diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Lingua Materna

Follia a Barcellona

 

Con il mio grande stupore ho potuto costatare ieri sera dopo aver visto l’ultimo lavoro di Woody Allen che il film, nonostante la messa in scena di stupendi esemplari del genere femminile e maschile e il tema di superficie che è l’amore, tratta esplicitamente la questione della lingua materna. Parla del peso che ha nella nostra vita, nei rapporti d’amore e al livello interculturale. Illustra anche magnificamente la frase di Luigi Meneghello che è stata il tema del Grande Seminario di Diotima[1] nel 2007 : “La lingua materna dà accesso immediato all’autentica sfera della realtà ma anche alla follia.”

 

Il film dal titolo Vicky Cristina Barcelona non vuole certo mettere in mostra, con le sue immagini pattinate da fiaba, la realtà delle coppie etero- o omosessuali ma, a mio avviso, vuole essere piuttosto una allegoria. Il racconto si svolge come quello di una fiaba. Avvengono cose che nella realtà non succedono mai: Juan Antonio che si avvicina a due ragazze americane, Vicky e Cristina, e le invita a una gita preannunciando già che vuole concluderla a letto con entrambe. Non solo. Anche Maria Elena, la prima moglie dalla quale Juan Antonio è separato, parla in modo del tutto insolito. Lei, pittrice, afferma di essere non la musa di Juan Antonio come crede lui bensì il contrario. Afferma che lei è una pittrice geniale e che lui ha preso tutte le ispirazioni da lei. Ma come nelle fiabe dei Fratelli Grimm qualsiasi cosa può accadere. Tutto è possibile, tutto è solo dettato dalle leggi che riguardano la psiche umana. Le persone sono come gli animali delle fiabe che parlano e dicono quasi sempre la verità. Anche i personaggi del film dicono ciò che in genere si tace. Nelle conversazioni quotidiane, specialmente fra componenti di un quadro intimo la maggior parte delle verità si tace, si immagina e si desidera senza metterlo in parola. Nulla impedisce lo svolgimento della trama. E tutti gli eventi mettono in moto le relazioni che sono il tema principale di ogni fiaba. In questo film il tema sono le relazioni fra persone che a loro volta sono intimamente legate alla loro lingua materna e di conseguenza a tutto un modo di sentire e di concepire la vita e le persone.

Si contrappongono due  generi di uomini e donne. Da una parte Cristina a cui manca un forte radicamento nella propria cultura, almeno lo crede e lo dà da vedere. Ma siccome sente la mancanza di un forte, sensuale e significativo radicamento in una cultura e una lingua è in cerca di qualcosa di diverso: dell’avventura, del esotico, del senso della vita, di un amore particolare anche se non sa cosa potrebbe essere realmente.. Il desiderio di Christina è il motore di tutta la trama come per Juan Antonio lo è la confusione sentimentale. Ma Christina sa solo ciò che non vuole e non conosce davvero il suo desiderio. Questo fatto le permette di varcare alcune soglie e di essere aperta al nuovo anche se, alla fine, si può costatare che il nuovo non avviene mai perché senza la lingua il nuovo non si rivela e il rapporto di attrazione sessuale non si trasforma in amore e in un rapporto durevole senza la lingua.

Vicky, un po’ meno centrale nel film e, un po’ Woody Allen con i suoi mille dubbi, potrebbe essere la figura guida. Arriva a Barcelona per scrivere la sua tesi e per studiare meglio la lingua e la cultura catalana. Si innamora lentamente di Juan Antonio perché condivide l’ammirazione per la musica della Catalonia, per esempio. Lei è autenticamente sedotta dal nuovo, dalla cucina, dalla lingua e dall’amore spagnolo ma sapendo del pericolo che corre innalza delle alte barriere per proteggersi dal nuovo per poi cadere, comunque, nella seduzione erotica dell’altra cultura. L’amore per la Catalonia passa dalla bocca: il cibo, la lingua, il bacio, come dall’altra già nella lingua materna. Lei fa una nuova esperienza di lingua materna nella lingua straniera perché ogni volta che apprendiamo una lingua nuova in relazione con altre ed altri del paese straniero, e nel contesto vivo della lingua, è come tornare a quel primo apprendimento della lingua, la nostra lingua materna, dove non intervengono la coscienza e il pensiero razionale per comprendere ma dove tutti i sensi assaporano il nuovo significato.

