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per amore del mondo Numero 4 - 2005

Filosofe

Etty Hillesum, testimone e vittima della Shoah

Per parlare di Etty Hillesum (Middelburg, Paesi Bassi 1914 – Auschwitz 1943), e del tipo di testimonianza che questa autrice ci ha lasciato della Shoah, vorrei partire dalla tormentata vicenda editoriale che ha portato alla pubblicazione dei suoi scritti, il Diario[1] e le Lettere[2].

Il ritardo con cui questi testi sono stati pubblicati, a circa quarant’anni di distanza dalla fine della Shoah, all’inizio degli anni ottanta, quando essi hanno conosciuto una straordinaria fortuna in molti paesi, è già di per se stesso significativo.[3] Mentre altre narrazioni della Shoah, pubblicate all’indomani della seconda guerra mondiale, decrivono un mostro, il nazismo, che è altro da noi, Etty Hillesum ci fornisce un quadro più inquietante, ci invita a rintracciare le radici del male anche dentro di noi: “Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare: e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza prima aver fatto la nostra parte dentro di noi. E’ l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”.[4]

Questo è più inquietante, perché costringe a riflettere sui meccanismi che possono indurre uomini apparentemente “normali” a commettere il male: in questo senso, si tratta di un male che riguarda anche noi, oggi, in ogni rifiuto e incomprensione dell’altro. Con Etty Hillesum, il male non è qualcosa di lontano e di mostruoso, ma qualcosa di vicino, che può nascere anche dentro di noi: con lei, ci addoloriamo per il male compiuto dai nazisti – un male di cui lei stessa è stata vittima -, ma ci addoloriamo anche per qualcosa che ci riguarda direttamente.

Si può comprendere facilmente come un punto di vista così inquietante come quello di Etty Hillesum fosse inaccettabile, per molti, quando la lotta sostenuta contro il nazismo era ancora recente, vicina, bruciante. E’ comprensibile che altre narrazioni più nette della Shoah, che tracciano una linea di demarcazione ben precisa fra bene e male, fra buoni e cattivi, abbiano avuto più fortuna, all’indomani della guerra, del Diario di Etty Hillesum: penso, ad esempio, al Diario di Anna Franck, in cui Anna descrive un  mostro, il nazismo, che è altro da noi.[5]

Un’acuta pensatrice politica, che ha molto riflettuto, da ebrea, sulla Shoah, Hannah Arendt, ha fornito, in un primo tempo, poco dopo la fine della guerra, un’immagine della barbarie nazista come “male radicale”, assoluto, imperdonabile: ne Le origini del totalitarismo, del 1951, la Arendt analizza il nazismo – e lo stalinismo – “dall’esterno”.[6] Ma la stessa Arendt, riflettendo di nuovo sulla Shoah  a più di dieci anni di distanza dal suo lavoro sul totalitarismo, in occasione del processo Eichmann (ne La banalità del male, del 1963), ha indagato la genesi del male “dall’interno”, a partire dall’apparente “normalità” di un uomo come Eichmann, e ha messo in guardia contro la “banalità del male”, che può sorgere ovunque si rinunci al pensare da sé, al dialogo con l’altro e alla responsabilità personale.[7]

Ora, la cosa straordinaria di Etty Hillesum è che lei giunge a una visione matura come quella della “banalità del male”, e altrettanto inquietante, perché ci invita a rintracciare le radici del male anche in noi stessi, e questo non molti anni dopo la fine della guerra, ma proprio durante le drammatiche vicende della Shoah: innaccettabile alla fine della guerra, quando si sentiva la necessità di esorcizzare il “male radicale” rappresentato dal nazismo, il Diario  di Etty Hillesum ha conosciuto una straordinaria fortuna a partire dagli anni ottanta.

I motivi di tale fortuna tardiva sono, in primo luogo, l’interesse per la spiritualità di Etty, radicata nell’ebraismo, ma aperta anche ad altre forme di religiosità, dal cristianesimo alle filosofie orientali – una spiritualità, la sua, che viene incontro a un confuso ma sincero bisogno religioso del nostro tempo -, e, in secondo luogo, l’attenzione rivolta ai testi della Hillesum da parte di una vasto pubblico di lettrici. Da quest’ultimo punto di vista, conta il fatto che Etty Hillesum è una donna: io credo che, nel suo modo di opporsi a una realtà fatta di violenza e odio, si possa riconoscere il segno della sua differenza femminile.

