diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Pensiero della differenza

Il femminismo estatico Lettura di “Ecografia di una potenzialità”

La ferita è, come questo testo, una questione personale, nel tempo dell’impersonalità di massa.[1]     

 

 

Ecografia oscena

 

La suddetta questione personale si delinea nel testo Ecografia di una potenzialità, traduzione italiana[2] di Échographie d’une puissance, scritto che fa parte dei materiali contenuti nel secondo numero del quaderno di Tiqqun[3], il cosiddetto “collettivo” con base a Parigi e diramazioni sparse in Europa e fuori Europa.

Attraverso un percorso fra le pratiche del Femminismo italiano degli anni ’60  e ’70, dal Demau, a Carla Lonzi e Rivolta femminile, a Via Dogana e Non credere di avere dei diritti[4] [5] (citandone solo alcune), chi scrive si ripropone di fare un’ “anarcheologia” di quello che nel testo viene chiamato “femminismo estatico”.

Anarcheologia[6] perché non si tratterebbe di ritracciare una sorta di storia “monumentale” del femminismo italiano, ma di creare una benjaminiana costellazione di frammenti che possano porre in questione la menzogna del continuum[7] della storia  ufficiale; di quello che sul femminismo e sulla relazione fra i sessi questa storia ha deciso, chirurgicamente, di fare diventare “figura”, di far rientrare nell’ordine paralizzante del discorso del potere e nell’occhio ad alta definizione del regime mediatico-spettacolare.

 

Secondo le parole di Elvio Fachinelli, riportate nell’introduzione di Ecografia di una potenzialità, il termine estatico rimanderebbe a: “Estasi come coscienza esplosa, saltata. Non continuità con ciò che la precede e la segue”; e ancora: “L’estasi non è soltanto nelle sue epifanie riconoscibili; è anche nella sua irradiazione al resto”[8].

 

Tiqqun sceglie di scrivere un testo sul possibile che l’irradiazione di questi frammenti esplosi può mettere in gioco nelle nostre vite, decide di raccogliere e riaprire questi frammenti per svelarne la non conclusa potenzialità politica.

 

Ecografia di una potenzialità è un testo scomodo e difficile, perché interroga la malattia presente e il controllo biopolitico dei corpi, l’appiattimento del tempo umano dimentico di affetti e sentimenti e schiacciato da una rincorsa infinita per giocare il proprio “valore” sul mercato del lavoro, perché interroga l’indicibile e l’osceno del nostro tempo.

L’uso stesso del termine “ecografia” vuole rimandare all’esame clinico che, sotto l’egida del sapere scientifico asservito alla biopolitica, si insinua in uno spazio segreto, sottratto alla visibilità[9]. “Ecografia” quindi come strumento che si arroga il diritto all’oscenità, essendo l’osceno, “ciò che non deve apparire sulla scena, quanto deve restare nascosto perché il rapporto che intrattiene con la visibilità ufficiale è un rapporto di negazione ed esorcismo, di complicità e congiura”.[10]

Questa “ecografia” si vuole quindi non terapeutica, ma del controllo biopolitico dei corpi non vuole tacere. Chi scrive questo testo sceglie di usare il termine intrusivo di “ecografia” perché, attraverso di essa, si vuole scrutare una potenzialità che non può essere racchiusa in alcun parametro di conformità, che sia identitario, che sia di legittimazione da parte dell’ordine statuale o della legge da esso costituita.

 

L’ipotesi mista o il come della presenza

 

Ecografia di una potenzialità nomina, discute e cerca modalità per andare al di là della questione: “cos’è che fa di qualcuno un “uomo” o una “donna”? ”[11].

Bisogna tenere presente che il punto di vista di Tiqqun sul femminismo estatico non parte dalla prospettiva della differenza sessuale; ed è, d’altro canto, lontanissimo dal ricreare un presupposto egualitarista[12]. L’azione politica secondo Tiqqun non può sprigionarsi da una separazione dei sessi, ma da un’ “ipotesi mista”, da un piano di consistenza che sia condiviso fra uomini e donne. “Ogni politica che non contamina che un solo sesso non contamina per niente”.[13]

In questo senso si dovrebbe dire che il punto di vista si fa disseminato[14], sostenendo tanto l’impossibilità di un’uguaglianza fra uomini e donne, quanto l’impossibilità di un’ uguaglianza fra uomo e uomo e donna e donna. Come dire: esistono differenze etiche irriducibili.

