diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 13 - 2015

Ho Letto

Ida Travi, Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le immagini.

Ida Travi, Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le immagini, Moretti & Vitali editori 2015

 

Poetica del basso continuo (Moretti&Vitali) è una meditazione di Ida Travi sulla poesia nel suo legame con l’esistenza. La sua, quella di altri. Niente a che vedere con quell’idea di legame tra poesia e vita per cui ogni scritto, ogni gesto, ogni parola, ogni scelta esistenziale sono variazioni di un senso non rappresentabile, dove sia la poesia che l’esistenza sono modulazioni di tale senso inoggettivabile. La ricerca di Ida Travi è diversa, molto più legata alla pratica del partire da sé del pensiero della differenza, come lei stessa scrive, per stabilire e ristabilire ogni volta di nuovo un rapporto di fiducia tra le parole e l’esistenza, tra la poesia e la vita, che non è affatto dato per scontato, ma a cui occorre credere per poi sperimentarlo, proprio nel momento in cui la poesia non ne parla direttamente, non ne fa il suo oggetto di discorso, e piuttosto parla d’altro (p. 120).

Nel testo la figura del basso continuo diventa allora la cifra di questa ostinata fiducia nello sperimentare il rapporto tra le parole e la vita, anche quando tutto sembra remare contro.

Sappiamo che in musica il basso continuo costituisce la trama che si snoda tessendo e che viene colta solo da chi ha attenzione per ciò che è più umile, e che pure regge l’ordito delle figure musicali più ardite e originali, per questo più riconoscibili nella composizione. Ora l’attenzione della poeta va a questa trama insistente e ostinata. Solo chi ha sensibilità per ciò che è umile e necessario riconosce nel basso continuo ciò che dà la possibilità alle figure musicali singolari di svilupparsi e fiorire. Per analogia, nella lingua significa dare tutto lo spazio alle parole semplici, di cui abbiamo necessità, le parole che stanno in rapporto ai nostri bisogni, che segnalano la nostra fragilità umana. Tutto il resto è dato in sovrappiù.

Mi vorrei fermare sulla parola “ostinato” associata allo snodarsi del basso continuo. È l’ostinarsi nell’andare, nel procedere del passo. Di quel passo che dà cadenza e misura nell’avanzare: «Basso, ostinato è il carattere di chi fronteggia il dolore, basso e continuo è il pensiero di chi abita la parola come se fosse la sua casa, la sua terra» (p. 17). È l’ostinazione di chi sa che è il rapporto di fiducia con la terra a dare misura alla parola. Legame con la solidità della terra che permette di accogliere il dolore senza risolverlo, ma reggendolo con il passo di chi sente il piede ben appoggiato al suolo.

La parola possiede un peso specifico nella poesia a causa del suo legarsi alla memoria del corpo. Nella poesia le parole portano con loro il sentimento dei suoni, delle voci, del calore, di sensazioni che abbiamo sperimentato altrove e che intensificano la parola. Non si tratta di una memoria volontaria, di ricordi precisi. Piuttosto ci troviamo di fronte al fatto che frammenti di linguaggio esprimono, con quel che la parola dice, anche tutto un mondo di sensazioni, voci, suoni, a cui quella parola allude. Noi che leggiamo non sapremo mai a cosa si alluda, ma cogliamo che la parola possiede un peso specifico che la lega alla memoria del corpo (p. 102).

Io credo che questo sia un di più del linguaggio poetico, per la caratteristica di adunare in presenza persone, cose, mondi vissuti, che ora alla lettera non sono presenti. Ma è anche, aggiungerei, un di più dell’amore femminile per la lingua che avverte nella parola un addensarsi di esperienze, se pure non direttamente nominate. Un alone di sensazioni.

Ida Travi sembra suggerirci che i frammenti di discorso “sgusciati” dalla poeta fuori dal disordine della comunicazione portano con sé questo mondo d’esperienza e di sogno, vissuto, anche patito, ma non dell’ordine del referente, cioè di ciò che è empiricamente verificabile nel campo extralinguistico. Non per questo meno reali, anzi.

In questo senso il taglio, che è anche la figura centrale di un suo testo poetico – Tà, poesia dello spiraglio e della neve (Moretti&Vitali) – è ciò che taglia nel discorso il frammento, e permette proprio perciò l’allusione. Ellissi, allusioni non sono semplicemente dispositivi retorici, come a prima vista potrebbe sembrare. Sono piuttosto le condizioni per lo sperimentare nella parola l’addensarsi di un presente vissuto, patito, sentito, onirico, che noi lettrici e lettori sentiamo, se pure non ne conosciamo i riferimenti. È il contrario della descrizione esaustiva di tipo referenziale.

