diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Lingua Materna

“Il cuore sacro della lingua”

a cura di Chiara Zamboni

 

 

 

Quando il primo libro “All’inizio di tutto la lingua materna”[1] era andato alle stampe ci sentivamo come vuote, fenomeno post-parto. Ciò che prima ci riempiva di attesa, pensiero e una intima compagnia si era collocato al di fuori di noi. E poi, non avevamo ancora detto tutto, non l’avevamo  spiegato bene. C’era il resto. Alcune volevano riscrivere il proprio intervento, aggiungere delle cose, completare il discorso. Anzi, nel medesimo momento in cui stavamo per licenziare il nostro testo, cominciavamo a vedere più chiaramente ciò che forse avevamo voluto dire. Strano fenomeno di scrittura. Forse sarebbe meglio rifare ogni testo dopo un po’ di tempo come l’autore che ha perso il suo testo due volte e solo alla terza riscrittura era  riuscito a pubblicarlo. Avevamo la sensazione di dover aggiungere sempre qualcosa. Dall’altra, segno di una scrittura viva, come direbbe Julia Kristeva “semiotica”. La lingua che crede di fare completa chiarezza e di esaurire il discorso sarà sempre una scrittura dove il pensiero è già concluso. Mentre il testo in atto di riflessione, non potrà essere altro che in qualche maniera anche confuso. Spesso quel difetto del testo fa in modo che il pensiero sia maggiormente percepito da una lettrice e un lettore attenti. La incompiutezza del pensiero chiama alla condivisione del pensiero in atto.

Mai come allora avevo la sensazione che le riflessioni dovessero proseguire. Mi coglieva quella sensazione che Georges-Arthur Goldschmidt esprime così bene nel suo testo “Quand Freud attend le verbe”[2]:

“Ce qu’il y a de ‘linguistique’ dans toutes les langues, c’est ce savoir qu’elles ne fixent jamais: il n’y a langue que de ce que cela passe de langue en langue. Toute langue se révèle à moi comme l’ »intervalle » entre elle et le sens. Elle reste à dire, ce qui lui est propre, c’est qu’elle est future : je vais parler encore, ma parole future est encore à dire et c’est moi qui vais la dire. Je suis ce qui fait etre la langue ; c’est ce « pas » encore che je porte en moi. »

Ma se la  concezione della lingua materna di Goldschmidt differisce in molti modi da ciò che noi abbiamo detto nel primo libro resta importante quel intervallo fra la parola e il senso, un intervallo mai completamente colmabile. Esso è la fonte della lingua materna e resta sempre viva. Mentre per lui la lingua stessa, come appare, con il suo apparato lessicale e grammaticale, è solo una superficie insignificante, una freudiana “entstellte Grundsprache” noi siamo convinte che propria quella lingua specifica, attraverso la quale tutto il nostro mondo ci si presenta,  resta per sempre, in tutta la sua concretezza e materialità, luogo del nostro essere in lingua. La “Grundsprache” oppure la lingua del senso o la lingua simbolica oppure interiore[3] invece, ha potuto crearsi solo grazie alla esistenza ed esperienza della lingua materna che abbiamo appreso in presenza di nostra madre, o chi per essa, e con tutta la sua carica di multisensorialità. Per l’uomo forse è più facile trattenere ciò che c’è stato di esperienziale  in un codice simbolico . Per le donne quel inizio non smette mai di esistere. Continua a essere presente come parola concreta che orienta e che fa generare nuovo linguaggio[4].

Non per ultimo incontriamo la lingua materna in tutta la sua materialità nella nostra poesia. Essa è il timbro lirico, la cava di materiali, e la generatività del linguaggio[5]. Anche il “semiotico” di Julia Kristeva “è il livello musicale della poesia. Retrospettivamente, è ciò che il bambino articola con il suo balbettare prima di imparare le parole durante il processo d’apprendimento del linguaggio”[6]. Lei attribuisce grande importanza a questa modalità di significazione. Dalla sua biografia sappiamo che questo aspetto della lingua le deriva anche dalle preghiere ortodosse di suo padre i quali, prima di esprimere un pensiero logico, praticavano una meditazione in lingua sul essere nel mondo.

Lei si chiede anche come possa essere compresa la complessità simbolica e culturale dell’esperienza materna. E’ si rende conto che l’unico discorso “che comunica qualcosa sulla maternità è religioso: si pensi alla Vergine Maria o ad altre figure in altre religioni. A dire il vero non esiste un discorso laico sulla complessità dell’esperienza materna.”[7]

Comunque quel lato della lingua che ci fa sentire di non aver detto ciò che si voleva dire resta una costante del nostre sentire linguistico ed è anche quel aspetto che ci ha stimolato a concepire il secondo volume. Volevamo indagare il parlare spirituale, non informativo, su cosa ci poteva dire della lingua.

Mentre la riflessione sulla lingua materna nella sua fase iniziale ci era costato molto sangue perché tutte noi abbiamo dovuto attraversare le nostre esperienze personali, non sempre facili, spesso coperte da decenni di polvere e contrastanti sentimenti, per poter fare spazio al pensiero sulla nostra lingua delle origini, il lavoro sul “cuore sacro della lingua” invece ci ha immesso in un sentire più gioioso. Si, essenzialmente, abbiamo scoperto la gioiosità della lingua religiosa, rituale, mistica o magica. Oggi, di fronte a testi orali o scritti di genere rituale-religioso scopro più “il lato del cerchio”:

 

tutto è lato del cerchio

sorriso di bimbo e lama sottile

silenzio e ronzio

vuoto e appagamento

 

cammino incerta tra il detto

ormai perduto

e il pensato azzurro del mio sentire[8]

 

e meno quello dogmatico della concezione religiosa. Tutta la vita spirituale dei secoli non si può certo cancellare per la sofferenza nei confronti delle istituzioni e del pensiero. I linguaggio religioso ci parla di gioia, di fantasia, di sentimenti, di relazionalità, di empatia. Sono anche convinta che molta parte della poesia nasce su un terreno religioso di inni, salmi e invocazioni. Celan ne è solo uno degli esempi famosi.