Se, secondo un approccio legato al mero dato anatomico, un corpo di donna è distinto da un corpo d’uomo, per Tiqqun l’attenzione va focalizzata non tanto su questa differenza anatomica come causa di una dualistica e generalizzata forma di soggettivazione (gli “uomini” e le “donne”), ma sulle modalità attraverso le quali questi corpi sono “abitati”[15]. Perché è solo a partire da queste modalità che si determinano identità sessuali e desideri, perché è questo essere abitati dei nostri corpi di donne e di uomini (di vecchi e bambini), che possiamo interrogare per svelare frustrazioni e impossibilità, come d’altro canto, per scovare e dare respiro a nuove potenzialità – di desiderio come di azione politica.

 

La forza e la complessità del testo deriva proprio dal suo essere una costellazione, dal non pretendere una sistematicità o coerenza (né formale, né contenutistica), ma dal riuscire a dare esempi di soggettivazione “carnale” di questa storia non chiusa, di questa domanda (cos’è che fa di qualcuno un “uomo” o una “donna”) che si insinua come un cuneo nella sostanza addomesticata e irrigidita (a volte), o eterea e rarefatta (altre volte), della nostra consapevolezza sulla questione suddetta. E tanto più forte si insinua tanto quanto incontra uno strato di “irrisolto” in noi che fa resistenza, che stride e lotta per un senso da scovare, o si appaga, sintomaticamente, del “già detto”, si rifugia e ripara in un “mutismo” autistico e inagguantabile .

 

Vorrei per questo riuscire a riportare qui la vita che ho trovato in questo testo, ma non ho scelto di farlo ricalcando le “intensità incarnate” dei suoi esempi.

Basti dire che questi esempi, questi frammenti, raccontano del sistema di cattura che il patriarcato prima, e il biopotere e lo spettacolo poi, hanno creato per dare “misura” al corpo prolifico, al corpo seduttivo della donna, per trattenere e incanalare il suo desiderio debordante e pauroso. Questo testo racconta di come gli uomini, nelle loro pratiche e nei loro discorsi, abbiano sempre potuto riferirsi ad un ordine simbolico che gli garantisse il potere di fare appello ad una trascendenza su misura, mentre le donne venivano catturate in una corporeità tanto più indicibile quanto più esposta e fatta “valore di scambio” all’interno di un’economia libidinale “mercantile”.

Andare ad interrogare questa indicibilità, cercare di aprire degli orizzonti di senso per poter dire ciò che per così tanto tempo era stato zittito, forzato al silenzio, è stata una delle azioni più delicate affrontate da una parte del femminismo italiano di quegli anni. Il sistema del discorso patriarcale trovava in effetti legittimo che si potesse fare parola della cosiddetta “questione femminile”, ma solo alla disarmante condizione che si creasse per la “donna” una sorta di liturgia da vittima dell’oppressione.

Le donne avevano paura di esprimere il loro desiderio e se lo facevano lo facevano all’interno di un meccanismo di risentimento.[16] Questa sorta di “doppio gioco” messo in atto dalla politica ufficiale nei confronti delle esistenze femminili aveva finito per sviare letteralmente dal problema centrale: le donne non parlavano perché il loro stesso desiderio veniva negato precisamente dall’autorità. In effetti: “i corpi delle donne, loro, dicono delle cose che le bocche non osano ripetere. I corpi delle donne sentono delle cose che le orecchie rifiuterebbero di intendere. Quello che si dice alle donne non conta niente. Quello che conta è cosa viene loro fatto, e ciò che loro fanno a se stesse”.[17] L’invisibilità delle donne a sé stesse, il meccanismo autoriproducente del pudore, sono state tutte tecniche che il potere patriarcale di allora ha usato per mantenere l’ uniformità del proprio sistema.

Dal ruolo della “sottomessa” donna di casa le donne sono state poi portate nuovamente  a vestire l’obbligo di essere “le rotelle post-umane della macchina desiderante capitalista”[18], con la loro “differenza”, con la loro “innata” capacità relazionale, che è divenuta, nel frattempo, il principale utile di gestione del biopotere.

