diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 12 - 2014

Taglio del presente

Eppur ci sono

image001Il disagio e il fastidio che sempre mi provoca lo sguardo corto del nostro sistema informativo, hanno trovato conforto e legittimità nell’invito di Françoise Collin a “guardare alle altre donne”, ricordato da Marisa Forcina a un recente seminario di studio all’Università di Verona intorno al pensiero della filosofa.

L’invito di Collin mi ha ridato l’agio del posto di ascolto e sguardo a donne d’altrove, in cui sto con piacere e che si radica nel desiderio autentico di un di più di conoscenza di pratiche agite nelle diverse realtà di contesto culturale e geogafico, che mi abita e ha soddisfazione solo nel concreto intreccio di relazioni dirette, che mi piace coltivare.

È del resto una posizione in fedeltà alla radice in cui mi riconosco, la radice della pratica politica delle donne nel pensiero della differenza in Italia: la relazione come peculiare sensato cammino di conoscenza e di libertà femminile. Nello specifico della realtà delle donne arabe nell’area mediorientale, teatro delle recenti rivoluzioni non ancora concluse, relazioni a due che si moltiplicano mi hanno consentito di fondare e mantenere aperto un dialogo di scambio, che è stato e continua a essere l’unica via di vicinanza al vero in cui sento di credere.

Il sistema mediatico italiano, nel risicato spazio che ancora concede alle questioni che muovono l’area dei Paesi arabi protagonisti delle rivoluzioni del 2011, ha plaudito con soddisfazione alle recenti svolte costituzionaliste di Egitto e Tunisia, non esitando a definirle “svolta epocale di cambiamento della realtà delle donne egiziane e tunisine”.

A suscitare la soddisfazione di opinionisti e operatori mediatici sono stati nello specifico, l’articolo 20 della nuova Costituzione tunisina, varata lo scorso gennaio, e l’articolo 53 della bozza della nuova Costituzione egiziana, di prossimo vaglio al referendum popolare.

Non altrettanto appagate sono le donne egiziane e tunisine.

Il proposto articolo 53 della Costituzione egiziana infatti, che “Vieta la discriminazione per religione, sesso, origini, razza o affiliazione politica” e al comma 1 “stabilisce parità di diritti tra uomini e donne”, resta al contempo di inquietante ambiguità quando specifica che “Autorizza/delega l’uomo a bilanciare i doveri familiari e lavorativi delle donne”.

Dal canto suo il citato articolo 20 della nuova Costituzione tunisina, se pure accolto con blanda soddisfazione dalle donne tunisine, le ha tuttavia mantenute in un atteggiamento di consapevole cautela. L’articolo afferma “Tutti i cittadini e le cittadine hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Sono uguali davanti alla legge senza alcuna discriminazione”, rimandando di fatto la posizione delle donne nella collettività a una questione più di diritti che di libertà femminile, eludendo la volontà espressa con decisione dalle donne stesse. L’uguaglianza uomo-donna stabilita per legge, è riconosciuta dalle tunisine come passo necessario ma non sostanziale per i percorsi di libertà femminile intrapresi e perseguiti nel loro agire politico.

Le donne infatti già dai primi giorni delle rivoluzioni non hanno proposto elenchi di diritti, hanno piuttosto reclamato con grande forza e fermezza e continuano ad esigere: ayat, karama, hurria (vita, dignità, libertà), rafforzata in hurrya al masria (libertà della donna) soprattutto dalle donne egiziane, a seguito delle reiterate strategie di violenza, organizzate dagli establishment governativi che si sono avvicendati nel Paese dalla caduta di Mubarak, per soffocarne il vivo agire politico.

Il comma 3 dell’articolo 53 inoltre, “lo Stato protegge la donna da ogni tipo di discriminazione e di violenza”, suona indubbiamente paradossale in un Paese in cui le donne già si erano mobilitate con grande forza contro “l’arma degli stupri e delle molestie politiche”, e le giovani con i coetanei avevano costituito le “Tahir Body Guard” per dare risposta fisica al dilagante problema delle violenze sessuali del dopo Mubarak. Donne e ragazze attivando anche appoggio e sostegno di amici, familiari, conoscenti maschi, hanno saputo organizzare il contrasto alla violenza di cui erano oggetto, senz’armi e senza bisogno di leggi dello Stato.

