diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Tesi di Laurea

“Hungerstreik”

*L’elaborato riprende la tesi di laurea in Lingue e Letterature Straniere (tedesco) presso l’Università degli Studi di Padova, relatore Prof. Emilio Bonfatti.

 

Der barmherzige Hügel:

viaggio attraverso l’opera di Lore Berger,

alla ricerca delle parole per narrare l’anoressia nervosa

 

Quando si parla di letteratura svizzera di lingua tedesca, vengono subito alla mente i nomi di pochi, grandi scrittori: Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt, Peter Bichsel. Grazie al movimento femminista, a partire dagli anni Settanta del Novecento è iniziato un processo di riscoperta di una “Svizzera segreta”, di una Svizzera raccontata dalle donne e rimasta, per troppo tempo, lontano dai riflettori. Sono stati ripubblicati e valorizzati i lavori di Annemarie Schwarzenbach, Cécile Lauber, Cécile Ines Loos, o ancora Regina Ullmann, per citare solo alcune delle oltre novecento scrittrici che, tra il 1700 ed il 1945, pubblicarono i loro testi in Svizzera. La nostra attenzione si è concentrata su Lore Berger (Basilea, 1921-1943) e sul suo unico, densissimo romanzo, uscito postumo: Der barmherzige Hügel (Büchergilde Gutenberg, Zürich 1944). La riedizione del testo, avvenuta nel 1981 a cura di Charles Linsmayer (Arche Verlag, Zürich),  catalizzò l’interesse intorno alla vicenda, e lo dimostrano le tante recensioni favorevoli, le traduzioni in francese ed italiano (Lore Berger, La collina misericordiosa: una storia contro Thomas, Il Quadrante, Torino 1987, a cura di Roberto Olmi, purtroppo non più in commercio), e poi le citazioni, più o meno dirette, all’interno di film e di romanzi, l’uscita di una seconda edizione, arricchita nel suo apparato critico, sempre per la casa editrice Arche.

Perché tanto successo, almeno in Svizzera? La storia narrata è, nei suoi tratti fondamentali, alquanto banale: verso la fine degli anni Trenta del Novecento, l’adolescente Esther rievoca i momenti salienti del breve ma intenso legame d’amore vissuto con il giovane Thomas e soprattutto il dolore che ancora prova per la brusca fine della relazione. Dopo l’improvvisa partenza dell’amato, Esther si è ammalata: ha iniziato uno “sciopero della fame”, che ha causato un considerevole calo ponderale e l’insorgere di una profonda depressione. Molti medici hanno visitato la ragazza ed hanno elaborato la diagnosi di cachessia ipofisaria, senza tuttavia riuscire a far migliorare le sue condizioni di salute, finché un vecchio dottore ha individuato una cura efficace, consistente in trasfusioni di sangue. Al momento della scrittura, Esther è oramai sulla via della guarigione, ma intende informare il traditore di quanto abbia sofferto per causa sua. La vicenda ha, purtroppo, una tragica conclusione, della quale veniamo a conoscenza fin dall’inizio, essendo le annotazioni della protagonista inscritte in una cornice firmata dal fratello (che si presenta dunque come editore del testo): nel corso dell’ultima trasfusione, eseguita da un medico sconosciuto, Esther muore.

Non è tanto la trama del romanzo a renderlo degno d’attenzione, né il dato autobiografico (per certi versi, infatti, si può vedere in esso la rielaborazione letteraria del vissuto della scrittrice). Questi furono gli elementi che ne garantirono il successo immediato nell’area di Basilea, dove il testo venne letto come confessione di una giovane della buona borghesia cittadina ed anticipazione del suo suicidio (nel romanzo, un’amica di Esther si toglie la vita gettandosi dalla torre dell’acquedotto che sovrasta la collina del Bruderholz, proprio come farà Lore Berger). Anche il dato stilistico va menzionato: il virtuosismo linguistico e la complessa architettura dell’opera dimostrano un talento che avrebbe meritato di crescere. Ma l’interesse che essa suscita a tutt’oggi è determinato da altri fattori: dal suo essere documento di una fase particolare della storia della medicina; dalla sua capacità di farci mettere in discussione come madri e figlie, in generale come donne; ancora, dal suo offrire testimonianza delle inquietudini di un periodo problematico del passato elvetico.

