diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Ho Letto

Eliana Adler Segre Imparare a dirsi addio. Quando una vita volge al termine: guida per familiari, operatori, sanitari, volontari

(Milano: Proedi editore, 2005)

 

Di quanto si è innalzata la vita media nella civiltà europea? Non so quanto ne siamo consapevoli, ma: se nel 1901 l’aspettativa media di vita in Italia era di circa 43 anni, ora si aggira sugli 80. Si può dire che sia raddoppiata. Una volta gli ottantenni erano davvero pochi, ma oggi, con le terapie a disposizione, un reddito medio consente tutte le prevenzioni necessarie a prolungare la vita, anche se non sempre in buona salute. Come è cambiato nel frattempo il nostro rapporto con la morte? Con il simbolico della morte? Con la consapevolezza della morte e della finitudine?

Allontanare la morte nel tempo non serve a scongiurarla, e infatti in fondo sappiamo bene che questa sorte ci è riservata. Nascita e morte sono i due grandi eventi limite della vita, da quando nasciamo abbiamo una sola certezza: dobbiamo morire, tutto il resto non ha lo stesso grado di certezza; possiamo per esempio andare a scuola o no, decidere di studiare o no, sposarci o no, mettere al mondo figli oppure no, ma sicuramente prima o poi il solo fatto di essere nati ci porterà a morire. Eppure… è come se questo evento ci cogliesse sempre impreparati, come fosse sempre un fatto eccezionale. Questo è un problema culturale, e di questo si occupa il libro di Eliana Adler Segre, psicoanalista e psicoterapeuta. La morte è l’ultimo grande tabù della nostra civiltà. Parlare di sesso oggi è infatti quasi sempre ammesso da un punto di vista sociale, ma parlare di morte no: imbarazza l’interlocutore, “non sta bene”.

La morte, ma soprattutto il percorso di malattia che spesso l’accompagna, è invece l’oggetto di questo libro, che studia in modo prioritario il caso estremo dei malati di AIDS, per i quali il percorso di vita si trova improvvisamente accorciato, con tutti i problemi di rifiuto e di esclusione sociale che questo comporta all’interno del “contesto civile”, e tuttavia il saggio si pone anche come una riflessione più generale sul significato della morte e soprattutto sui suoi effetti relazionali nella vita dei viventi.

Prima di arrivare alla morte esiste infatti un percorso, che oggi è sempre più lungo, fatto di malattie più o meno gravi, ma con una caratteristica comune: sono infatti malattie irreversibili, che non prevedono la guarigione completa, ma soltanto la possibilità di convivere con esse. Esiste inoltre un contesto familiare all’interno del quale si sviluppa la malattia, e che spesso non è attrezzato culturalmente per far fronte a questo evento, sempre considerato e vissuto come eccedente la “normalità” del vissuto quotidiano.

Quasi sempre sono le donne di famiglia a farsi carico dell’accompagnamento del malato terminale o del moribondo, o dell’handicappato irreversibile, oppure tradizionalmente la nostra cultura ha appaltato ai religiosi il conforto e la salute psichica del malato terminale. Si pensi soltanto all’obbligo che hanno per legge tutti gli ospedali pubblici italiani di accogliere al loro interno una chiesa cattolica, con il risultato spesso di far sentire ancora più spaesato chi non si avvale del conforto di questa particolare confessione. È capitato anche a me di essere ricoverata per un intervento chirurgico, e il giorno successivo di ricevere la “visita di conforto” non richiesta del prete nel reparto, rivolta indifferentemente a tutti, ne sono rimasta piuttosto infastidita. All’interno degli ospedali il religioso cattolico viene in corsia, magari con il camice bianco per confondersi con i medici, e chiede a tutti (cattolici e no), come stanno e se hanno bisogno di qualcosa. Ma oggi si sente francamente l’esigenza di un approccio più laico, che senza negare il conforto religioso a chi lo desidera, offra la possibilità di un punto di vista differente, più laico ma anche più mirato, rispetto al dolore, ai bisogni e alle dinamiche psicologiche di chi sta morendo e/o di chi lo assiste: operatori sanitari, volontari o no, dovrebbero avere familiarità con le dinamiche psicologiche dei morenti, quindi parlarne non è inutile.

Superare il tabù, riuscire a immaginarsi il percorso, e soprattutto riuscire a parlarne, è importantissimo, sia per il malato, sia per chi lo assiste, al contrario rimuovere il discorso, come tendiamo tutti a fare, significa ritrovarsi impreparati di fronte ad un evento normalissimo, che prima o poi ci coinvolgerà, sia in quanto mortali, sia in quanto accompagnatori di mortali.

Alcune persone hanno una particolare serenità nell’affrontare malattia, vecchiaia, morte, altre ne sono angosciate. Ricordo che uno dei motivi per cui ho sempre ammirato mia nonna Carla era proprio l’assoluta naturalezza e la serenità con cui riusciva a parlare della propria morte. Cominciò a parlarne, senza drammi, almeno trent’anni prima di morire. Invecchiare, diceva lei, è solo l’arte di adattarsi: se volessi continuare a fare ora quello che facevo vent’anni fa, se volessi paragonarmi a voi, fare quello che fate voi giovani, sarei una persona infelice, invece se mi pongo obiettivi possibili, e provo ad attrezzarmi in vista di questi, sono ancora una persona felice, che può godere di quanto la vita le può ancora offrire. Con questa filosofia ha tenuto in vita mio nonno fino a 92 anni, e lei si è spenta abbastanza serenamente a 90 anni. Nessuno dei due aveva mai preso un farmaco antidepressivo. Forse perché quella donna era riuscita a passare apparentemente indenne attraverso la spagnola prima (si era ammalata ma era riuscita a guarire) e due guerre mondiali dopo (era nata nel 1900), aveva sviluppato una forza d’animo che mi ha sempre colpito.

