diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo

Pratiche

Fedeltà a sé nelle pratiche politiche delle donne e negli scambi tra nord e sud del mondo

* Testo scritto per il convegno Relazioni di genere e reti di economia solidale. Idee per  uno sviluppo sostenibile, equo e partecipato.Un confronto tra le donne del nord e del sud del mondo. Parma 20 marzo 2004

 

 

Faccio parte di una comunità filosofica che lavora da una ventina d’anni allo sviluppo di un pensiero femminile che mette in discussione le categorie di pensiero con le quali il mondo è stato pensato, e con le quali anche le donne stesse  hanno pensato la loro vita.

Sono molto interessata alla relazione con donne di altre parti del mondo. Per ora la mia esperienza non è di chi va lontano, ma di chi investe nelle relazioni con donne immigrate. Per questo con alcune amiche, a Verona, città in cui abito, abbiamo fondato un’associazione di donne italiane e donne straniere, Ishtar, per uno scambio culturale che aiuti anche noi donne italiane a ripensare il nostro processo di emancipazione. Penso che la relazione con donne che provengono da Paesi e culture diverse offra una grande opportunità di capire cosa è successo da noi. E’ una relazione che ci arricchisce e ci aiuta in un’operazione necessaria di ripensamento del nostro percorso,, altrimenti temo che noi donne occidentali, intellettuali, emancipate possiamo cadere in grandi errori nella relazione con le donne del sud del mondo, soprattutto se diamo per scontato che l’esito della nostra storia oggi in Occidente debba essere l’esito della civiltà mondiale. Per questo  facciamo lo sforzo di esaminare e di ridiscutere il senso delle parole che usiamo comunemente.

Ho molto apprezzato la relazione di Irene Gatti, perché ci ha offerto delle storie di donne, degli sketch di vita concreta e di pensiero di donne che si impegnano nell’economia quotidiana, negli scambi con le altre donne attribuendo loro valore per il loro saper fare e costruire società Questo riferimento a ciò che avviene ci può aiutare ad uscire da categorie già pensate, con le quali altrimenti facciamo interventi  pieni di buona volontà ma, a volte, anche con ingenuità.

Prendo spunto dalla relazione di Letizia Mencarini sulla demografia, da quanto lei ha detto, alla fine della sua relazione, sul tasso di nascite nel Terzo Mondo. Se pensiamo a quello che è accaduto da noi,  abbiamo un’occasione per andare a vedere ciò che abbiamo guadagnato e ciò che abbiamo perso attraverso un certo percorso di emancipazione, così magari evitiamo di riprodurre e riproporre agli altri il medesimo modello.

Certamente, il controllo della propria sessualità grazie alla conoscenza e all’uso di mezzi che ci permettono di non avere maternità indesiderate, è qualcosa che dà libertà alle donne, e a questo certamente non vogliamo rinunciare. Possiamo però anche vedere come oggi le giovani donne italiane emancipate, inserite nel mondo del lavoro ecc. ci dicono che non è che non vogliono fare figli, è che non riescono a farli.  La necessità di entrare nel mondo del lavoro, di mantenersi, di essere indipendenti,  unita alla flessibilità del lavoro e alle difficoltà della coppia, oggi fanno sì che le donne italiane hanno sempre meno la possibilità di avere bambini. Allora, forse c’è qualcosa nel sistema di vita che abbiamo costruito che non funziona, o che almeno dobbiamo ripensare.

Nelle donne della mia generazione, che magari avevano avuto madri casalinghe, c’era l’idea che lavorare è una forma di auto-realizzazione delle donne e quindi c’è stata una scelta molto chiara a favore dell’emancipazione e dell’indipendenza. Per le giovani donne di oggi questa scelta non si pone più, nessuna può più pensare che il marito la manterrà, che il matrimonio sarà qualcosa di stabile all’interno del quale una può permettersi di fare la casalinga e avere dei figli. Abbiamo privilegiato il lavoro salariato e quindi il rapporto produttivo.

Ci sono delle scelte che sono state fatte: una è quella di entrare  in un mondo del lavoro che le donne non riescono ancora a modificare nelle sue regole, e quindi accettare una visione maschile in tanti campi. Che sia così si vede se prendiamo in esame le regole, il linguaggio, il modo in cui vengono pensati i lavori dove pure le donne sono in maggioranza. Sono un’insegnante e posso parlare della scuola: la scuola oggi è investita da un linguaggio aziendalistico che è mi pare del tutto estraneo alla sensibilità delle donne. Noi siamo tutte sotto dei presidi che non si chiamano più presidi ma manager, dobbiamo pensare i genitori non come delle persone che ci affidano i loro figli e hanno fiducia di noi, ma come dei clienti, ecc. C’è un linguaggio che snatura il senso del lavoro stesso, anche là dove le donne sono in prevalenza.