 

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“No alle molestie – La libertà non si tocca” Graffito vignetta su un muro del Cairo

 

La forza femminile non percorre mai sentieri risaputi, necessariamente legalitari, filo istituzionali, e mal si addice alle pratiche di libertà femminile tutt’ora agite dalle donne arabe delle rivoluzioni.

La questione vera è la forza messa in gioco dalle donne nel sottrarsi a quei rapporti di forza su cui si fonda ogni tentativo di restaurazione e a cui ogni nuovo establishment di potere le vorrebbe condurre.

Nei Paesi liberati dai regimi, in modo particolarmente clamoroso in Egitto, dove è in atto una nuova violenta ventata belligerante, che rischia di travolgere i processi di cambiamento emersi dalle rivoluzioni, le donne non accettano di essere irretite, assimilate, intrappolate nella logica dello scontro e, in fedeltà a sé e a quanto praticato dai primi giorni delle rivolte, continuano a guardare avanti. Consapevoli che un popolo, una comunità che rinascono risvegliano la speranza e che molto del cambiamento possibile dipende da loro, le donne riescono ancora e sempre a sottrarsi alla logica della contrapposizione, che resta la dimensione in cui gli uomini preferiscono fermarsi.

Donne resistenti indubbiamente, spesso forzate a mettere in gioco, nella resistenza sempre attiva, la forza e la potenza che le abita, per opporsi alle invasioni, alle ricolonizzazioni patriarcali dei propri spazi di libertà e di vita, per poter continuare a viversi fiere in libertà. Donne che restano consapevolmente vigili, in grado di riconoscere i segni di ogni tentativo di ingabbiarle, imprigionarle, recintarle, e contrastarli per far rispettare la forza che mettono in campo per avviare il cambiamento, per perseguire instancabilmente il proposito di essere sé stesse, libere, indipendenti, con il proprio pensiero autonomo.

L’amica Monica Macchi, studiosa di cinema arabo, nella sua recensione a La bicicletta verde della giovane cineasta saudita Haifaa Al-Mansour riconosceva, “come scritto nella locandina «la rivoluzione si fa se c’è una ragazza sul sellino», ma sul sellino ci deve essere una ragazza come Wadjda che ripete «Ho un piano»: unire intelligenza e volontà per fare la rivoluzione. L’elemento di disturbo non è rappresentato dall’intelligenza della donna, ma dal voler esistere in quanto volontà indipendente, l’intelligenza può essere messa al servizio del potere patriarcale, la volontà di essere indipendente no! E nella lingua araba esiste un verbo, coniugabile solo al femminile!(نشز) per designare una donna che si ribella alla volontà del marito affermando la propria autonomia, dalla stessa radice deriva (نشوز) un sostantivo che significa disordine”. Dis-ordine inteso nel senso di scompiglio di un ordine nemico della libertà femminile.

Sempre Macchi nella citata recensione sottolinea un altro fondamento essenziale: nel mondo arabo il segno del femminile è la chiusura, “persino nella grammatica araba ciò che contraddistingue il genere femminile è la ة ta marbuta cioè la ta chiusa”. È questa chiusura che le donne mirano a contrastare con il loro agire politico, con pratiche di resistenza e sottrazione in un cammino di sempre più libera e potente autodeterminazione. Ma una medesima chiusura è colta dalle donne del mondo arabo musulmano, nella diffusa disattenzione dell’Occidente in merito alla conoscenza delle loro effettive realtà di azione e orizzonte politico, negligenza che si è manifestata in modo eclatante nei confronti delle realtà in movimento delle donne nei luoghi delle rivoluzioni arabe, al momento degli scoppi delle rivolte e ancor più nei percorsi che ne sono seguiti e restano tutt’ora vivi.

Non sempre peraltro si tratta di acquisire nuove leggi, quanto piuttosto di ottenerne la cancellazione, come è stato il caso maroccchino dell’abrogazione, sancita lo scorso 23 gennaio, dell’articolo 475 del codice penale, che consentiva “all’aggressore di non essere perseguito in caso di matrimonio con la vittima”, per cui il responsabile dello stupro di una minorenne poteva evitare il carcere sposandola.