Il radicamento di Etty nella differenza femminile si può scorgere, in primo luogo, a mio avviso, nel suo modo di lottare contro il male a partire da sé e dalle proprie relazioni con gli altri. Partire da sé è una modalità di pensiero e di azione – una pratica – a cui ha dato nome e dignità politica il movimento delle donne: Etty Hillesum, pur non collocandosi in un orizzonte femminista, parte spontaneamente da sé e dalle proprie relazioni per contrastare il male che le circostanze impongono drammaticamente alla sua attenzione.

Etty Hillesum riflette sul proprio coinvolgimento nell’odio e rifiuta l’odio indifferenziato verso un’intera categoria di persone – i tedeschi -, perché, “se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa che uno sia indulgente nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. E’ una malattia dell’anima”.[8]  Etty rifiuta l’odio indifferenziato – è questa  la sua lotta personale contro il proprio “marciume” -, e all’odio oppone l’indignazione morale: non si tratta dunque di soccombere al male né di rassegnarsi, ma di puntare sulle proprie risorse umane ed esistenziali per contrastarne l’avanzata. A Tzvetan Todorov, che giudica la posizione della Hillesum ammirevole dal punto di vista morale, ma poco raccomandabile dal punto di vista politico, perché insegnerebbe ad accettare il dolore ma non a combattere il male,[9] si oppone chi, come Marco Deriu, riconduce l’atteggiamento della Hillesum a una forma di “resistenza esistenziale”:[10] si tratta di una resistenza che non chiama in causa le risorse militari, economiche e teconologiche nella lotta contro il male, ma che punta sulle proprie risorse interiori, spirituali e relazionali .

Nel caso di Etty Hillesum,  sono convinta che ci sia qualcosa di esistenziale in gioco, ma non ritengo che si tratti di “resistenza”: resistere significa infatti attestarsi su una posizione difensiva, mentre l’atteggiamento di Etty Hillesum si caratterizza per la sua propositività.[11] Contro il male e l’odio, Etty non si limita a “resistere”, ma propone e pratica l’amore e la compassione, due attitudini verso l’altro diametralmente opposte alla violenza, all’intolleranza e al razzismo, di cui i nazisti sono espressione: “A ogni nuovo crimine e orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi”.[12] “ ‘Dopo la guerra, due correnti attraverseranno il mondo: una corrente di umanesimo e un’altra di odio’. Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio”.[13]

Etty  Hillesum ha delineato chiaramente un conflitto simbolico fra odio, risentimento, vendetta, da una parte – sentimenti tutti centrati sull’io –, e amore e compassione, da un’altra parte,  – sentimenti che tolgono spazio all’io per far posto all’altro.

Oltre ad esprimere nettamente questa sua posizione di fondo, che tuttavia pochi, nella cerchia delle sue amicizie, hanno compreso, vedendovi una rassegnazione e una passività pericolose, Etty Hillesum ha anche compiuto alcuni gesti concreti di “resistenza” al nazismo: pur non entrando personalmente nelle file della resistenza, Etty ha collaborato, di fatto, con essa, in quanto ha voluto che due delle sue lettere-reportage su Westerbork – il campo di smistamento in cui fu internata dal 1942 – fossero pubblicate dalla resistenza olandese proprio durante la Shoah, contribuendo a denunciarla e a documentarla.

Un altro gesto, che ha un chiaro significato politico, è quello con cui Etty si dimette dal  Consiglio ebraico di Amsterdam, dopo avervi lavorato per soli quindici giorni: in tale circostanza, Etty pronuncia un duro giudizio politico su questo organismo, nato per aiutare gli ebrei ma divenuto uno strumento di selezione nelle mani dei nazisti;[14] il suo giudizio anticipa di molti anni quello di Hannah Arendt sull’operato dei Consigli ebraici ne La banalità del male. Anziché imputare a Etty Hillesum una colpevole “passività” nel non volersi sottrarre all’internamento nel campo di Westerbork, si dovrebbero ammirare il suo senso di responsabilità nel non volersi salvare al prezzo della vita di qualcun altro, e la scelta di non collaborare in alcun modo con i nazisti.

