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per amore del mondo Numero 14 – 2016

Fuorigioco

Il corpo è di più

 

  1. La storia di ogni corpo

 

Sono molti anni che danzo e, negli ultimi anni, sempre più danzare è la lingua che dà la parola alla mia esistenza. Danzare è il mio culto, ciò che coltivo con religiosa dedizione, perché mi spinge a pormi in una relazione aperta, disponibile, percettiva, se pure talvolta impegnativa e faticosa, con me stessa e con le altre persone.

Credo di avere davvero esperito quello che si dice “trasformare il dolore o la gioia in espressione”, perché dolore, gioia e molto altro, io li ho danzati e dopo non ero uguale a prima. Danzare può essere un’esperienza intima oppure di coesione e di condivisione molto intensa con gli altri e le altre: condividere un ritmo, andare all’unisono, sono un esercizio di ascolto profondo e attento che mi emoziona tutte le volte.

Nei mesi di lavoro per la costruzione di uno spettacolo continuo ad esplorare e scoprire, prendo una direzione, escludendone altre, opero delle scelte, scarto, per tenere tra le mani solo l’essenziale, il necessario, il cuore della parola non detta che vuole nascere da me. Quando arriva il momento di andare in scena, anche se so perfettamente tutto quello che accadrà per averlo immaginato per mesi, tutto è diverso, perché la presenza del pubblico trasforma del tutto la mia danza, ogni cellula spinge verso fuori, ha una direzione, tutto il corpo ha dei prolungamenti che cercano incessantemente di toccare nel modo giusto, di arrivare fino al cuore. Se non riesco a toccarlo, se non attraverso la parete che separa me da chi assiste, allora tutto va rimesso in discussione e mi tocca ricominciare. Ma non è stato inutile, perché danzare è un processo, e l’andare a tentoni, il trovare, il perdere, il cadere, il risalire sono azioni che nutrono. Il risultato conta, ma non è tutto.

Tra le arti la danza ha la particolarità di avere luogo nel momento della performance, non produce nulla di materiale, si crea e subito si distrugge, finisce sempre, non puoi toccare l’esito del processo creativo, puoi solo assistere mentre si compie. E’ azione irripetibile come ogni risveglio, ogni sonno, ogni dialogo.

Io ho scelto la danza come religione, è stata una scelta matura e consapevole, non casuale, che deriva dalla storia del mio corpo. Non so se per tutti il processo di riconoscimento del corpo come sé, più che come corpo “proprio” è un processo lungo e accidentato come lo è stato per me. Sono stata abituata a credere di avere un corpo più che di essere il mio corpo e nient’altro che il mio corpo. La conseguenza di questa abitudine di pensare al corpo come se fosse un oggetto del pensiero, un corpo pensato, impedisce in modo irreparabile l’accesso diretto all’esperienza, impedisce l’ascolto della reazione di fronte alla vita, perché la mente filtra come un colino che trattiene la sansa, una mente non integrata nel corpo che butta via una parte di vita, senza guardarla.

Quando dico “corpo”, però, non posso che sottintendere e considerare anche il contesto culturale, l’idea sociale, la percezione collettiva, la mia genealogia, la stratificazione di racconti e immagini incrostate sulla mia pelle; non c’è corpo “naturale” o in sé, perché ciascuno non può che partire sempre dagli a priori in cui è incastrato. Però può esserne consapevole e talvolta, con un’intuizione, una scoperta improvvisa, un guizzo, sentire qualcosa di nuovo: l’ascolto dell’aria che entra e esce dalle narici, l’allenamento, il tono muscolare, le ossa e le articolazioni che si attivano per compiere le azioni fisiche, assottigliare la sensibilità di ogni parte, cosa di ruvido si prova toccando il legno, di freddo toccando un muro, oppure di lieve e caldo sfiorando la pelle di qualcuno. Indugiare nel dettaglio della percezione ha completamente rivoluzionato il mio modo di essere me.