Anche questo ulteriore passo significativo nel cammino di libertà femminile, di dignità della donna, non si è concretizzato per magia né per repentina magnanimità del governo, ma su pressione della piazza e di associazioni femminili. Nel silenzio pressoché generale dei nostri media, in molte strade e piazze del Marocco le donne hanno mantenuto con determinazione una mobilitazione permanente, donne di ogni appartenenza sociale, economica, religiosa e generazionale, anche se massiccia è stata la presenza delle giovani generazioni.

Molte delle ventenni che hanno partecipato al Movimento del 20 febbraio sono ragazze che hanno lasciato i villaggi dei genitori per andare a studiare all’Università vivendo da sole in grandi città, con il guadagno di uno spazio più ampio di libertà. In parte sono attiviste per i diritti umani, indossano o non indossano il velo e comunque rimettono la religione alla sfera privata. “Ma ci sono anche ragazze che scelgono percorsi di vita diversi, per ragioni economiche, per mancanza di strumenti culturali” mi precisa Fatima. Sia in un caso che nell’altro incidono moltissimo l’educazione, l’istruzione, l’inclinazione religiosa, la professione, gli orientamenti e le scelte personali. Non va dimenticato che in Marocco l’analfabetismo femminile è circa all’ottanta per cento ed è proprio intorno a questo nodo che le associazioni di donne e le attiviste si stanno spendendo, perché dare alle donne la capacità di saper leggere e scrivere significa offrire loro la possibilità di aprire uno spazio sempre più ampio di libertà personale.

Sempre nel registro della sottrazione, più profonda e legittima dell’attuale affrettato e sbrigativo entusiasmo occidentale, è stata la soddisfazione delle donne tunisine nell’agosto del 2012, per essere riuscite, grazie alla loro sempre attenta vigilanza, coniugata alle pratiche di mobilitazione permanente e di resistenza, a contrastare efficacemente il progetto di Ennahda all’epoca al governo, di introdurre nella nuova Costituzione il principio di “complementarietà” della donna all’uomo. Le proteste di piazza, organizzate dalle donne ma partecipate anche da molti uomini, culminate con le imponenti manifestazioni del 13 agosto in tutta la Tunisia, costrinsero il partito a rinunciarvi e il controverso articolo 21 venne ritirato definitivamente.

In tutti i Paesi attraversati dalle rivolte, dalle rivoluzioni in poi le donne, ognuna di loro e tutte insieme, hanno portato in piazza non il martirio, ma la forza, la potenza, il coraggio di donna che persegue la propria libertà, e hanno ben chiaro che il proprio progetto di libertà non può essere sottoposto a legge, imposto per decreto indifferenziato. Proprio perché le donne sono tante e diverse, tutte si riconoscono l’inalienabile diritto a decidere come diventare scegliendo, nel comune cammino di cambiamento, di continuare a essere insieme e differenti piuttosto che restare diseguali e separate.

Un’altra vague trionfalista si è affacciata nel sistema mediatico italiano, un’onda tinta di rosa, colore evidentemente tanto amato dall’Occidente per categorizzare e de-finire le donne e tutto quanto le concerne, da aver permeato le letture di quanto si sta muovendo nella realtà delle donne arabe.

A essere risucchiati dalla coloritura sono stati il tunisino articolo 45 “Lo Stato garantisce i diritti acquisiti dalle donne e lavora per sostenerli e svilupparli. Inoltre lo Stato garantisce le pari opportunità tra uomo e donna” e il comma 2 dell’articolo 53 egiziano “si garantisce la percentuale minima di rappresentanza per le donne in parlamento”, “Finalmente anche per le donne arabe le quote rosa!” hanno proclamato quasi all’unisono i nostri media, glissando sul particolare che solo il 10 per cento di rappresentanti donne è stato ammesso alla Costituente egiziana.

Ma anche l’avvocata saudita Bayan Alzahran e le tre colleghe con cui a ottobre del 2013 ha aperto il loro studio a Riyadh, non sono sfuggite al tocco di pennello intinto nel rosa.