 

Fra infanticide, simulatrici e avvocate; fra gay e lesbiche che chiedono la legittimazione pacsata del loro legame amoroso ad un’autorità statuale sempre più intrappolata nel suo mastodontico e cannibalico apparato burocratico e nella roulette russa del suo monopolio della violenza; fra l’odio e la paura misogina che, con la corsa alla “uguaglianza” e alla legittimazione televisiva e sponsorizzata delle lotte femministe, ha prodotto il suo risvolto misandrico, tanto più corrosivo e istupidito, proprio perché reclamato come “traguardo di diritto” o come giusto riscatto; Ecografia di una potenzialità ci pone davanti in maniera sfacciata e dolorosa l’incrinatura, la “ferita presente” inscritta nel vivere contemporaneo.

 

Pratica, autonomia e estasi

 

Ma perché donare l’appellativo di estatico ad una parte del femminismo italiano degli anni ’60 e ’70? Quali frammenti esplosi possono irradiare di senso la domanda di agire politico che percepiamo nel “qui ed ora”, nell’adesso delle contraddizioni vissute giorno per giorno?

Il carattere estatico del movimento italiano si trova nella circostanza che queste pratiche[19] si siano staccate dal miserabilismo e dalle rivendicazione di una parità di diritti, non abbiano proposto modelli di liberazione, rigettando sia il modello della rappresentazione politica ufficiale che il modello della rappresentazione identitaria. “Cos’è importante nel femminismo estatico non sono le donne (né gli uomini d’altronde) ma un desiderio di autonomia che ha avuto l’impudenza di alzarsi contro tutte le convenzioni sociali, economiche, familiari e psicologiche”[20]. Desiderio d’autonomia da vedersi allora come elemento fondamentale del femminismo estatico, proprio per il fatto che ha saputo condurre all’emergenza di pratiche capaci di lasciarsi dietro la separazione metafisica fra teoria e pratica per privilegiare, invece, dei divenire-reali.

Vengono citate la pratica del partire da sé e la nascita, nel 1970, dei primi gruppi di autocoscienza dove le donne guadagnano: “un certo rapporto di intimità con la sfera del sensibile, un vai-e-vieni fra concretezza e astrazione che screpolava la superficie liscia dei discorsi di legittimazione del potere”[21]. Vengono ricordate la creazione delle librerie delle donne e l’apertura centri di documentazione e biblioteche.

L’incoscienza della sottomissione passa, attraverso i reciproci racconti e narrazioni, a portare in superficie paure e contraddizioni: dalla “madre mortifera”[22] si passa alla “madre autonoma” e alla ricerca di modalità soggettive e nuove per poter dire il desiderio femminile senza timori.

La pratica dell’autocoscienza, insieme alla ricerca di un’autonomia di discorso, determina anche lo svelarsi della paura della conflittualità politica fra donne ed è questo uno dei punti dove il potenziale estatico di una parte del femminismo italiano inizia a disperdersi, perché, secondo Tiqqun, questa paura porta ad una  conseguente assunzione della disparità fra donne: la “madre simbolica”[23].

 

C’è una prospettiva che Tiqqun individua all’interno del femminismo estatico e che mi sembra racchiuda un notevole potenziale per un approccio qualitativamente diverso al sistema della rappresentazione istituzionale: la messa in discussione dei meccanismi di soggettivazione che producono identità nette e definite.

La questione è qui: se all’interno delle mediazioni societarie esistono processi di costituzione (con un corollario indefinito di luoghi prestabiliti all’assoggettamento) che ci richiedono costantemente di fare rientrare i nostri corpi all’interno di categorie quali “uomo”, “donna”, “casalinga”, “professore” e così via, e se è ormai evidente come questi processi categoriali risultino troppo sterili per dare spazio e respiro alla nostra percezione su noi stessi (per poter dire a noi stesse e noi stessi che in ogni momento siamo molto di più che una “donna”, un “uomo”, una “casalinga”, un “professore” e così via), è necessario allora spostare lo sguardo, interrogare la sterilità e l’arsura, trovare strategie per decostruire, “scartare”, questi stessi meccanismi identitari; è necessario per di più imparare a vedere e nominare quali luoghi richiedano e provochino meccanismi di identificazione e assoggettamento.