Il nostro secondo testo vuol essere perciò un percorso che libera la lingua dall’obbedienza alla comunicazione emittente/destinatario e vuole mettere le ali al nostro parlare. I nostri testi parlano di testi spirituali che abbiamo goduto, generalmente nella nostra infanzia e che hanno segnato profondamente il nostro essere nella lingua, ci hanno trasmesso “la leggerezza della lingua”[9].

 

La gioia del essere in lingua ci deriva comunque anche dalla nostra esperienza di scrittura dialogata. Già il primo libro è stato il risultato di  un percorso comune fatto di testi della nostra tradizione femminile, come quello di Luisa Muraro “L’ordine simbolico della madre” ed altri e del Grande Seminario di Diotima nel quale io stessa avevo affrontato la questione della lingua materna. Già allora il mio intervento, poi pubblicato nel primo volume,[10] non avrebbe potuto prendere forma e consistenza senza il mio dialogo con Veronica Mariaux. Per la prima volta nella mia vita non ho più sentito il peso della solitudine di chi scrive e la vergogna del proprio testo. Da scrittrice molto prolissa ho portato al incontro con Veronika plichi di fogli sui quali raccontavo tutta la mia ricca esperienza di lingua materna, lingua straniera e esperienze vissute da e con stranieri e lei mi  faceva da severa prima lettrice delle mie riflessioni. Mi ha aiutato a cancellare e sfoltire, a condensare il pensiero e vederne la trama senza toccare mai la mia scrittura, cioè non è mai entrata nell’ordine semiotico del mio dire. Questa nostra pratica per me era nuova ma per la comunità di Diotima era una pratica alquanto abituale e la logica conseguenza erano i nostri incontri serali per parlare ulteriormente della esperienza che facevamo scrivendo ognuna il proprio testo.

Oggi so che quella nostra pratica è già diventata un rito. Ci si incontra nella casa di una di noi, si ci riunisce per parlare assieme e poi si prepara assieme la cena. Non abbiamo mai  discusso  nulla perché la modalità del nostro parlare non è la discussione bensì la riflessione comune. Vuol dire che una prende la parola e un’altra si fa ispirare da ciò che è stato detto. I discorsi si concatenano come in una collana e la fine si vede il disegno. Ecco abbiamo “disegnato” i testi sulla lingua materna in una lunga serie di discorsi e siamo felici di questa modalità di parlare che non esclude e non confronta ma che fa emergere ciò che le singole possono portare nel gruppo. Mi resteranno  sempre nella mente e nel cuore come quadri evocativi la gioia all’arrivo delle amiche e  nostre teste sotto la lampada della sala in Via Santa Maria in Chiavica.

Mentre nel primo gruppo eravamo già di provenienza mista, italiana e tedesca , nel secondo abbiamo voluto allargare l’orizzonte linguistico-culturale e abbiamo  invitato un’amica del Brasile, di origine Yorubà, per non restare solamente in ambito occidentale europeo.

Dei sette testi quattro sono perciò stati scritti in italiano da straniere, con tutte le difficoltà che questo comporta. Sono stati discussi animatamente le correzioni che le italiane hanno riportato  sui testi delle amiche straniere. Dinja, per esempio, non accettava incisive modifiche del suo testo, fedele alla sua versione, che la estranietà della lingua trasmette meglio il contenuto del articolo. Forse in quel occasione abbiamo vissuto l’unico vero conflitto all’interno del gruppo, concludendo poi, che la diversità deve essere mantenuta. E così il mio discorso torna al tema col quale era iniziato, che cioè ogni testo in gestazione porta con se delle notevoli imperfezioni e chiede alla lettrice e al lettore di liberarsi a sua volta del vestito d’ufficio e vestire in modo più comodo per godere le stranezze del testo.

 

[1]              Eva-Maria Thüne (a cura di), All’inizio di tutto la  lingua materna, Rosenberg&Sellier, Torino 1998.

[2]              Georges-Arthur Goldschmidt, Quand Freud attend le verbe, Buchet/Castel, Parigi 1996, p. 19/20.

[3]              Elisabeth Jankowski, Lingua materna, lingua interiore, in :Eco, l’educazione sostenibile, n 6,giugno 2006, p.9-11.

[4]              Come descritto nel mio intervento “Ascoltare la madre”in: All inizio di tutto la lingua materna. (a cura di Eva-Mara Thüne), cit. p. 11-38.

[5]              Vedi Chiara Zamboni in: IL cuore sacro della lingua, cit. 107-126.

[6]              Julia Kristeva, , Il  rischio del pensare, a cura di Elisabetta Convento, Il melangolo, Genova 2006, pp. 36.

[7]              Julia Kristeva, cit. p.37.

[8]              Poesia di Morena Piccoli, in una pubblicazione privata del giugno 2003 dal titolo “il lato del cerchio”.

[9]              Julia Kristeva, cit. p.11.

[10]            Eva-Maria Thuene, cit. p.11-38.