  1. Lo storico della medicina può analizzare il contenuto del testo come esempio di applicazione delle teorie elaborate nel 1914 dal patologo inglese Morris Sommonds, il quale attribuì il calo di peso di molte giovani donne alla necrosi della parte anteriore dell’ipofisi. Così, la diagnosi di “cachessia ipofisaria” (o “morbo di Simmonds”) venne a sostituire quella, nota fin dal 1874, di “anoressia nervosa”. L’affermarsi di queste teorie ebbe un impatto fortemente paralizzante: per circa trent’anni, e soprattutto nei paesi di lingua tedesca, si interruppe il fecondo processo di interscambio tra il mondo della medicina e quello della psicologia. Il disturbo venne ridotto a malattia organica, da trattarsi con terapie ormonali, e solo la psicanalisi continuò a cercarne altrove le cause. I medici consultati dai genitori di Esther, infatti, rifiutano qualsiasi riferimento a possibili motivazioni psicologiche per la malattia della giovane, nonostante un timido accenno ad esse da parte della madre. Per loro quel corpo emaciato, pallido e disidratato è evidentemente compromesso dalla cachessia ipofisaria e non c’è alternativa alle cure farmacologiche. Fino a qui, il romanzo dipinge una situazione in linea con la realtà di quel tempo. A renderlo straordinario è il fatto che, nonostante imperasse allora una lettura organicistica della malattia, Esther (e l’autrice con lei) si dimostra consapevole dell’errore intrinseco di tale diagnosi. Ella vive lo “sciopero della fame” come protesta e dichiara di essersi ammalata definitivamente solo dopo che i genitori hanno iniziato a consultare dei medici. A partire da quel momento, si è creata una frattura tra il suo modo di vivere e di intendere il rifiuto del cibo e la spiegazione che ne davano gli altri. Ancor oggi, l’anoressia è un messaggio urlato e straziante, ma non tutti sono pronti a coglierlo. Viene da profondità di cui forse persino chi ne soffre non è consapevole e fa del corpo il teatro di una violentissima ribellione per la quale non esistono parole, forse perché si rivolge proprio contro la falsità delle parole che sono state pronunciate fino ad allora. L’anoressica cerca di impostare un discorso su un piano differente, ma spesso, troppo spesso, rimane incompresa.

Lore Berger, che attraversò, come Esther se non in forma più grave, il disturbo, aveva ben colto la complessità della malattia; per questa ragione, la protagonista del suo romanzo denuncia, contro i medici e contro chi la circonda, l’insufficienza e l’inadeguatezza delle cure che le vengono prescritte. Si dimostra anche consapevole del fatto che la fine della storia d’amore è solo un pretesto e che costituisce la punta dell’iceberg di un «groviglio di problemi» le cui origini vanno ricercate nell’intrecciarsi di fattori esistenziali, famigliari, storici. Esther si sente pervasa da un inguaribile sentimento di vuoto, dal tedium vitae, che si manifesta anche nel terrore di restare sola con se stessa. Per questo, non si sofferma con attenzione su quegli aspetti che, invece, costituiscono il centro gravitazionale della vita delle anoressiche (controllo del peso, conteggio calorico, attività fisica, ossessione per il proprio aspetto fisico); in questo, La collina misericordiosa si differenzia da molti altri romanzi, spesso di matrice autobiografica, dedicati ai disturbi del comportamento alimentare, e si rivela documento tanto più prezioso, considerata l’epoca nella quale fu scritto. Interessante è poi il passaggio continuo dell’opposizione tra salute e malattia dal piano metaforico a quello reale: nell’ottica di Esther, e con un procedimento che rimanda a diversi romanzi di Thomas Mann, si assiste al capovolgimento del valore di salute e malattia, così che i personaggi sani ed amanti della buona tavola abbracciano una visione della vita semplicistica, di contro ai malati, che invece colgono nel profondo il dramma di esistere.