«Abbiamo già preso in carico alcuni casi che riguardano tanto persone fisiche quanto aziende” ha recentemente dichiarato Alzahran, affermando compiaciuta che la reazione della società all’apertura del loro studio, il primo tutto al femminile, è stata positiva, premiando il loro alto livello di competenza e riconoscendone l’autorità professionale “e noi, come avvocate e come donne di questo paese, cerchiamo costantemente di progredire in ciò che è buono per le donne saudite”. Uno studio legale gestito da tre professioniste competenti e non come banalmente restituito in fugaci notiziole apparse qua e là in Italia lo scorso gennaio il “Primo studio legale rosa a Riad”. Ancora non ho avuto occasione di visitarlo, ma un’amica di ritorno dalla capitale mi assicura che di rosa non c’è nemmeno la fodera delle poltrone.

Neppure a “La bicicletta verde” si è resistito nel passare un tocco del colore di rito, definendo il film “Una battaglia rosa contro il divieto all’uso della bicicletta”. Peraltro la stessa traduzione del titolo “Wadjda”,diventato “La bicicletta verde”, tradisce il senso che la regista aveva scelto nel porre a titolo il nome della protagonista: una giovane donna, non una bicicletta. L’efficacia dell’azione politica agita con lo strumento artistico di Haifaa Al-Mansour, non è stata questione di colore quanto di guadagno di un piccolo, tuttavia significativo passo nel lento ma irriducibile percorso di libertà femminile delle saudite. Infatti, benché vietato in Arabia Saudita, il film guadagnando considerevole interesse e ampi consensi a livello internazionale, ha di fatto costretto il potere politico e religioso saudita, nell’aprile dello scorso anno, a concedere alle donne l’uso della bicicletta in pubblico.

Nonostante i limiti applicati,“Il mezzo può essere usato dalle donne nei parchi e nelle zone ricreative, ma a due condizioni: che siano accompagnate da un parente maschio e che indossino l’abaya (la sopraveste nera che copre la donna dalla testa ai piedi)”, la decisione rappresenta un’apertura significativa nel contesto saudita.

Sempre in Arabia Saudita le donne, che ancora non possono guidare un’auto da sole, già dall’inizio degli anni novanta, organizzate in un primo manipolo di “ribelli”, hanno sfidato il divieto girando per un giorno sole alla guida delle loro auto. Pur subendo arresti e condanne, decise a non arrendersi le stesse donne hanno fondato il movimento “Women 2drive!”, che ha conquistato sempre più spazio di presenza, anche internazionale grazie ai video di autoriprese alla guida libera lanciati in rete, e di presenze. Alla giornata di protesta contro il divieto di guida del 25 ottobre scorso, undicimila donne hanno risposto all’appello, nella capitale e in altre città e regioni del Paese, e si sono messe alla guida delle loro automobili senza accompagnatori, dagli arresti e condanne, c’è stato il passaggio a “semplici” multe pecuniarie.

L’obiettivo per cui le saudite non desistono dal reiterare azioni di protesta per rimettere in campo la loro volontà di ottenere il diritto a poter condurre da sole un’automobile, non è certo il semplice libero permesso di guida; partendo dal permesso, l’impegno che spendono è per aprire a cambiamenti radicali nella vita delle donne nel loro paese.

Un’attenzione più fine e accorta ci direbbe che le donne arabe non sono un’indistinta massa monocolore, ma una moltitudine colorata e difforme di soggetti. Donne imperfette probabilmente, forse sconfitte, forse no, mai arrese, comunque destinate a produrre cambiamenti al proprio passaggio, e per ogni donna che perpetua la classica subordinazione al sistema valoriale dei patriarchi, molte altre attuano abili strategie per scardinarlo dall’interno e guadagnare irreversibili spazi di libertà.