Un’altra annotazione del Diario che può avere un significato politico è quella che Etty fa a proposito delle umiliazioni che i nazisti infliggono agli ebrei nell’Olanda occupata, come il divieto di percorrere le strade per la campagna: “Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose. Si deve insegnarlo agli ebrei”.[15] Etty doveva avere davvero una grande forza e sicurezza interiori per assumere, davanti a un nazista che la minacciava alla Gestapo, un atteggiamento di superiorità tale da non farsi intaccare interiormente dall’umiliazione:[16] è questo un aspetto importante di quella “resistenza esistenziale” che Etty ha concretamente praticato a partire da sé.

Tuttavia, complessivamente,  la strada che Etty Hillesum sceglie non è quella della resistenza, ma è quella di un’autorità femminile disarmata,[17] la quale si oppone, simbolicamente e concretamente, con l’aiuto prestato agli altri nel campo di Westerbork, al culto virile delle armi e della guerra.

Alla fine, dopo aver lottato a lungo contro il proprio “marciume”, contro l’odio indifferenziato, Etty accetta la compresenza di bene e male dentro di sé, ma, per lottare contro il male, si aggancia a un livello – il Dio salvato dentro di sé, -, in cui il bene non produce che bene. “Aiutare Dio”[18] è la formula straordinaria trovata da questa giovane donna, che, di fronte al silenzio di Dio al cospetto di Auschwitz, impedisce che Dio l’abbandoni, perché è lei a non abbandonare Dio: Dio non è responsabile, è l’uomo a portare interamente la responsabilità del male. Di fronte al male che dilaga, Etty si propone di aiutare Dio a non assentarsi del tutto dal cuore degli uomini: “aiutare Dio” significa per Etty concretamente aiutare il prossimo, la cui miseria e sofferenza custodiscono il divino. Dio abita proprio lì, nella fragilità umana esposta alla forza. Salvando Dio dentro di sé e contribuendo a disseppellirlo dal cuore di altri uomini induriti dalla sofferenza, Etty evita di lasciarsi andare alla disperazione di cui sono preda la maggior parte degli altri deportati; è consapevole di portare un carico prezioso, qualcosa da consegnare alle generazioni future: Dio dentro di sé, una scintilla divina consegnata interamente alla fragilità della creatura.

Prima di Hans Jonas, che si è interrogato sul silenzio di Dio di fronte ad Auschwitz, Etty Hillesum ha rinunciato all’attributo dell’onnipotenza divina per salvare la bontà di Dio:[19] Dio non è onnipotente, è anzi impotente di fronte al dilagare di un male, la cui responsabilità grava interamente sull’uomo. E all’uomo stesso è affidato il compito di salvare Dio dentro di sé, affinché la distruzione non sia completa.

Per il suo rifiuto dell’odio e per la sua capacità di farsi carico della sofferenza del suo tempo, Etty Hillesum non è forse da annoverare fra quei trentasei giusti che, secondo la tradizione ebraica, in ogni generazione, portano sulle loro spalle il dolore del mondo e intercedono a favore di un’umanità altrimenti irrimediabilmente votata al male ?[20]

 

La differenza femminile, in Etty Hillesum, si può riconoscere anche nella qualità della sua narrazione della Shoah: fin dall’inizio del Diario, il suo sforzo è quello di dire l’esperienza. E’ uno sforzo che conosce un parziale scacco, dal momento che nell’esperienza vissuta c’è sempre qualcosa di ineffabile, di indicibile: il miracolo quotidiano della presenza – quel viso, questo fiore, quell’atmosfera irripetibile – è per Etty qualcosa di inafferrabile, così vivo mentre lo vive e così sfuggente quando si mette a scrivere.

Lo stesso sforzo e lo stesso parziale scacco Etty Hillesum li sperimenta quando la vita le mette sotto gli occhi, nel campo di Westerbork, il libro vivente dell’esperienza: ancora una volta, si tratta di una dimensione esistenziale da decifrare e di cui rendere conto nella scrittura. Ma qui entra in gioco un aspetto della scrittura, che Etty non aveva mai affrontato prima: viene in primo piano la  scrittura come testimonianza.