 

Ecco allora che il potenziale estatico del femminismo italiano diviene evidente: le pratiche politiche di quegli anni avevano messo in atto un vero e proprio “processo di demolizione”[24]; più da vicino, una parte del femminismo italiano, rifiutando di affidarsi al discorso della politica ufficiale[25], è riuscito ad intravedere al di là di essa ciò contro cui lottare: il “nemico interiore”.

Rifiutare di ricalcare il discorso della politica ufficiale significava proporre una linea di conflitto per sottrazione. Rifiutare di conformarsi al modello della vittima o della manager agguerrita significava allora entrare dentro se stesse e rompere, anche in maniera dolorosa, la corda dell’osceno. Interrompere la commistione e evadere dalla cattura del linguaggio comune. Donare forza al non detto, rielaborare i colpi che ci hanno costretto al silenzio, donare aria e riposo a ciò che non trova fuori di sé parole per dirsi perché la sostanza di cui è fatto appartiene alla inscritta conoscenza dei corpi e delle anime. Cercare e creare processi e pratiche che trovassero voce nella risonanza con la sostanza espressiva che è sola cifra della carne.

Le donne che non credevano di avere dei diritti avevano allora compreso che la forza da scovare stava precisamente all’interno di ciò che era stato ammutolito. La forza da scovare si trovava precisamente all’interno del silenzio. Lia Cigarini scrive: “Mi sono convinta che la donna muta è l’obiezione più feconda alla nostra politica. La “non politica” scava dei tunnel che noi non dobbiamo riempire di terra”.[26]

Parafrasando ancora le parole di Cigarini e Muraro[27] sulla questione, non trovare alcun criterio per separare la politica della cultura, dell’amore, del lavoro, il rifiutare una politica che parta dalla classificazione e dall’individuazione, significa deterritorializzare l’agorà, spostare l’accento su modalità impreviste di fare politica.

 

L’interruzione del servizio identitario

 

Nel testo viene riportata la figura di Bartebly[28], la quale risuona fortemente con queste posizioni del femminismo estatico. Bartebly, impiegato in uno studio contabile, ad un certo punto decide di non separare più il lavoro dalla cosiddetta “vita privata”. Bartebly decide di non preferire. Questa non-preferenza arriva a destabilizzare profondamente il suo capo ufficio, proprio perché lo sciopero umano di Bartebly spossessa il suo superiore e i suoi colleghi di ogni possibile presa gerarchica.

Ora che viviamo una estrema indifferenziazione fra tempo del lavoro e tempo della vita, la posizione di Bartebly appare singolarmente efficace, ed è qui che si può giocare una lotta per la rottura delle identità predefinite: “Non credendo più a quello che dicono di te, opponendo l’intensità politica della tua esistenza alle mondanità della riconoscenza, non volendo potere, soprattutto – perché il potere mutila, il potere esige, il potere zittisce, e qualcun’ altro parlerà al tuo posto, parlerà in te senza che tu te ne accorga -, è così che si va in fuga, che si pratica lo sciopero umano”[29].

 

Ma è chiaro che la messa in pratica di una interruzione dei meccanismi di identificazione, la messa in pratica di quello che Tiqqun propone come sciopero umano può comportare delle sottili e pericolose linee di indefinizione.

Cosa significa assumere su se stessi questa interruzione, questa rottura? Cosa vuol dire non accettare più la uniformante dinamica del riconoscimento sociale? Cosa comporta rompere i legami che dentro noi stesse e noi stessi questa rappresentazione produce come confortevoli figure (a volte) o come fantasmi da rincorsa al successo e ad una gratificazione sempre, sempre spostata un po’ più in là dalla mercificazione materiale e affettiva contemporanea?

Se il femminismo estatico italiano dei anni ‘60 e ‘70 è stato estatico, è perché ha saputo interrompere il servizio identitario. Come riattivare allora questo frammento esploso nel qui ed ora dell’età globale, nel mondo contemporaneo all’interno del quale risulta sempre più difficile vedere dove passa, nella concretezza delle piccole scelte della vita di ogni giorno, la linea di fronte politica? Detto altrimenti: come rielaborare politicamente tutto ciò che donava consistenza alle lotte comuni passate e che è andato inesorabilmente sfumandosi nell’aria, per diventare la condizione della nostra asfissia individuale?