Questa trasformazione è avvenuta lentamente, non so precisamente quando, ma ricordo anni fa che il corpo mio, non solo era altro da me, ma era anche un nemico contro cui combattere, da cambiare, giudicare, correggere, da cui fuggire. Ora “io” sono queste mani che corrono sui tasti, la pianta del piede che tocca il pavimento, il peso del ginocchio sull’altro ginocchio. Se dico “io” è questa materia ciò di cui parlo. Potrei scrivere tutta la mia storia seguendo col dito la sagoma del mio corpo e i segni scritti sulla mia pelle: tre smagliature sul fianco destro sono la nascita di mia figlia,  tre minuscole cicatrici su entrambe ginocchia sono anni di prove su pavimenti inadeguati, quattro piccole croci sulla pancia la misteriosa e appiccicosa endometriosi, alcuni segni di ferite quasi cancellate anni difficili.

Il mio corpo cresce da sempre, anche quando non sarò più viva continuerà a trasformarsi; il mio modo di essere nel mondo non è indipendente dalle sue forme, dimensioni e colori, dalla sua consistenza, dallo spazio che occupa. E’ più di quello che sono, è quello che sono, ma è anche la proiezione di me, il modo in cui il mondo mi vede e su cui non ho controllo. Sono in continua esposizione, sempre visibile, aggregazione concreta e materica di atomi, come le cose.

Sono il mio corpo e nient’altro, ma talvolta ne posso superare i limiti – i confini talvolta si assottigliano – e sento di inclinarmi a tal punto su qualcuno o qualcosa da caderci dentro, sono talmente all’unisono con qualcuno o qualcosa da essere quella cosa. Ma presto o tardi torno sempre a ripiombare nella mia finitezza.

 

  1. “Ballerina lo capirebbero tutti”: la danza come strumento politico

 

La danza è un linguaggio, e come tale può dire cose profondamente lontane tra loro. Esporsi come si è, lavorando per abbandonare le scelte estetiche che fanno parte della formazione del danzatore e soprattutto della danzatrice, è una scelta politica. Credo possa suonare ingenuo scrivere “politico” oggi, dopo decenni di esperienze artistiche che in ogni campo hanno scardinato tradizione e repertorio. E ancora più ingenuo, dopo gli ultimi anni in cui mi pare che anche le esperienze più estreme vengano assorbite da circuiti istituzionali che ne neutralizzano la carica eversiva.

Quando dico “scelta politica” penso alla rivoluzione personale e al cambiamento di sguardo che un certo modo di praticare la danza ha provocato nella mia vita. Perché danzare non è in sé un atto politico. Tutt’altro. La danza occidentale in genere è stata piuttosto uno strumento al servizio del potere. Fabrizio Andreella, docente di storia moderna, individua nell’epoca compresa tra il XV e il XVII secolo una ridefinizione dei linguaggi che coinvolge anche la danza. Spiega che “il Rinascimento è stato anche il momento in cui l’uomo, travolto dall’entusiasmo per le nuove mappe dell’esistenza che nascevano pressoché in ogni ambito del sapere e del fare, ha oscurato quelle conoscenze e quelle pratiche che mal si armonizzavano con il processo di razionalizzazione del mondo”[1]. Questo accade secondo lui perché è in questo periodo che il soggetto acquista nitidezza e si affranca dal sistema di protezioni e vincoli feudali, ed è per questo che diventa necessario ordinarlo, razionalizzarlo e addomesticarlo.

Nei secoli del Medioevo, e prima, la danza era di tutti. Quelle antiche danze, molte delle quali sopravvivono tutt’ora, erano dette “danze popolari”; la danza era sì un codice con delle regole,  ma le regole erano patrimonio condiviso, inclusivo, rituali collettivi. Quando la danza si tecnicizza, diventa professione, smette di essere di tutti e diventa solo di alcuni; si trasforma: lungi dall’essere momento dionisiaco, si specializza nell’apollineo, nel quale non c’è rischio di devianza.

La danza classica, la più diffusa in Occidente è  nata per separare il “popolo” dalla danza attraverso la tecnicizzazione: è solo per chi sa farla. Si tratta adesso di una danza desemantizzata, privata della polisemia che la contraddistingue: quando assurge ad arte codificata si spegne la relazione con i significati psichici, rituali, affettivi, espressivi che prima la accompagnavano.