Etty avrebbe voluto essere scrittrice, non testimone: inzia a scrivere il Diario, su suggerimento del suo psicoterapeuta e amante, Julius Spier, come forma di autoterapia, e come laboratorio di scrittura, con l’intenzione di diventare scrittrice. Ma le circostanze le affidano il compito di essere testimone, e lei accetta di assolverlo: “dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com’è ora e non è mai stata in passato – non in questa forma totalitaria, organizzata per grandi masse, estesa all’Europa intera. Dovrà pur sopravvivere qualcuno che lo possa fare”.[21]

Posta di fronte all’impegno della testimonianza, Etty si chiede quali forme di scrittura siano le più adatte a rendere conto dell’esperienza-limite della Shoah, e ne indica due: poesia e favola.

La poesia implica una presa di distanza dall’immediato, dal carattere troppo bruciante del vissuto; gli spazi bianchi, gli intervalli di silenzio intorno ai versi indicano lo sforzo di trovare le poche parole essenziali, necessarie, che devono stagliarsi su uno sfondo di silenzio.

L’esigenza della favola si fa sentire perché, dal momento che la realtà è divenuta irreale a forza di orrore, occorre una narrazione non realistica per restituirle realtà e credibilità. Inoltre, la fiaba ha la capacità di rendere universale e comunicabile al di là dei confini del tempo e dello spazio un evento contingente, come i maestri ebrei hanno sempre fatto;[22] Etty si riallaccia così idealmente alla tradizione dei racconti dei chassidim.

Di fatto, tuttavia, Etty Hillesum non ha avuto il tempo di scrivere né poesie né fiabe sulla tragica realtà di Westerbork; ci ha lasciato però molte immagini poetiche, nelle sue lettere e nel suo Diario, come questa immagine di una baracca nel campo: “Quella baracca talvolta al chiaro di luna, fatta d’argento e d’eternità: come un giocattolino sfuggito alla mano distratta di Dio”.[23] In immagini poetiche come questa, troviamo strettamente congiunte sventura e bellezza:[24] la sventura fa sentire più acutamente la preziosità delle cose belle, che lo sono tanto più quanto più sono esposte al rischio della distruzione.

La bellezza non elimina la sventura, ma fa sentire che, accanto alla sventura, c’è altro, c’è la carezza misericordiosa del bello: l’amore per la bellezza è “amore per tutte le cose veramente preziose che la cattiva sorte può distruggere”.[25] Così, nel campo, quando sembra che non abbia più niente da dare, Etty offre a Dio un’immagine: il profilo di una nuvola, il volo dei gabbiani, il giallo dei lupini. Anche a Westerbork, Etty Hillesum esprime comunque un indomabile attaccamento alla vita, che in lei fa tutt’uno con la compassione per l’esistenza umana minacciata dalla sofferenza e dalla morte.

C’è in lei amore per la singolarità, per ciascun singolo essere che incontra: nelle sue descrizioni di Westerbork, Etty cerca di salvare dall’oblio, con la sua scrittura, ogni singola persona, in brevi ritratti efficaci e incisivi, che ci restituiscono l’immagine di una ragazzina gobba, di una signora che teneva la sua casa così pulita e che ora è sopraffatta dal fango di Westerbork, di un ragazzo in pigiama celeste che si è nascosto per paura prima della partenza del convoglio per Auschwitz, il martedì.

Ora, era proprio la singolarità ciò che il totalitarismo nazista voleva distruggere ed eliminare, con la morte in serie nei campi, con la cancellazione della memoria, con la riduzione dei singoli al grado zero della specie umana. Etty Hillesum si oppone fermamente a questo appiattimento  mortifero, sia registrando minuziosamente l’evoluzione della propria vita interiore nel Diario, sia ritraendo, nelle sue narrazioni di Westerbork, quante più persone possibile, ognuna con la propria storia e con la propria singolarità irripetibile.

Non è un caso che una pensatrice politica come Hannah Arendt, proprio riflettendo sul totalitarismo e sull’amara esperienza dei campi, e per far sì che tutto questo non si ripeta, abbia elaborato l’idea dell’azione politica come un agire di concerto, fondato sulla pluralità e sull’apporto della singolarità di ciascuno.[26]

Etty Hillesum non è una pensatrice politica; avrebbe semmai potuto diventare una scrittrice di talento: con il suo talento per la scrittura, lei salva dall’oblio, dalla distruzione della memoria, voluta dai nazisti come corollario dei campi, quante più persone possibile, dedicando a ciascuna poche pennellate incisive.