 

Il fatto è che ormai, la linea di fronte della guerra in corso si è interiorizzata.

 

Si traccia una trincea dentro di ognuno. Si intuisce che la nostra esistenza tende a diventare un campo di battaglia in cui nevrosi, fobie, somatizzazioni, depressioni e angosce suonano, tristemente, come altrettante ritirate. Privatizzazione mortifera della esistenza che prende un doppio profilo: verso l’interno, dove contribuisce alla proliferazione di modi di narrazione di sé promossi dall’ideologia della comunicazione e dal trionfo del terapeutico. L’illusione di poter fare “brillare” innumerevoli avventure interiori produce una paradossale banalizzazione dell’esistenza. [30]

Verso l’esterno: l’interiorizzazione della linea di fronte si esplica attraverso un regime di esposizione della differenza, alla ovvia condizione che queste differenze non facciano mai realmente “la” differenza. Basti qui pensare a come fino a pochi decenni fa fosse impossibile un discorso aperto sull’omosessualità maschile e femminile e a come ora, invece, essa sia divenuta un terreno simbolico letteralmente investito dal nuovo insinuante avamposto umanistico-moralista del potere politico, ecclesiastico, spettacolare.

La linea della differenza sessuale perde di pertinenza proprio perché la stessa differenza sessuale è stata catturata dal discorso spettacolare e biopolitico. Esemplare è la figura del desiderabile maschile contemporaneo: il metrosessuale, e la cosiddetta “elasticità” del suo genere. [31]

Per questa ragione: “la voce del femminismo estatico non è dunque una voce di donne.”[32]

 

Contro la privatizzazione dell’esistenza e/o il liberalismo esistenziale trionfante, la necessità è ora quella di un approccio nuovo all’esperienza del comune – la questione della comunità è ormai inseparabile da quella estatica. Lo Spettacolo e il Biopotere ci isolano nella nostra differenza, sessuale o altra.

Attraverso l’ipotesi mista, si vuole invece pensare il genere sulla linea della metamorfosi; fare corpo con essa per poter meglio schivare la gestione imperiale degli attributi. Contro il corpo individuato del biopotere – e si sa che il corpo femminile è il corpo biopolitico per eccellenza – contro la miseria dell’educazione sentimentale della società mercantile, l’ipotesi mista oppone lo spazio paradossale della forma-di-vita e le sue inclinazione intime. “Lo sciopero umano non esige […] una rivoluzione sessule, ma una rivoluzione psicosomatica.”[33]

 

La politicizzazione dell’esistenza

 

Ma dove è allora il possibile adesso? Come dare consistenza all’estatico?

Per molto tempo un certo tipo di femminismo e movimenti contestatari come quello operaio hanno incontrato il lusso di avere un nemico esteriore ed identificabile.

 

Ora: è proprio a forza di concepire questo nemico come qualcuno che ci “affronta”, che “ci si pone davanti”, invece di considerarlo come un rapporto che ci lega, che ci fa rinchiudere in una muta lotta interiore; è proprio a causa di questo assuefamento contestatario su forme politiche del secolo passato che le nostre capacità estatiche si sono irrigidite. Ma allora: perché nel testo Tiqqun forza la mano con termini quali macchina da guerra, perché pesa così tanto la necessità del conflitto, della lotta partigiana, nelle loro parole? Tanti si sentiranno di domandare: è ancora adeguata la grammatica della lotta?

 

Forse aiuta porsi la domanda opposta: che cos’è la neutralità? Non è solo ciò che dimentica del nostro essere sessuati, ma è di più ciò che si dimentica della capacità trasformativa che portiamo in noi, che è anche il potenziale per dare forza politica al nostro agire quotidiano, alle nostre pratiche, alle nostre relazioni.

 

“Dal momento che non ci sono barricate proprio più per niente”[34] interrogarsi su ciò che siamo diventa una necessità politica immediata.

Il regno delle identità mi spezza e mi obbliga a resistere in persona – il che significa anche “resistere in nessuno”. Perché lottare nel nome proprio, lottare in proprio nome, vuol dire anche evitare di parlare al proprio “io”, non viverne le costrizioni.