La danza classica è nata nella società di corte, come segno di distinzione dalla trivialità del popolo, come educazione alle buone maniere e all’etichetta: esistono trattati scritti tra il 1400 e il 1500 che affermano questa volontà di identificare i “balli plebei” con il male morale, per esempio Il libro dell’arte di danzare di Antonio Cornazano del 1465, o il ben più noto Cortegiano di Baldassarre Castiglione.

Da allora è così:  quasi tutti i non professionisti della danza dicono di non sapere ballare, si giudicano goffi, perché nella loro mente appare il modello inarrivabile della ballerina eterea sulle punte o le evoluzioni straordinarie del ballerino in calzamaglia.

Nel ‘900 nasce la danza contemporanea che scende dalle punte e comincia a valorizzare il concetto di peso del corpo,  usa la caduta, il movimento scomposto e tutti i mezzi per dichiarare non solo la bellezza, ma anche e soprattutto per descrivere la paura, la violenza, la follia, la marginalità. Uno dei primi coreografi ad attuare questa rivoluzione è Kurt Jooss,[2] che nella sua famosa opera Il tavolo verde (1932) descrive l’orrore del potere che, chiuso in una stanza, decide le sorti del mondo.

Sono passati più di cento anni dalla nascita della danza contemporanea, eppure l’immaginario sulla danza  rimane cristallizzato in un’identità obsoleta, che non tiene conto delle ibridazioni con le altre arti e tra le persone. I confini nazionali e continentali si assottigliano, molti dei coreografi contemporanei sono figli di emigrati, oppure sono migranti loro stessi; le compagnie ospitano danzatori e danzatrici provenienti da tutte le parti del mondo, che contribuiscono a corrompere l’etichetta di danza “occidentale”, perché aggiungono ritmi, movimenti, atmosfere che storicamente non appartenevano all’Europa.[3]

Tuttavia, nonostante la danza del mondo sia a questo punto un insieme di esperienze e tecniche sempre più complesse e stratificate, in Italia continua a sopravvivere il mito della danza classica come l’unica danza o l’unica  d’arte (soprattutto nella formazione, nella quale la danza classica è considerata all’unanimità esperienza indispensabile, salvo scoprire che moltissimi autori, soprattutto maschi, non provengono affatto da quella scuola), quasi che le altre danze siano appannaggio di quelli che non potendo fare i ballerini classici, per difetto di fisico o di abilità, ripiegano per qualcosa di inferiore.

Dominique Dupuy racconta che alla domanda: “Qual è la sua professione?” se risponde:  “Danzatore”, vede uno stupore tale negli occhi del suo interlocutore che sarebbe tentato di dire “ballerina”[4]. Ballerina lo capirebbero tutti. Ballerina l’ammirerebbero tutti, perché la ballerina riesce nella difficile impresa di disciplinare il corpo al punto di dare l’illusione di superare l’ingombro della gravità, cui ogni essere umano è sottoposto.

Io non riesco ad innamorarmi della bellezza apollinea, della fuga neoclassica e anacronistica; mi interessa il sentimento in eccesso, la dismisura, la ribellione, la sregolatezza, il troppo. Mi appassiona solo chi quando danza sembra farlo come fosse questione di vita o di morte, oppure si avvale dell’ironia e si ride addosso. Ma non è volontà censoria la mia, – che il repertorio sia conservato nei secoli! – , ma non mi sembra chiarito che un linguaggio di quel tipo non è assolutamente in grado di aderire all’umanità di oggi (né a quella di ieri…): vorrei solo che nell’immaginario comune relativo alla danza non ci fossero solo bianco, rosa, tulle, bellezza e anelito di perfezione.

La tecnica è uno degli strumenti, non il fine, uno degli alfabeti attraverso i quali costruire senso.