 

Emergono le seguenti tesi:

 

 

Mi spiego meglio. Non a caso Juan Antonio lancia il ritornello del film Vicky Cristina Barcelona  : parla in inglese, non parlare in spagnolo!.  Questa frase la usa come un anatema contro Maria Elena, la ex-moglie, che si esprime esclusivamente nella propria lingua materna tranne verso la fine dopo il rapporto amoroso con Cristina. I due coniugi si amavano ed si amano tuttora profondamente ma vivono contemporaneamente in una dimensione di follia perché a loro manca l’estraneità al mondo. Loro sono vittima della loro vicinanza come talvolta in famiglia si entra in un conflitto dal quale non si riesce più ad uscire perché manca lo sguardo dall’esterno. Avere due lingue e due culture e due cuori può essere un aiuto per concepire la differenza e per avere uno sguardo diverso sulla vita. Altrimenti si ritorna all’amore materno e si scivola lentamente in una fusione dei due cuori. Di fatti, Maria Elena  trova perfetta la loro successiva unione a tre. Dice che Cristina, in quanto straniera,  era la tessera che  mancava loro. Cristina con il suo  sguardo esterno permette a loro di stare in uno spazio relativo e non più in uno spazio assoluto che è la lingua materna, spazio puro ma anche chiuso se non utilizzato per l’apertura verso altro. Cristina è la garante esterna che il mondo al di fuori della coppia esiste. Soprattutto oggi non siamo più capaci di vivere in un monolinguismo[2] anche perché lo sguardo sempre esterno di telecamere e televisioni, di donne e di uomini emigrati in Italia, ci ha abituati a non vivere più senza quest’occhio dell’altro.

Per Maria Zambiano il superamento del monolinguismo è l’esilio. L’esilio, prima subìto, poi assunto su di sé e anzi rivendicato – «amo il mio esilio» dirà nel 1989 già tornata in Spagna – è la cifra della filosofia di María Zambrano. Prima ancora di essere geografico, sociale, politico, l’esilio è anzitutto «ontologico». In quel non-luogo, in quella patria sconosciuta che poi diventa irrinunciabile, Zambrano scorge la vita umana denudata, portata alla sua nudità «tragica e aurorale». La condizione estrema dell’esilio è quella dell’espropriazione, quella in cui il proprio, la fissità del firmamento conosciuto, è per sempre negato. L’esilio è infatti esilio non solo dalla patria, ma da ogni possibile patria

Per Cristina, la ragazza americana, sembrano non esistere le altre lingue. Un fatto piuttosto curioso perché in genere le donne che amano o sposano uno straniero iniziano immediatamente a voler parlare la lingua di lui. Sono invece i partner uomini, almeno quelli delle generazioni passate, a non fare nessun tentativo di parlare la lingua dell’amata donna. Cristina, comunque, non tenta mai di dire qualcosa in spagnolo nonostante che vive e fa l’amore con uno spagnolo e una spagnola che a sua volta ama moltissimo la propria lingua. Non avendo un rapporto con la lingua lei resta alla fine estranea a tutto. Il rapporto per quanto sensuale non le da più nulla dopo aver consumato la prima dimensione dell’abbandono. Mancando la lingua nulla può diventare significativo e costituire legame. Forse Cristina è incapace di amare  perché crede nell’amore come pura attrazione fisica che si colloca al di fuori delle culture e perciò delle lingue. Questa idea è oggi molto diffusa,. Nonostante le tante differenze e la lontananza tra appartenenti a diverse etnie si crede comunque possibili  unioni d’amore fra persone così diverse pensando che il rapporto fra uomo e donna sia universale e che non abbia bisogno di lingua e cultura. Credo invece che occorre apprendere la lingua dell’altro nell’amore per evitare che l’attrazione resti muta. Naturalmente, in un rapporto non patriarcale si dovrebbe sviluppare una nuova lingua, la lingua intima dell’amore che somiglia in genere alla lingua dell’infanzia, al rapporto linguistico-ludico con la madre quando si storpiano le parole, si torna a esprimersi in modo multisensoriale, si usano spesso delle cifre[3] e si torno a una sintassi elementare oppure anche sbagliata. Il gioco è nelle mani degli amanti e può essere di tipo molto diverso. Resta da notare che è comunque un ritorno al gioco con la madre.[4]