Al contrario: lotto per fare mia la forza dell’anonimato, perché desidero prolungare in me la potenza di un noi-altri/e che mi permetta di uscire da me stessa/o. Mi stacco da me perché desidero essere attraversato/a da questa potenza. Desidero attraversarla ed esserne trasformata/o. Essere tramite nell’esprimere la potenzialità di ciò che rimaneva tacito. E che ora si rivela nella relazione.

“[…]la scommessa rivoluzionaria è che l’indecenza essenziale di ogni desiderio di vita finirà per avere il sopravvento sulla morbidezza della sua rimozione, che le identità si elaboreranno in modo relazionale e contingente e non si stabiliranno a partire da una conformità sociale condivisa”[35].

Come dire: più sono anonima/o, più sono presente.

 

La grave mancanza delle nostre vite contemporanee è una politicizzazione dell’esistenza che prenda in carico la cura delle forme-di-vita, che si faccia sempre più sensibile a tutto ciò che dissolve i mondi comuni. Se c’è quindi necessità di aprire conflitti, se è necessario politicizzare la nostra esistenza, è perché non c’è altro modo di rivelare questa linea di fronte interiore che ci divora, se non di metterla in comune.

Ciò che resta altrimenti è la condanna all’impotenza di una vita in perpetua analisi di sé. La lotta è, in fondo, una lotta contro la paura di vivere.

 

***

 

In a field

I am the absence of field.

 

This is always the case.

 

Where I am

I am what is missing.

 

When I walk

I part the air

And always

The air moves in

To fill the space

Where my body’s been.

 

We all have reasons

For moving.

I move

To keep things whole.                                         (Marc Strand, Keeping Things Whole)

 

 

 

[1]              Ecografia di una potenzialità, p. 19.

[2]              La traduzione e l’introduzione italiana di questo testo è di Paola Guazzo. Ecografia di una potenzialità è apparso nel Gennaio 2005 scaricabile in formato pdf sul sito del gruppo bolognese Antagonismo gay alla pagina http://isole.ecn.org/agaybologna/Tiqqun.pdf. Il testo si trova anche sul sito delle leribellule di Roma   (http://leribellule.noblogs.org/post/2007/05/11/tiqqun-ecografia-di-una-potenzialit).eco)))))

[3]              Parigi, ottobre, 2001.

“Tiqqun” è un termine dell’ebraico cabalistico di Isaac Luria (1534-1572), detto “Ha-Ari”o “Il sacro leone”, e significa “riparazione”. Di “Tiqqun” sono stati tradotti in Italia: Elementi per una teoria della Jeune-Fille (Bollati Boringhieri, 2003), La comunità terribile (Derive & Approdi, 2003), Teoria del Bloom (Bollati Boringhieri, 2004).

[4]              Libreria delle donne di Milano, 1987.

[5]              Introduzione di Ecografia di una potenzialità, p.1.

[6]              Variazione sul termine “archeologia”. Il riferimento è qui diretto a quella dimensione genealogica di rapporto con la storia indicato da Foucault in testi come La volontà di sapere, Storia della sessualità, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, L’ordine del discorso. Dimensione genealogica che va ad interrogare e svelare la genesi storica dei dispositivi e delle pratiche di assoggettamento-soggettivazione messe in atto dai poteri ufficiali.

[7]              Cito dal testo: “Il continuum della storia non esiste: è solo la chiacchera dei dominatori sul silenzio degli spossessati, il concatenarsi sistematico dei récits virili materialisti o storicisti, buoni mariti o libertini, non importa. Soprattutto oggi che la Storia (vedova del soggetto classico: il maschio valoroso, l’eroe o l’erudito, capace di farla o di trasmetterla) balbetta, e che la morale della favola non è più edificante per nessuno. La storia non è finita; delle esperienze cercano e trovano, in questo momento preciso, fra le pieghe del tempo, le parole per dirsi e per trasmettersi, ma tutto questo è divenuto un conato, una pratica di resistenza”. Ecografia di una potenzialità, p.9.

[8]              La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989. p. 31 e 33.

[9]              Ecografia di una potenzialità, p.4.

[10]            Ibidem, p.4.

[11]            Ibidem, p.17.

[12]            Presupposto che viene anzi ampiamente criticato lungo tutto il perimetro del testo anche con l’aiuto delle prese di consapevolezza raggiunte dal femminismo estatico.

[13]            Ibidem, p.12.