I suoi ritratti si caratterizzano per l’assenza di giudizio, perché ciascuno si giudica da sé, per qualche dettaglio rivelatore: così, un amaro sarcasmo tinge di nero il ritratto del comandante del campo, che alcuni dicono sia un gentleman, ma, che per essere un gentleman, ricopre un ufficio davvero singolare;[27] una dolente indignazione caratterizza l’immagine degli uomini in uniforme verde che spingono  gli ebrei sui convogli, al punto che è ben difficile ritenere che valga anche per loro la concezione biblica secondo cui l’uomo sarebbe immagine di Dio;[28] una pena tinta di amarezza colora i ritratti di quegli ebrei che, nella speranza di salvarsi, collaborano o sono servili;[29] una partecipe compassione, infine, anima i ritratti di tutti gli altri abitanti del campo, che Etty salva dall’oblio, ad uno ad uno, sottolineando che ciascuno porta con sé qualcosa di unico e di irripetibile.

Tuttavia, la narrazione che Etty Hillesum ci ha lasciato di Westerbork è parziale e selettiva: volutamente, Etty sceglie di non lasciare troppo spazio alle realtà più dure, non vuole fare la cronaca degli orrori. Altri hanno fornito, dello stesso campo di Westerbork, una descrizione più cruda: ad esempio, Philip Mechanicus, buon amico di Etty a Westerbork, fa una descrizione del campo più dura e oggettiva, in cui trovano posto i suicidi, le crudeltà e il sadismo dei nazisti, le epidemie di dissenteria, le pulci…[30]

Di tutto questo, Etty ci ha lasciato un quadro più sfumato: possiamo apprezzare la delicatezza con cui vuole preservare dall’orrore i destinatari delle sue lettere, ma c’è dell’altro. Lei stessa scrive che “non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa”.[31] Con il suo impegno di continuare a pensare a ciò che sta capitando, di essere il “cuore pensante della baracca”, contrastando l’atteggiamento di molti, che, di fronte all’orrore, si rifiutano di pensare, Etty Hillesum esprime l’esigenza che dai campi stessi nascano nuovi pensieri, nuove conoscenze, che “dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato”.[32] Proprio a partire dai campi, occorre trovare “un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della propria miseria e disperazione”,[33] un senso da consegnare alle generazioni future. Come Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante e teologo cristiano ucciso per essersi opposto al nazismo,[34] Etty Hillesum riesce a vivere intensamente il presente e insieme a pensare al futuro, alle generazioni che verranno.

Noi che la leggiamo oggi, a tanti anni di distanza, siamo colpiti dalla forza di questa giovane donna, che è riuscita a conservare intatte, nel campo di Westerbork, la sua umanità e la sua apertura al divino. Indubbiamente, Westerbork non è Auschwitz: è un campo di transito e non di sterminio, le comunicazioni con l’esterno sono ancora possibili, i pacchi di cibo inviati dagli amici attenuano la fame, e Etty, in un primo tempo, può tornare più volte ad Amsterdam per curarsi. Tuttavia, colpisce il fatto che la narrazione di questa giovane donna sia molto lontana da quella degradazione al di sotto della soglia dell’umano che altri testimoni dei campi hanno dovuto dolorosamente constatare. La convinzione che “le materie prime della vita sono dappertutto le stesse, che in ogni luogo di questa terra si può vivere la propria vita in modo ricco di significato o altrimenti morire”,[35] spinge Etty ad affermare che vive a Westerbork proprio come quando stava ad Amsterdam.[36]

Nessuno dei sopravvissuti all’orrore di Auschwitz avrebbe potuto dire questo: confrontando la sua descrizione di Westerbork con quelle di altri testimoni dei campi, come Primo Levi[37] o Robert Antelme,[38] si ha l’impressione di trovarsi davanti a una differenza abissale. Ci sono sì dei punti di contatto, come la percezione della bellezza – un canto di Dante, il movimento delle nuvole, le colline – come ciò che può far riaffiorare l’umanità nonostante la degradazione, e la consapevolezza della fecondità di un gesto di aiuto e di compassione, che può suscitarne altri. Ma, in generale, siamo davanti a una qualità davvero diversa di testimonianza e di narrazione. E’ mia convinzione che in questa diversità giochi una parte non piccola la differenza femminile, l’essere donna di Etty Hillesum. Infatti anche altre autrici che, a differenza di Etty, sono sopravvissute ad Auschwitz e che ne hanno reso testimonianza, come Dora Klein[39] e Ruth Elias,[40] hanno sì  raccontato l’orrore, ma lo hanno in parte sfumato, forse per una sorta di pudore, lo hanno contenuto.