La sola ricerca della meraviglia, della bellezza mozzafiato, è troppo poco, perché il corpo è di più, è anche bruttezza, paura, abisso, bisogno, pianto disperato, riso sfrenato e in esso si racchiude l’intera esperienza dell’umanità.

 

  1. Contro il sistema capitalistico della bellezza

 

Il corpo in movimento può essere un veicolo per raccontare, ma c’è un irriducibile potere nell’immagine di un corpo, che prescinde dalla volontà di chi interpreta o del coreografo/a.

Lo spettatore/spettatrice che guarda il corpo del danzatore o della danzatrice, immobile o in movimento che sia, necessariamente decodifica ciò che vede a partire dalle sue esperienze. Un corpo in scena non può che parlare, se lo si ascolta. La danza non può che parlare direttamente all’inconscio, superando  il logico, il verbale. A volte non si sa spiegare a parole cosa ti dice un’immagine astratta, non si può dire cosa stia raccontando, forse non racconta niente, però arriva diretta e rimane lì a sedimentare e a costruire immaginario dentro di noi. Nella prefazione scritta da Umberto Galimberti al libro sopra citato di Andreella si legge: “La danza cancella di colpo le figure appena costruite, continua creazione e distruzione del mondo (…). La danza dissolve tutti i sensi che vogliono proporsi come definitivi. (…) Disarticolato il senso che nasce dalle opposizioni concettuali della ragione, nella danza il corpo torna ad essere una possibilità che permette di interrogare se stessi e il mondo a partire dai suoi enunciati ambivalenti, non teorici, ma corporei”. La danza non è muta, al contrario, è perfettamente in grado di produrre enunciati, ma tali enunciati sono polisemici, semanticamente eccedenti e, aggiungerei, non necessariamente, intenzionali.

Il corpo, nell’orizzonte del pensiero occidentale, risulta sempre inadeguato, eccedente, una materia grezza da controllare in ogni modo: con le diete,  le tecnologie,  i rituali,  le consuetudini. La famiglia, la chiesa, la scuola, la prigione, l’ospedale, sono tutti luoghi in cui la società pone a se stessa il limite tra il normale e l’anormale. I parametri costituiti sono fatti in modo tale da decretare l’impossibilità di aderire a se stessi. Ciascun individuo si sente, in taluni aspetti della sua vita, non integrato nel  sistema delle regole sociali che decreta l’inadeguatezza del nostro corpo attraverso la quotidiana induzione del senso di colpa. La società capitalista impone un modello al quale nessuno può corrispondere, perché la biologia è un dato che può essere modificato, ma non del tutto censurato: provi e riprovi ad assurgerti a quel modello, di donna bella, di buona madre, di uomo forte, ma per quanti sforzi, sempre ci sono scivoloni e cedimenti: la crescita, i peli, la stanchezza, il sangue mestruale, la cellulite, le rughe, la malattia. E il lavoro sempre più precario e sempre più sciolto e confuso con la vita, senza cesura né pausa, non fa che accentuare il senso di inadeguatezza. Per queste manchevolezze, per questi segni di umanità, ogni persona sviluppa un senso di colpa che non ha nome e che ti fa sentire come un segno meno davanti al mondo. Dice Jean Baudrillard, analizzando i segni che la società contemporanea impone al corpo: “E’ necessario e sufficiente che [il corpo] sia il più chiuso, il più liscio possibile, senza pecche, senza orifizi, senza difetti”[5].

La mia sensazione è che ben poche persone possano sottrarsi a questo giudizio inquisitorio, poche si assolvono o non permettono all’inadeguatezza di corrompere la loro pace.

In molte opere di danza contemporanea, nelle quali  il confine tra danza e teatro è sempre più teorico (DV8, Maguy Marin, Alain Platel… ), posso riconoscere la fatica di opporsi al sistema capitalistico della bellezza in vendita e gli spettacoli sono veri e propri atti politici.