 

  1. Molte angosce di Esther si sono originate probabilmente in famiglia: il padre è figura autoritaria e fredda, incapace di trasmettere il proprio amore per la figlia, salvo in rarissimi momenti, di solito seguiti da un brusco ritorno al ruolo di custode delle leggi morali e, soprattutto, dell’imperativo borghese della salvaguardia dell’esteriorità; la madre è – o crede di essere – molto più vicina alla figlia, ma sembra avere bisogno di lei solo per confermare se stessa nel ruolo di dispensatrice di cibo e, dunque, di vita; vi è poi il fratello minore, quasi assente. Nel complesso, si tratta di una tipica famiglia della buona borghesia, nella quale la serenità dei singoli è sacrificata ad un principio di armonia superiore: fondamentale non è l’assenza di conflitti, quanto il mantenerli nascosti. È per questo che il padre di Esther la accusa di rovinare la famiglia, con la sua decisione. In tal modo, accresce il suo senso di colpa, già opprimente. Esther ammette di essere dipendente dai propri genitori e sa che l’educazione ricevuta l’ha fatta diventare una ragazza per bene, troppo per bene. Quindi, non riesce a ribellarsi apertamente al padre e alla madre. Thomas rappresenta per lei la liberazione, perché conduce una vita antitetica alla sua, affrancata dalla necessità di obbedire a principî morali e all’autorità genitoriale. Ovviamente, la famiglia osteggiava la relazione, e i due erano costretti a vedersi in segreto, sotto la costante minaccia che, se li avessero scoperti, sarebbe accaduto qualcosa di terribile. Il divieto impostole dai genitori (ma non dimentichiamo la forte tendenza ascetica che caratterizza il digiuno e la condotta delle anoressiche) impedisce ad Esther di darsi totalmente all’altro e ne frena anche l’espressione della sessualità. La giovane non riesce ad esprimere in modo assertivo la propria femminilità; al contrario, la vive come un ostacolo che le impedisce di tradurre in atto desiderî e potenzialità. Sente su di sé l’oppressione della società patriarcale, con la netta separazione dei ruoli che vuole la donna relegata all’interno della casa, madre di famiglia al servizio del marito e dei figli, o, in alternativa, maestrina sola, con occhiali di corno ed una pettinatura ridicola. La prospettiva del matrimonio spaventa Esther come una prigione.

 

  1. Vi sono altri elementi da tenere in considerazione, legati al contesto storico nel quale si dispiegò la parabola vitale di Esther ed in particolare agli anni di cui racconta nel romanzo (in perfetta coincidenza con il vissuto di Lore Berger): la narrazione copre l’arco di due anni, dal 1938 al 1940 (cinque, arrivando al 1943, se si considera anche la cornice scritta dal fratello). Siamo allo scoccare della seconda guerra mondiale. La Svizzera rimase neutrale, come risaputo. È forse meno noto il modo in cui la Confederazione risentì di quei tragici eventi. Con l’affermarsi dei regimi totalitari in Germania ed in Italia, crebbe in Svizzera la paura, e si sentì forte l’esigenza di rafforzare lo stato non solo dal punto di vista militare, bensì anche da quello spirituale, accentuando il carattere genuino di tutto ciò che era tipicamente svizzero. Negli anni Trenta, pertanto, cominciò a diffondersi il concetto di geistige Landesverteidigung, ovverossia “difesa spirituale del paese”, da portare avanti in parallelo alla difesa militare. Questa etichetta, in realtà, veniva usata per definire posizioni anche molto diverse tra loro, ma accomunate dal desiderio di esaltare la democrazia, la cultura, le tradizioni svizzere, in opposizione al fascismo e al bolscevismo. Nonostante i continui proclami in cui si sventolava la bandiera della libertà, l’idea di una democrazia autoritaria fu accarezzata da molti politici, ed alcuni provvedimenti presi alla fine degli anni Trenta andarono palesemente in quella direzione (nel 1939, per esempio, fu introdotta la censura).