[14]            Chi scrive il testo sceglie l’anonimato e, per sottolineare come il soggetto classico, chiuso, obiettivo della tradizione filosofica occidentale (patriarcale) non esista più, precisa perentoriamente: “Io non sono uno, non sono una, io sono una pluralità che dice “io”. Un “io” contro la finzione del piccolo me che si traveste da universale e che prende la sua viltà per il diritto a cancellare in nome di altri tutto ciò che lo contraddice”. Ibidem, p.4 .

[15]            Tiqqun riprende qui il concetto di Foucault secondo il quale il potere diventa biopotere nel momento in cui dà forma alle vite che gestisce. Gestione che passa attraverso la presa sui corpi e l’azione sui desideri.

[16]            Meccanismo di risentimento che ha in effetti incanalato parte del femminismo italiano verso una fuorviante “caccia” alla parità dei diritti, ricalcando quindi il sistema della politica ufficiale e producendo la perdita del potenziale estatico messo in gioco dalle prese di coscienza delle donne agli inizi del movimento di contestazione.

[17]            Ibidem, p.8.

[18]            Ibidem, p.5.

[19]            La stessa circostanza che queste prese di consapevolezza delle donne acquisissero forma all’interno ma soprattutto attraverso pratiche segnala come: “La parentela fra la pratica e la politica sarebbe dunque più stretta di quella fra la politica e il discorso”. Ibidem, p.18.

[20]            Ibidem, p.18.

[21]            Ibidem, p.11.

[22]            Figura della “madre mortifera” che “nutre ma divora, immagine sia della devozione verso l’altra che dell’eteronomia, di quella che rinuncia alla violenza ma l’ama nell’uomo per procura e contro se stessa”. Ibidem, p.11.

[23]            Secondo “Tiqqun” la pratica dell’ affidarsi ad una “madre simbolica”, che si fa mediatrice e riassume e reincarna il differenziale di potere in un’autorità legittima, segnalerebbe la fine della fase estatica del femminismo italiano, proprio perché riprenderebbe un dispositivo, quello dell’autorità, che sarebbe correlato al sistema di potere.

A questo proposito mi sembra utile accostare qui lo sviluppo che il concetto di autorità ha avuto all’interno dell’orizzonte filosofico della differenza sessuale. Lo faccio citando le parole che Luisa Muraro, riprendendo una distinzione di Diana Sartori sulla questione, scrive a riguardo: “Di che cosa si tratta quando si tratta dell’autorità? Non cerco una definizione ma un significato e so che devo cercarlo vicino al potere, con il quale l’autorità viene spesso confusa. Partiamo allora dal significato che si esprime con la frequente confusione fra autorità e potere. La prima cosa da notare è che la confusione non è totale, il che ci permette di porre la questione della sua origine: da dove viene che noi tendiamo così facilmente a confondere il significato di due parole che, se ci riflettiamo, non corrispondono a una stessa esperienza? La risposta sembra ovvia: per chi vive in Occidente (che vuol dire, ormai, per gran parte del mondo), la confusione è una realtà, la realtà di una commistione fra il potere di dare ordini, comandare, decidere per gli altri, e la capacità di fare ordine, capire, decidere quanto a sé, affermare, giudicare”, (da Autorità senza monumenti, testo presente all’interno del primo numero di questa stessa rivista alla sezione “Pratica filosofica”. Pubblicato anche in traduzione spagnola su “Duoda Revista D’Estudis Feministes”, n 7, 1994, pp.86-100).

Secondo Muraro la confusione fra autorità e potere evidenzierebbe lo smarrirsi di un accordo fra sé e sé (e fra sé e il mondo) a proposito di ciò che si vorrebbe essere o fare. In altre parole esisterebbe un forma di trascendenza dell’autorità rispetto al potere: il vedere l’autorità come fautrice di ordine simbolico.