Questo è il tipo di danza che amo e voglio praticare. E per farlo è importante  il modo in cui una creazione nasce, interrogarmi sul ruolo del/della regista e su quello degli/delle interpreti. Si usa spesso dire che nel teatro non c’è democrazia, perché non si accede ad un lavoro per punteggio o per anzianità, ogni autore/autrice può scegliere chi vuole e ogni autore/autrice è demiurgo indiscusso/a della sua opera. Nella mia ancora breve esperienza di autrice tento di scardinare questa modalità di procedere provando a tessere relazioni democratiche e giuste, non dettate dall’umore o dal capriccio, ad assumermi la responsabilità del lavoro, ma guadagnandomi la credibilità delle persone che lavorano con me giorno per giorno, affinché il processo sia condiviso e nessuno si trovi ad agire in scena in modo contrario alla sua etica e sensibilità. Tutti devono essere ugualmente consapevoli di quello che danzano e responsabili della loro parte. Ne ho discusso spesso con le persone con cui lavoro, ma non trovo spesso corrispondenza e accordo su questo tema. Già nella didattica della danza c’è un senso della gerarchia molto marcato, il maestro, la maestra hanno sempre ragione, non li si può mettere in discussione, la tecnica codificata è una e si può solo fare bene o fare male, e questo vissuto i bambini e le bambine lo integrano e spesso continuano ad indossarlo da adulti/e.

 

  1. Sperimentare il movimento con bambine e bambini di Diaria

 

Per questo  il lavoro comincia con i bambini e le bambine; negli anni, anche grazie alle riflessioni condivise nel corso di pedagogia del movimento che ho frequentato a Roma,[6] sto cercando di sviluppare un percorso pedagogico, che seppure richiede ai bambine/i attenzione, concentrazione, rispetto di regole comuni, non propone un modello cui aderire, e, pur insegnando delle tecniche, punta piuttosto a trovare idee, soluzioni, modi inediti di muoversi, scambi tra arti, accordi difficili da trovare. Il percorso non mira dunque ad istruire bambine e bambini su uno stile di danza, ma a proporre un’esperienza pedagogica.

Come dice Dupuys: “Il maestro di danza non è là per fabbricare un buono strumento, il maestro di danza è là per risvegliare lo spirito dell’uomo che si mette a danzare”.

L’Associazione Diaria, fondata a Palermo nel 2010 insieme a Livia Alga, Marta Bellingreri e Daniele Crisci,  è il luogo in cui posso sperimentare e lavorare secondo i miei desideri. Diaria è stata fondata per non cedere ai ricatti del capitalismo e del precariato, per potere ancora scegliere  come voglio essere, pur conservando molte incertezze sul futuro.

Il primo assunto da cui mi muovo è che tutte e tutti possono danzare e ne hanno diritto.

Il secondo è che la danza migliora la qualità della vita e quindi  dell’apprendimento in generale: “La danza ha una precisa relazione con tutti gli studi e incoraggia l’apprendimento di tutti i cosiddetti studi intellettuali”, dice Ted Shawn[7], e aggiunge: “nell’ambito educativo non possiamo inculcare niente dentro qualcuno, possiamo fornire l’atmosfera intellettuale affinché lui o lei possa sviluppare al meglio il proprio Sé” e citando Emile Jacques Dalcroze, fondatore dell’Euritimica, aggiunge che l’educazione consiste nel permettere all’allievo di ottenere il massimo beneficio dalle qualità che possiede, stimolandolo verso uno sforzo creativo.

Non ci sono, dunque, persone  a priori  escluse dalla danza e l’educazione dei bambini dovrebbe essere più affidata alle arti .

Il pensiero sulla danza è pieno di stereotipi, e questo ne impedisce l’avvicinamento: il lavoro più difficile è quello di smantellarli. Gli stereotipi da combattere nel contesto in cui  opero sono principalmente due: del primo ho scritto precedentemente, ed è la credenza che la danza d’arte sia solo quella euroamericana, bianca, occidentale, principalmente rappresentata dal balletto classico.

Il secondo stereotipo è che la danza sia solo per le persone magre, belle, normodotate, giovani, e che sia costituzionalmente più adatta alle femmine e agli omosessuali che ai maschi eterosessuali.

Questi stereotipi sono ancora molto vivi a Palermo, dove sono nata e vivo.