Il padre del protagonista Juan Antonio invece è il contrappunto che avvia tutto il discorso sulla lingua: Lui scrive nella sua lingua materna poesie che non pubblica e che restano nella dimensione della oralità. Sostiene che apprendere altre lingue turberebbe la sua lingua poetica. Bello questo uomo vecchio nella sua romantica casa antica. Lui sostiene che i problemi del mondo sono tutti causati dalla incapacità di uomini e donne di amare. Contemporaneamente però lui vive chiuso nella sua isola felice di lingua materna, lingua poetica ed è convinto che un contatto con un’altra lingua turberebbe la purezza della sua lingua e lo renderebbe incapace di poetare ancora. Certo la sua è una posizione estrema perché si isola dal mondo intero. Se facessimo come lui ci impedirebbe di stare nella dimensione doppia di ogni lingua materna: essere lingua iniziale ed iniziatica ma essere anche lingua del mondo, dove ognuno ed ognuna hanno una loro lingua diversa perché le nostre vite sono una diversa dall’altra e i nostri cervelli hanno percorsi diversi uno dall’altro.

La lingua è sempre anche lingua dell’altro: dell’uomo, dello  straniero, della straniera, dell’amica, del mondo pubblico.

Da una parte il contatto desiderato ci porta in un vortice di avvicinamenti senza comprensione e senza radicamento ma dall’altra non possiamo neanche stare solamente nella dimensione della lingua materna come il padre di Juan Antonio perché ci isola dal mondo.

Due sono le figure che forse vogliono concludere il discorso sull’amore e sulla lingua a contatto  e forse esprimono la posizione dell’autore-regista: Da una parte Maria Elena che resta nella sua dimensione più vera, sensualissima, e nella sua lingua materna e che la abbandona solo quando entra in un rapporto amoroso con la diversa, Cristina. Solo in quel caso è anche disposta a parlare la nuova lingua, mentre Cristina non si pone il problema. La sua ricerca resta frustrata perché non fa nessun tentativo di radicarsi nella diversità. Resta nello spazio sensuale del contatto fisico che a un certo punto non ha più sviluppo e porta alla estraneità e alla noia.

 

Non solo. Questa sordità di Cristina rovina anche il suo rapporto con il suo paese d’origine. Sordamente avverte che deve tornare a casa ma non è affatto entusiasta. Sembra che anche la sua cultura d’origine stia perdendo colore e resti, fino alla fine, una dimensione senza attrazione erotica e senza desiderio mentre l’immersione in una cultura nuova fa desiderare anche il ritorno. Perché? Ogni viaggio nel mondo ti fa comprendere meglio la tua origine e rinforza l’attaccamento al proprio. L’allontanamento crea uno sguardo come estraniato sulla propria origine e la rende desiderabile, come una regione sconosciuta.

 

Nelle nostre città multietniche siamo tutti e tutte delle Vicky, Cristina, Maria Elena, Juan Antonio e suo padre. Ma, come Juan Antonio non possiamo continuamente ripetere “Non devi parlare in spagnolo” o meglio “in arabo, in hindi, in cinese etc”. Forse è meglio che entriamo in una relazione viva per creare la nostra nuova lingua comune, magari inizialmente solo per gioco come lo fanno i giovani nelle periferie.

[1]              La comunità filosofica femminile Diotima nasce presso l’Università di Verona nel 1983, per iniziativa di donne interne ed esterne all’università, con l’intento di “essere donne e pensare filosoficamente”. Riferimenti fondamentali per il lavoro di Diotima erano la riflessione filosofica di Luce Irigaray e il dibattito teorico e politico del movimento delle donne, in particolare il femminismo della differenza, in un rapporto particolarmente stretto con quanto elaborato dalla Libreria delle donne di Milano. Vedi: www.diotimafilosofe.it

[2]              Per monolinguismo intendo uno sguardo senza differenza: un’unica lingua, un’unica religione e cultura. Per Petrarca si parla di monolinguismo e di monostilismo ossia di una poesia in cui non ci sono asprezze nel linguaggio. Per Dante invece si deve parlare di plurilinguismo e pluristilismo nelle tre cantiche dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso, poiché in ognuna di esse prevale uno stile ed un linguaggio e spesso gli stili ed i linguaggi si mescolano all’interno di ciascuna Cantica.

[3]              Nell’apprendimento della lingua materna tutto è cifra in quanto significa sempre quella cosa presente ma sempre anche altro, qualcosa di non visibile, forse nemmeno accaduto. Secondo Carl Jaspers nel  terzo volume di  Philosophie, Metaphysik la scrittura cifrata costituisce il “di più qualitativo”, ossia il segno tangibile della noncoincidenza dell’esistenza con la Trascendenza.

[4]              Vedi anche Ernst Leisi, Paar und Sprache, Heidelberg 1978, pp. 46.