Quello che la Comunità Filosofica di Diotima va facendo da anni è proprio di vedere quanto le parole incidono sulla realtà, quanto modificano l’atteggiamento che noi abbiamo nei confronti del reale, Ciò che non è nominato non è visibile, ciò che è nominato in un modo che ne distorce il senso alla fine modifica anche le relazioni umane.

Mi è capitato  di leggere lo scorso anno un libro di Aminata Traoré, dal titolo “L’Immaginario Violato”, un libro che mi è piaciuto molto. L’autrice intreccia la narrazione alle riflessioni politiche, e  la narrazione è molto efficace perché mette in primo piano la concretezza e ci  mostra come certe scelte economiche incidano poi sulla vita delle persone e sul senso che le persone hanno di sé stesse, sul loro  modo di porsi in relazione alla loro società, al loro territorio. Per esempio l’autrice dice: noi non eravamo poveri, adesso ci pensiamo come poveri, e pensandoci come poveri siamo anche incapaci di vedere quello che potremmo fare. Le categorie, per esempio quella di povertà, attraverso le quali noi guardiamo il mondo e attraverso le quali chiediamo anche ai Paesi del Sud di vedersi rischiamo di snaturare anche il loro sguardo su sé stessi.

  1. Traoré sostiene che il problema dell’Africa è de-colonizzare la mente prima ancora che decolonizzare l’economia. Questo è molto importante. Decolonizzare la mente è un problema comune anche alle donne dei paesi ricchi, significa che dobbiamo verificare se le parole con cui il mondo viene rappresentato rispondono ai nostri desideri, al nostro modo di sentire, a quello che ci sta a cuore. Per esempio, i dati che ci sono stati proposti oggi del rapporto tra politiche demografiche e livello di istruzione sono impressionanti. Ma quando ci sentiamo dire che nei paesi africani le donne sono al 80% analfabete, cosa vuol dire?

Noi ci avviciniamo a persone che appartengono a millenarie culture orali, persone che hanno un sapere grandissimo sul loro territorio, sulle relazioni, a volte anche sulla salute – visto che ci sono americani che vanno a rubare agli indios in Amazzonia i segreti delle piante e poi se li brevettano.  Allora analfabeta vuol dire, secondo me, che si tratta di una persona che non è entrata nella cultura dominante,  – le manca la chiave che le può permettere di entrare nella nostra cultura – ma non vuol dire che è una persona che non ha altri saperi e che non sa come muoversi  nel suo territorio o anche in altri territori. Ho un’amica marocchina che per  motivi accidentali non è stata mandata a scuola dai genitori,  appena arrivata in Italia però ha saputo prendere la patente, prima ancora di andare a scuola di italiano.  Io invece, se mi trovo ad Amman, come mi è capitato, e non c’è una scritta in una lingua per me comprensibile sulle strade, sono persa. Allora questo cosa vuol dire?  Io sono del tutto dipendente dalla cultura scritta, ma esistono vari tipi di intelligenze, vari modi di orientarsi nello spazio, nel tempo, nella vita.

Se noi vediamo le donne che non sanno né leggere né scrivere come ignoranti, facciamo un grosso errore di interpretazione. invece sappiamo bene del grande  dibattito che c’è stato proprio nei paesi africani su cosa vuol dire abbandonare la cultura tradizionale ed entrare nella scuola dei bianchi, con una profonda consapevolezza  di quello che può comportare la rottura con la  propria tradizione.

Per concludere vi leggerò una fiaba dei Kikuyu del Kenia perché ci regala un’ipotesi provocante. La fiaba si chiama “Il Potere è degli Uomini”.

“Tanto tempo fa erano le donne a governare il regno. Gli uomini cominciarono a pensare che questo non era un buono stato di cose e decisero di convocare una riunione per discutere il da farsi. Decisero di riunire assieme tutte le donne e farle danzare nude davanti a loro. Quando le donne vennero e fu loro detto dagli uomini cosa dovevano fare si rifiutarono perché dissero che si vergognavano di fare una del genere. Gli uomini argomentarono che i governanti di un regno non avrebbero dovuto conoscere una cosa come la vergogna. Decisero di convocare un’altra riunione di uomini e donne insieme per sistemare la faccenda. Le donne andarono all’incontro portando con loro i bambini. Discussero la questione a lungo finché cominciò a far freddo. Una alla volta le donne se ne andarono perché temevano che i loro bambini potessero soffrire a causa del freddo. Questo sistemò la faccenda. Gli uomini compresero che non solo le donne si vergognavano di danzare nude davanti a loro, ma avevano anche paura. Decisero che persone del genere erano del tutto inadatte a governare e che la cosa migliore che potessero fare era di togliere loro il potere e da allora il potere è degli uomini.”

 

Credo che non ci sia bisogno di commenti. Per avere potere bisogna essere svergognati e non bisogna preoccuparsi che i bambini abbiano freddo.