In questo quadro, anche la condizione femminile conobbe un ritorno al passato: le donne vennero risospinte all’interno della casa, mentre la politica e la vita pubblica venivano affidate agli uomini, in ossequio a presunte differenze sostanziali tra i due generi, che qualcuno cercò anche di motivare scientificamente. Per le scrittrici, la situazione era ancora peggiore: in consonanza con gli ideali della geistige Landesverteidigung, era stata elaborata una definizione di letteratura nazionale strettamente legata all’elemento statale, quindi pubblico, quindi maschile. Non che le donne venissero esplicitamente espulse dal mondo delle lettere, ché non si sarebbe potuto cancellare del tutto il processo di apertura che era iniziato con il primo femminismo, ma si sostenne che esse erano per natura deputate all’espressione dei sentimenti, alla lettura dei moti dell’animo. Stabilendo l’interiorità quale ambito privilegiato della scrittura al femminile, a quei testi si negava automaticamente la possibilità di essere riconosciuti come rappresentanti dello spirito svizzero. Al massimo, la scrittura delle donne poteva trovare posto nella categoria di Trivialliteratur. Ulteriori difficoltà aggiungeva la necessità di diffondere ottimismo nella popolazione, tanto più forte quanto più si inaspriva il contesto internazionale. L’invito ad evadere dalla drammatica contemporaneità venne accolto dallo Schweizerisches Schriftstellerverein (SSV, Unione degli Scrittori Svizzeri), che si fece attivo promotore della geistige Landesverteidigung. Gli scrittori dell’epoca, dunque, non dovevano fare i conti soltanto con la censura ufficiale, ma anche con quello che Charles Linsmayer ha efficacemente chiamato “il proprio censore interno”: stanti i fortissimi condizionamenti esterni, era ben difficile discostarsi dalle linee-guida elaborate dall’autorità politica ed accettate dal più importante organismo di rappresentanza degli scrittori svizzeri. Certo, non tutti si piegarono, non tutti rinunciarono ad esprimere il proprio dissenso: esiste un fil rouge che lega diverse opere di scrittori impegnati, critici nei confronti della società del loro tempo, pronti a squarciare il velo di ipocrisia che era stato steso sulla nazione. Ma, inevitabilmente, le loro opere, che costringevano ad aprire gli occhi sulla realtà, non trovavano accoglienza favorevole. Solo a distanza di decenni, al venir meno dell’urgenza della geistige Landesverteidigung, i critici ed i lettori furono pronti al recupero dei poeti che erano rimasti fino ad allora emarginati (Dichter im Abseits. Schweizer Autoren von Glauser bis Hohl è appunto il titolo del saggio che inaugurò questo processo di riscoperta, scritto da Dieter Fringeli ed edito da Artemis, Zürich-München 1974).

Per Lore Berger si dovette aspettare ancora. La giuria del concorso cui, un mese prima di suicidarsi, aveva inviato in forma anonima il manoscritto, assegnò al romanzo il quinto posto e ne raccomandò la stampa, è vero. Ma questo avvenne solo dopo che si era scoperto che l’autrice era quella Lore Berger che si era lasciata cadere dalla torre dell’acquedotto. Se l’anonimato non fosse stato tolto, forse l’opera non sarebbe stata presa in considerazione. Lo fanno pensare le dichiarazioni rilasciate a distanza di quasi quarant’anni dallo scrittore Kurt Guggenheim, nel 1943 membro della giuria: egli ammise che, nel romanzo di Lore Berger, vi era qualcosa che disturbava il bisogno di leggerezza di quell’epoca, ed aggiunse che solo una donna avrebbe potuto scrivere un libro simile. Oggi, invece, si apprezza La collina misericordiosa precisamente in quanto testimonianza dell’insicurezza diffusa in quegli anni in cui la Svizzera procedeva alla propria autocelebrazione ed operava consapevolmente alla rimozione dei sentimenti negativi. Lore Berger ci mostra in che modo potesse essere percepita la guerra in un paese che quasi non la conobbe sul proprio suolo. E denuncia, come il Werther cui fa riferimento, che la giovinezza può essere dolore.