La domanda che mi sono posta all’inizio della mia pratica didattica e che ancora mi pongo all’inizio di ogni nuovo ciclo è: quale danza e in che modo insegnare la danza?.

Rudolf Laban negli anni ’30 afferma  l’importanza dell’inserimento della danza nell’educazione e manifesta con forza il suo valore per controbilanciare una vita fatta di schematismi motori, affermando che “La futura felicità del bambino dipende da una vita motoria ricca”.[8] Laban individua quattro temi di movimento che costituiscono l’ossatura primaria per un corso di danza nell’educazione: corpo, effort, spazio e relazione. Questi quattro temi sono il vocabolario di movimento che ogni insegnante deve conoscere, che possono essere declinati in infinite possibilità. Il primo tema è “corpo”, ovvero il lavoro mirato alla consapevolezza del corpo, delle sue parti, delle  forme che può assumere e delle azioni che può compiere.

Il secondo tema sono gli “effort”, ovvero le possibili dinamiche del movimento; gli effort sono quattro: peso, tempo, spazio (interno) e flusso, la combinazione dei quali dà come risultato le azioni (per esempio l’azione di “fluttuare” è la combinazione di peso leggero, tempo indulgente e spazio indiretto, mentre l’azione di colpire è la somma di peso forte, spazio diretto e tempo improvviso). Ogni movimento può essere analizzato e scomposto secondo lo schema labaniano. L’osservazione del movimento delle bambine e dei bambini è essenziale per riconoscerne le peculiarità e sostenerle, oppure proporre possibilità diverse.

Il terzo tema è lo spazio inteso come orientamento spaziale: ogni movimento avviene in relazione allo spazio, in una posizione, o compiendo un certo percorso.

Infine, il quarto tema è la relazione con gli altri o le altre oppure con un oggetto. Laban dedica molto tempo a trovare movimenti che risveglino la formazione, il senso e l’ascolto del gruppo.

Sul “cosa” insegnare, Laban rappresenta dunque un’ispirazione inesauribile, anche se  mettere in pratica questi temi è la sfida quotidiana: ciascuno di questi non è un oggetto immutabile, ma un processo che risulta dall’interazione e dal contesto.  Laban è uno degli alfabeti, ma le parole si devono cercare e sono diverse per ciascuno.

Citando ancora Ted Shawn: “E’ necessario fornire allo studente la più ampia varietà possibile di danza perché, se proviamo ad imporre un particolare limitato stile, vedremo che solo una parte del gruppo si sarà nutrita, ma non la maggioranza; perciò in un programma educativo di danza dobbiamo presentare un menù vario e bilanciato cosicché ognuno potrà essere nutrito. In questo modo ogni individuo può costruire il proprio vocabolario di danza con quello che è bene per lui e, come il cibo che mangia, quando verrà digerito diventerà parte di lui, egli svilupperà un forte, sano e personale stile di danza”.

Come insegnare è la seconda domanda che mi pongo. Evidentemente non c’è un manuale o un metodo, c’è piuttosto da chiedersi dove si vogliono portare i bambini e le bambine.

Io voglio che provino il piacere di danzare e la concentrazione che permette loro di scoprire. Chiedo quindi attenzione e silenzio, presenza, essere nel qui e ora, bambine e bambini che si sentono liberi di esprimersi, senza paura di essere giudicati e senza desiderio di compiacere gli adulti, che possano stare con tutti, toccare con rispetto, fare da guida e affidarsi, bambine e bambini che hanno una buona immagine di se stessi.

Devo quindi non propormi come modello, ma fornire “vincoli” e occasioni, inventare difficoltà dalle quali i bambini si sentano sfidati, motivati, interessati e trovino soluzioni, senza temere di dare la risposta sbagliata. In una società fondata sulla competizione, la maggioranza è destinata al fallimento e alla frustrazione; la danza non ha bisogno di essere competitiva, ognuno deve dare il meglio di sé e contribuire all’insieme. Più i bambini e le bambine si sentono comodi nei loro panni, più sono loro stessi, minore è la possibilità di essere paragonati a qualcun altro. Come in un’orchestra, nella danza e nella vita c’è bisogno di strumenti diversi per creare sinfonie.