C’entra dunque l’essere donna di Etty Hillesum. L’essere donna aiuta Etty, innanzitutto, a ridurre la sensazione si impotenza da cui sono colpiti tutti i residenti del campo, perché lei assume quei compiti di aiuto e di assistenza che sono tradizionalmente riservati alle donne. Anche in ciò, tuttavia, la lucidità del suo sguardo e la sua attitudine a essere un “cuore pensante” non vengono meno, perché Etty si chiede talvolta se questo “aiutare” gli altri non sia, in definitiva, un aiutarli a morire.

Inoltre, l’agire della differenza femminile si coglie bene, in Etty, nella sua estraneità alle contrapposizioni maschili, siano esse quelle fra le diverse categorie di ebrei o quelle religiose, nazionali, razziali. C’è in lei un’estraneità femminile e a un mondo maschile fatto di contrapposizioni e di violenza. La sola “appartenenza” che Etty ha preso consapevolmente su di sé è stata quella che le circostanze le hanno imposto, l’essere ebrea, ma anche questa lei l’ha interpretata in modo non esclusivo né escludente, ma anzi come apertura ad altre forme di spiritualità, dal cristianesimo all’islam alle filosofie orientali.

Forse proprio nel custodire Dio dentro di sé, come la parte più riposta di se stessa, come un carico prezioso da portare in salvo oltre la catastofe, sta il segreto per cui questa giovane donna è riuscita a non farsi degradare in alcun modo dal campo. Etty scrive spesso di sentirsi fra le braccia della “nuda vita”, ma, a ben guardare, la sua vita non è mai così “nuda” quanto  quella di altri testimoni della Shoah, perché al centro c’è una fede in Dio che sostiene Etty fino alla fine: “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”.[41] Essendo riuscita a salvare un pezzetto di Dio dentro di sé, Etty è riuscita anche a preservare se stessa dalla degradazione, a non farsi intaccare interiormente dalla sventura subita: col suo eroismo femminile, ha davvero salvato Dio, lo ha portato oltre la catastrofe.

 

5/2/2003

 

 

 

 

 

 

[1]              Cfr. Etty Hillesum,  Diario 1941-1943, a cura di J. G. Gaarlandt, tr. it. di C. Passanti, Adelphi, Milano 1985.

[2]              Cfr. Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, prefazione di J. G. Gaarlandt, tr. it. di C. Passanti, Adelphi, Milano 1990. L’edizione integrale  degli  scritti della Hillesum  è Etty. De nagelaten geschriften van Etty Hillesum 1941-1943, a cura di K. A. D. Smelik, Uitgeverij Balans, Amsterdam 1986, ora disponibile anche  in traduzione inglese: cfr. Etty. The Letters  and Diaries of Etty Hillesum 1941-1943, ed. by K. A. D. Smelik, tr. by  A. J. Pomerans,  W. B. Eerdemans  Publishing  Company, Grand  Rapids, Michigan  2002.

[3]              Sui motivi della tardiva fortuna  degli scritti della Hillesum, cfr. Klaas  Smelik, Una testimone in anticipo sui tempi, “Alfazeta” 60, La resistenza  esistenziale di Etty Hillesum, VI (1996), n. 10-11, pp. 28-31.

[4]              Hillesum, Diario, cit., pp. 99-100.

[5]              Per un confronto  fra  il Diario di Etty Hillesum e quello di Anna Franck, cfr.  l’intervista  a  Frediano Sessi, a cura di Marco Deriu, L’altro nell’io: Etty Hillesum ed il conflitto nell’essere, “Alfazeta” 60, La resistenza  esistenziale di Etty Hillesum, VI (1996), n. 10-11, pp. 32-37.