Ida Travi ha sempre in mente la lingua materna come lingua del basso continuo, lingua poetica che alle sue radici non è semplicemente ostensiva né per rovesciamento solo fantastica. La lingua materna porta con sé il nominare il mondo assieme all’alludere a tanto altro. Porta con sé la voce della madre, le voci, ma anche il sogno, le cose e le immagini profonde che le accompagnano.

Per mettere a fuoco questo lato immaginativo profondo che confluisce nell’esperienza poetica lei ricorre alla sua esperienza di spettatrice di cinema. Al centro prima di tutto e soprattutto Godard. Vediamo in che senso. In primo luogo il cinema di Godard come iniziazione. E a questo punto lei racconta una storia che, con le parole di Françoise Dolto, direi di desiderio simbologeno, cioè creativo, dove il desiderio di uno suscita e mette in movimento il desiderio dell’altra.

Ricorda quando – ragazzina – in un cinema di Milano aveva visto un film di Godard, sentendo che quel film la invitava verso uno scrivere che si giocasse tra voce e immagine. Era successo che qualcosa delle immagini di quel film, dei tagli del montaggio, dunque della poetica di Godard, avesse toccato – come a volte avviene – il suo desiderio, e che questo l’avesse messa in movimento attraendola per una strada che avrebbe costituito allo stesso tempo la sua solitudine. C’è molta verità in questo. Quando questo toccare desiderante avviene, si è poi diverse. La vita è cambiata e il nostro tempo si dischiude in modo nuovo. E d’altra parte avvertiamo che abbiamo una via davanti che solo noi possiamo percorrere, nessuno può farlo al nostro posto. Pur nel desiderio di condividerne il guadagno.

Il rapporto con le immagini è singolare, ma non soggettivo. Le immagini accadono. Avvengono. Non ne siamo noi i costruttori né gli ideatori. Le immagini ci capitano. Né soltanto referenziali né allora irreali. I grandi registi sanno bene questa qualità delle immagini.

Ida Travi cita una frase di Bergmann che a me sembra fondamentale per il legame tra sogno, immagine e poesia: «È come se volessi dire a me stesso qualcosa che non voglio ascoltare da sveglio», pensando al posto delle fragole (p. 90). Quel che Ida impara da alcuni grandi registi non consiste solo nella tecnica del taglio e del montaggio rigoroso, ma anche nell’arte dell’immagine come sogno, sospensione del referente, esplorazione di mondi immaginali. L’immagine non è fuori del tempo, in un tempo sospeso, preludio di eterno. Piuttosto l’immagine è un movimento nel tempo altro, che permette un prendersi tempo per aprirsi ad una trasformazione (p. 96).

Non so se consapevolmente o inconsapevolmente Ida Travi entra in sintonia con la tradizione del mondo immaginale della filosofia persiana del XII secolo. Essa concepisce un mondo intermedio tra il mondo spirituale di significati eterni e il mondo empirico. In questo mondo immaginale incontriamo le forme create dall’immaginazione attiva. Esse non sono né personali né soggettive, ma di esse il soggetto si fa portatore, accogliendole. Nella cultura contemporanea questo mondo immaginale trova uno spazio politico nel pensiero femminista della differenza. Faccio riferimento al testo di Diotima, Immaginazione e politica (Liguori), in cui si parla di questo. L’immagine infatti apre uno spiraglio tra reale e irreale, dandosi tempo all’interno del tempo.

Dunque è questo ciò che il cinema ha offerto al fare poesia di Ida Travi: poter dare spazio simbolico alle immagini che avvengono, non soggettive, personali, ma neppure oggettive.

Credo che questa, dell’immagine, sia una buona chiave per tornare a leggere i testi del ciclo poetico-epico di Ida Travi, da Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (2011), a Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso (2012), a Katrin. Saluti dalla casa di nessuno (2013) (tutti editi da Moretti&Vitali). Se il testo L’aspetto orale della poesia (Moretti&Vitali) permetteva di leggere con più attenzione il legame tra lingua materna, voce, sogno, questo nuovo testo aggiunge – si badi, non sostituisce – la chiave delle immagini a quella della voce per leggere e seguire una scrittura che avviene per tagli, montaggi di scene, allusioni sulla trama di un basso continuo che ostinatamente intenziona la vita.