Quello che vedo oggi e  mi spinge a continuare su questa strada è che i bambini di Diaria sono contenti di venire, mi raggiungono sempre saltellando, mi abbracciano e mi baciano, mi ascoltano e mi inondano delle loro confidenze, si fidano , e si sentono a proprio agio, come a casa.

I bambini e le bambine da Diaria imparano a creare , ad essere anche interpreti delle loro creazioni o di quelle di altri, ed infine ad essere osservatori, a sapere guardare,  apprezzare e riconoscere le diverse qualità di movimento, a leggere nei gesti e nelle dinamiche i movimenti dell’anima, come direbbe Françoise Delsarte.  Il gesto, afferma, ha una potenza sintetica che l’idea non può avere sotto la forma articolata, cioè sotto forma di parole,[9] perché  il non detto del gesto, l’ellissi, il suo essere muto, suggerisce una presenza assente che lo anima, è la visione di un oggetto ineffabile, parola tacita che ordisce una costruzione di senso, che non può essere detto, ma può essere danzato.
NOTE
[1]Andreella F., Il corpo sospeso. I gesti della danza tra codici e simboli, Bergamo 2012, pag.30

[2]Link ad un video sull’opera di Kurt Jooss Il tavolo verde:  https://www.youtube.com/watch?v=z5L_4r6Ewwc

[3]Su questo tema Guzzo Vaccarino E., Danze plurali/L’altrove qui, Macerata 2009, in cui l’autrice descrive attraverso numerosi esempi una nuova danza che definisce postesotica: la danza euroamericana si è sempre autopercepita come assoluta e neutra. Si è volutamente separata dalle danze della tradizione, dalle danze popolari, per distinguersi come danza nobile e artistica. Le altre danze (popolari, africane, orientali, etc.) vengono definite etniche e non sono considerate danze d’arte. Oggi tuttavia, questa percezione si sta modificando e non potrebbe essere altrimenti, perché gli autori e le autrici che danzano sui palcoscenici internazionali sono spesso persone migranti, nomadi, persone che decidono di assumere come proprie sia le culture a cui appartengono per genealogia, sia quelle dei paesi di arrivo, o persone che miscelano la cultura paterna con quella materna. Ci sono molti esempi: tra i più noti nel mondo della danza Akhram Khan e Sidi Larbi Chercaoui. Una danza postesotica è una danza che attua un ridisegno nomadico della propria identità. La danza postesotica fonde intreccia eredità rielabora fonti coreutiche diverse. E’ qualcosa di profondamente diverso dall’esotismo ottocentesco che a partire dalla fascinazione per l’alterità ha nutrito colonialisticamente il repertorio del balletto classico di luoghi comuni. La danza postesotica si distingue nettamente da quello che Edgar Morin definisce Folklore planetario, ovvero un’assimilazione superficiale dei segni emergenti e noti di una cultura che viene inglobata dall’industria a scopo commerciale, si tratta piuttosto dell’espressione e della manifestazione necessaria del proprio vissuto complesso e irriducibile, che costringe alla ricerca, facendo saltare in aria le barriere tecnico stilistiche ed affermando un nuovo universo sincretico.

[4]Dupuys D., La saggezza del danzatore, 2011

[5]Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Milano 1976, pag.117

[6]Il corso “La danza va a scuola” è realizzato dall’Associazione Choronde di Roma con la direzione didattica di Susanna Odevaine.

[7]Shawn T., Dobbiamo danzare (pubblicato da Eagle nel 1940 negli USA), Gremese, Roma 2008, p.107

[8]Laban R., La danza moderna educativa, (traduzione italiana curata e commentata da Laura Delfini e Franca Zagatti), Ephemeria Editrice, Macerata 2009.

[9]Delsarte F., I movimenti dell’anima (a cura di Elena Randi e Simona Brunetti), Duepunti, Bari, 2013, p.51.