[6]              Cfr. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1996.

[7]              Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a  Gerusalemme, tr. it. di P. Bernardini, Milano 1995.

[8]              Hillesum, Diario, cit., pp. 29-30.

[9]              Cfr. Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, tr. it. di E. Klersy Imberciadori, Garzanti, Milano 1992, pp. 211-222.

[10]            Cfr. Marco Deriu, La resistenza  esistenziale di Etty Hillesum, “Alfazeta”  60, La resistenza  esistenziale di Etty Hillesum, VI (1996), n. 10-11, pp. 8-15.

[11]         Cfr. Andea Devoto, Propositività e assertività nel messaggio di Etty Hillesum, in AA. VV., L’esperienza dell’Altro. Studi su Etty Hillesum, Apeiron, Roma 1990, pp. 129-136.

[12]            Hillesum, Lettere,  cit., p. 87.

[13]            Hillesum, Diario, cit., p. 207.

[14]            Cfr. ivi, p. 191: “Naturalmente, non si potrà mai più riparare  al fatto che alcuni ebrei collaborino a far deportare tutti gli altri. Più tardi la storia dovrà pronunciarsi su  questo punto”.

[15]            Ivi, p. 126.

[16]            Cfr. ivi, pp. 101-102.

[17]            Cfr. Gemma Beretta, Etty Hillesum: la forza disarmata dell’autorità, “Alfazeta” 60, La resistenza  esistenziale  di Etty Hillesum, VI (1996), n. 10-11, pp. 48-53.

[18]         Su questo tema nella Hillesum, cfr. Joseph Sievers, “Aiutare Dio”. Riflessioni su vita e pensiero di Etty Hillesum, “Nuova Umanità”, XVII (1995), n. 3-4, pp. 113-127.

[19]            Cfr Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, tr. it. di C. Angelino e M. Vento, Il Melangolo, Genova 1993.

 

[20]            Cfr. Loet Swart, Etty Hillesum e la tradizione mistica, in AA. VV., L’esperienza dell’Altro,  cit., pp. 169-184, in particolare  pp. 179-180.

[21]            Hillesum, Diario, cit., pp. 162-163.

[22]            Cfr. Giacoma Limentani, Il linguaggio del corpo, in AA. VV., L’esperienza dell’Altro, cit., pp. 137-144, in particolare  p. 144.

[23]            Hillesum, Diario, cit., p. 212.

[24]            Sulla narrazione di Westerbork di Etty Hillesum, cfr. il mio Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Messaggero, Padova  2002, pp. 109-128.

[25]            Cfr. Simone Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, tr. it. di O. Nemi, Rusconi, Milano 1988, p. 138.

[26]            Cfr. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, intr. di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1989.

[27]            Cfr. Hillesum, Lettere, cit., p. 39.

[28]            Cfr. ivi, pp. 128-129.

[29]            Cfr. ivi, p. 138.

[30]            Sulla differenza  fra  la descrizione di Westerbork di Etty Hillesum e quella di Philip Mechanicus, cfr.  Nadia  Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del Lager, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 110-114.

[31]            Hillesum, Lettere, cit., p. 25.

[32]            Ivi, p. 45.

[33]            Ibidem.

[34]         Cfr. Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, tr. it. a cura di A. Gallas, Edizioni Paoline, Milano 1988.

 

[35]            Hillesum, Lettere,  cit., p. 37.

[36]            Cfr. ivi, p. 147.

[37]            Cfr. Primo  Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1989, e Id., I sommersi e i salvati,  Einaudi, Torino 1995.

[38]            Cfr. Robert  Antelme, La specie umana, tr. it. di G. Vittorini, Einaudi, Torino 1969.

[39]            Cfr. Dora Klein, Vivere  e  sopravvivere. Diario 1936-1945, Mursia, Milano  2001.

[40]            Cfr. Ruth Elias, La speranza  mi ha tenuto in vita, tr. it. di M. Margara, Giunti, Firenze 1993. Per uno studio della Shoah  dal punto di vista della differenza  femminile, cfr.  Dalia Ofer e Leonore J. Weitzman (a cura di), Donne nell’Olocausto, tr. it. di D. Scaffei,  introduzione  di A. Bravo, Le Lettere, Firenze  2001.

[41]            Hillesum, Diario, cit., p. 169.