 

La stessa logora questione del velo si ferma a consolidate semplificazioni, senza considerare che, ora più che mai, si tratta di scelta dettata soprattutto da un riposizionamento delle donne all’interno del discorso religioso che, a partire dalla loro attiva presenza nelle rivoluzioni, non resta più circoscritto alla sfera privata e indiscutibile, ma può essere ragionato anche nello spazio pubblico.


image005NON CATEGORIZZATECI
afferma questo stencil su un muro del Cairo, con niqab, hijab o a capo scoperto siamo donne. Un appello interno, rivolto ai fondamentalisti islamici, ma anche a chi guarda le donne musulmane da fuori, da una lontananza non solo geografica. Lo stencil e la sua scritta ci invitano a uno sguardo proiettato al di là del pensato e del pensabile, all’accettazione di un mutamento che appare incerto, senza rigettarlo ma accogliendolo come esperienza di un divenire nuovo.

“Fare qualunque generalizzazione è fuorviante: non siamo delle categorie uniche”, è l’avvertimento instancabilmente ripetuto dalle donne arabe dai paesi delle rivoluzioni anche ai media occidentali, seppure scarsamente impegnati a coglierlo e rilanciarlo. Anche per il velo, poiché attiene a ogni singola donna e ogni scelta è singolare, l’unica possibilità di incontrarne il senso autentico, resta la relazione in cui chi mi sta di fronte mi dice di sé piuttosto che teorizzare.

Con la consapevolezza che restano ancora molti nodi da sciogliere in Paesi dalle fortissime contraddizioni, con grandi spinte al cambiamento sociale e culturale ma anche con spinte che vanno nella direzione opposta, ognuna a partire da sé e insieme alle altre, con l’intelligenza collettiva realizzata, difende la progettualità condivisa per guadagnare un futuro differente.

La questione quindi del “guardare alle altre donne” si traduce nel creare, o rafforzare laddove già sono in essere, ponti di relazioni tra il nostro mondo nel nord del Mediterraneo e quello, nemmeno troppo lontano, delle realtà che ci stanno di fronte sulle coste del suo sud. Perché se si creano ponti si creano anche i presupposti per transiti e passaggi, nell’una e nell’altra direzione, si apre un’autentica via di scambio che consente lo spostamento da punti di vista a spunti di vista.

Per non rischiare di scivolare in inutili integralismi, lasciando posto al fanatismo o al moralismo, perché in questo non c’è forza e si perde, se stessa e l’altra, è fondamentale porsi in un atteggiamento libero, che ha a che fare con il rispetto, l’ascolto, il riconoscimento di qualunque soggettività. La forza più grande sta proprio nel riconoscere la diversità e averne rispetto, nel non negare ciò che non ci somiglia o ci appare incomprensibile, la forza vera è essere disposte a rimettersi in discussione, è coltivare il dubbio più che consolidare una certezza.

Al contempo è tuttavia ineludibile saper fare un passo indietro, compiere il gesto di empatia che apre un nuovo spazio in cui ci può essere posto per l’altra e perché altro possa accadere, e grazie alla relazione di scambio non restare più nella dimensione della de-finizione, per spostarsi in quella dell’ascolto e dell’interlocuzione con l’altra, le altre. Altre esistenze polifoniche, in cui ogni storia, ogni frammento di storia è una nota che per darsi senso si unisce ad altre, poiché anche l’assolo ha e prende senso se è accolto e ascoltato da altre, da altri.

Cogliere la sensatezza e l’efficacia di gesti poco comprensibili, aprire le porte del proprio ascolto per non avallare il corrente orientamento di chiusura, è possibile solo a condizione di uno spostamento incessante nella dimensione dell’altra, che non è facile e indubbiamente faticoso, ma che solo consente lo scambio fondato su una reciprocità di conoscenza che può rivelare orizzonti prospettici nuovi per loro, ma anche per noi, intendendo per noi e loro le differenti dislocazioni geografiche.

Al pesante, soffocante tessuto, ordito con i fili degli stereotipi, dei pregiudizi, della disinformazione dilagante, si tratta di sostituire una trama più leggera, piacevole, luminosa, colorata, tessuta con la creatività, l’apertura, la nuova conoscenza fuori dai luoghi comuni, che la via della relazione consente.

 

 

Fonti di riferimento:

– “FERITE DI PAROLE – Le donne in rivoluzione. Mille fuochi di voci, di gesti e di storie di vita”, Leila Ben Salah-Ivana Trevisani ed. Poiesis

– “Forma Cinema” Rivista online [1]