In questo senso, la filosofia della differenza sessuale, ha intravisto all’interno della relazione fra donne, e all’interno della relazione madre-figlio per quanto riguarda l’apprendimento della lingua, una necessità della mediazione: “[…] nella quale necessità vedo riposare il senso ultimo dell’autorità, in mancanza della quale quello che si esercita è un potere”. Se traduco allora questa modalità diversa di vedere l’autorità come capacità di prendere parola e nominare fiduciosamente la nostra relazione con noi stesse e noi stessi e con il mondo, ancora più convincenti mi appaiono queste parole: “Il senso dell’autorità -che originariamente non è autorità propria o altrui ma qualità relazionale -sarebbe una competenza simbolica, quella di commisurarsi con il reale, in uno scambio di senso e di valore che arricchisce qualitativamente la nostra esperienza”. Questo “arricchimento” (nel testo Muraro ricorda come la radice di autorità sia augere, accrescere) della nostra esperienza attraverso la relazione sviluppato dalla filosofia della differenza sessuale mi sembra qui estremamente vicino alla necessità, segnalata da “Tiqqun” in questo e in altri testi, di trovare nuove forme (relazionali, appunto) per svincolarsi dalla tenaglia del discorso che il Biopotere e il regime Spettacolare intrattengono sui e attraverso i nostri corpi.

[24]            “E’ esistito un movimento femminista che ha attraversato quello che chiamiamo femminismo, ora che non c’è più; ma non è stato un movimento di ricostruzione o costruzione identitaria: perlomeno in quelle componenti che ho definito come estatiche, e del tutto coerentemente con i suoi presupposti, questo fenomeno somigliava piuttosto a un processo di demolizione. Infatti, integrarsi ad una civilizzazione che fino a ieri ci escludeva, o proporne un’altra che funzioni meglio per aiutarla a risolvere il suo problemino di esaurimento nervoso, è un’alternativa insostenibile”. Ecografia di una potenzialità, p.26.

[25]            “Il rifiuto delle donne di collaborare a mantenere quest’ignoranza di vita sponsorizzata dal Capitale fa parte di quello che chiamo femminismo estatico. Il suo scandalo consisteva nel parlare la lngua del piacere e non quella della rivendicazione, la sua novità era nel trarsi fuori da quella sfera strategica che forza la contestazione e il suo oggetto a vivere una contiguità il più delle volte fatale”, Ibidem, p.26.

[26]            Sottosopra, 3, 1976.

[27]            Cfr. a Lia Cigarini, Luisa Muraro, Politica e pratica politica, in “Critica marxista”, 1992.

[28]            Figura già usata da Deluze all’interno del suo testo La formula della creazione.  Bartebly è, in origine, il titolo di un racconto di Hermann Melville, presente all’interno della raccolta The piazza tales (1856).

[29]            Ecografia di una potenzialità, p.30.

[30]            Nelle sue banalità di base Vaneigem riassume già molto bene la situazione: “una volta messa fuori, messa da parte ogni realizzazione reale, non rimane altro che una drammaturgia psico-sociologica nella quale l’interiorità serve da “troppo pieno” per evacuare i cadaveri che ci servono da vestiti durante l’esibizione quotidiana”. Internationale Situationniste, Librairie Arthème Fayard, Paris, 1997, p. 341.

[31]            In un articolo della rivista “ALfemminile.com”, si può leggere: “I metrosessuali rivendicano la loro virilità prendendo dalle donne (e dai gay) alcuni attributi: prodotti di bellezza, trucco, accessori. Il metrosessuale non si vergogna di esibire una parte della sua femminilità, con il rischio di far paura alle donne. I sociologi americani parlano di ” Gender Flexibility”, cioè “elasticità dei generi “, legandola a cambiamenti più globali. Le donne lavorano, i ruoli nella famiglia si assomigliano e i codici maschili (l’onore, la forza…) non sono più significativi. La giovinezza ed il piacere diventano valori ai quali aderiscono sia le donne che gli uomini.” Questa semplificazione, questa cattura della differenza la riduce a figura di ciò che viene e deve essere desiderato. La differenza viene usata, la differenza diviene “articolo di tendenza”.

E la riduzione in fondo si svela completamente solo nell’amara e fredda constatazione che c’è un preciso vantaggio economico a creare categorie del desiderabile: è più facile il controllo sui corpi, ed è più facile vendere la merce.

Inutile dire che questa idea di una elasticità dei generi non ha nulla che fare con l’ ipotesi mista…

http://www.alfemminile.com/beaute/05hommeideal/05hommeideal1__theme=1&-le-metrosexuel.html

[32]            Ibidem, p.23.

[33]            Ibidem, p.38.

[34]            Ibidem, p.4.

[35]            Ibidem, p.23.