertà, cit., p. 4.

[46]            Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1993, p. 127.

[47]            Jean-Luc Nancy,  L’esperienza della libertà, cit., pp. 88-89.