Oggi noi siamo molto più fragili, la nostra capacità di invecchiare è minima, i modelli pubblicitari sono imperanti e ci parlano di un’umanità perfetta, di famiglie stile “mulino bianco”, di figli attenti che arrivano subito, non appena il “salvavita Beghelli” risuona all’orecchio, la malattia e la morte sono tabù sociali dei quali è più elegante non parlare.

Il libro della Dottoressa Segre mette a fuoco gli aspetti comunicazionali dell’accompagnamento alla morte, i diversi linguaggi agiti dal malato e dalla famiglia o dagli operatori sociali nei suoi confronti, una comunicazione che non è soltanto verbale, ma spesso anche empatica, fatta magari sempre meno di ragionamenti, e sempre più di gesti, di rassicurazioni, magari di abbracci.

I malati sembrano guidati da un “sesto senso” a scegliere la persona che sarà per loro l’accompagnatore, e non è un ruolo da poco: l’accompagnatore deve farsi carico dei bisogni del malato, pur senza soccombere ad essi, e ciò significa condividerli, senza identificarsi completamente con lui. “Bisogna superare la colpa della propria impotenza di fronte alla morte e alla paura dei malati, per poter aiutare. Meccanismi di proiezione e di identificazione bloccano l’aiuto” (pp. 48-49). Spesso un malato grave o terminale è invece schivato da vecchi amici o da parenti anche stretti, ma dietro questo comportamento esistono motivazioni che è troppo riduttivo definire egoiste o meschine, dietro questi comportamenti esiste infatti una vera e propria ansia di inadeguatezza; come scrive la Segre, “il malato procura dolore e ansia anche a chi lo circonda, per cui nella maggior parte dei casi viene distanziato per autodifesa: il processo del morire non è accettato come un evento della vita” (p. 83).

Oltre ad avanzare questo genere di considerazioni, il libro tenta di analizzare e spiegare in modo concreto le dinamiche psicologiche niente affatto semplici del malato e dei suoi familiari: “quando gli animi sono esasperati dal peso e dalla gravità della malattia, emergono giochi familiari, codici e regole che affondano le radici nella storia della famiglia. (…) inevitabilmente si creano contrasti e giochi di potere” fondati sulla storia e sui miti di quella particolare famiglia. Il personale medico deve inserirsi in questa dinamica, che li chiama in causa come persone.

Particolarmente interessante il concetto di “mito familiare”, uno strumento concettuale che consente alla famiglia di sopravvivere al dolore: i miti familiari “possono assumere forma di storie riguardanti i membri della famiglia e i loro rapporti, di convinzioni condivise e accettate, anche se false e illusorie. I miti familiari devono infatti negare o nascondere relazioni passate e presenti, servono ad assolvere funzione di difesa all’interno della famiglia e funzione di protezione verso il giudizio del mondo esterno. I familiari, insieme, travisano la loro realtà e per evitare dolore e conflitti, negano, razionalizzano o nascondono il male che si sono causati l’un l’altro. Le funzioni di protezione subentrano nelle relazioni con gli estranei e, attraverso la negazione e l’occultamento, fissano l’ambito entro cui è consentito al pubblico percepire e giudicare la famiglia” (p. 94). Diventa evidente a questo punto la necessità vitale per l’operatore sanitario di sviluppare una consapevolezza di questi miti, che sono appunto diversi da famiglia a famiglia, ma che agiscono sia nei rapporti dei familiari fra loro, che nei rapporti fra familiari e operatori sanitari, e diventano particolarmente attivi nel momento dello stress provocato dalla malattia. Non sempre infatti la malattia rappresenta l’occasione per superare le recriminazioni e le accuse reciproche fra il malato e la sua famiglia, soprattutto quando anni di conflitto e non comunicazione hanno minato i rapporti. Soltanto se la famiglia riesce a far affiorare progressivamente, sino a renderla dominante, la “parte buona”, legata a ricordi positivi, barriere ritenute insormontabili cadono, cedono il posto a rapporti di comprensione, di perdono e di affetto (p. 97). Del resto non vi è solo l’eventualità che il malato sia ritenuto “colpevole” o quanto meno “responsabile” della propria malattia, esiste infatti anche il rischio opposto: l’iperprotettività uccide, è il caso di quei parenti che si oppongano a una franca spiegazione della malattia, lasciando l’ammalato in preda ad ansia e condannandolo a morire emotivamente solo, con il dolore e la paura della propria morte, pur essendo parte di una famiglia che l’ama molto, e curato da un’équipe professionalmente preparata e disponibile. La negazione, il silenzio, l’omertà generano infatti in tutti paura e frustrazione.

Nel libro della Segre appare sempre evidente la necessità di mettere a fuoco non solo i bisogni psicologici dei morenti o di coloro che vivono la fase terminale di una malattia irreversibile, ma anche quelle dei loro familiari. “La malattia grave crea nei familiari del morente un profondo disorientamento, un senso d’insicurezza che li porta ad “usare” la malattia del paziente loro congiunto soprattutto per aver risposta ai loro personali malanni e bisogni e per non venire abbandonati. Vorrebbero insomma che il medico diventasse il “guaritore” di tutta la famiglia. E d’altra parte, per quanto estrema e ingiustificata sia questa richiesta, non si può escludere la famiglia dal quadro terapeutico: le risposte della famiglia alla malattia terminale influenzano l’andamento terapeutico del malato. “I familiari riescono ad accettare con fatica, non solo la decadenza fisica del paziente, ma soprattutto il decadimento delle sue capacità mentali, gli stati confusionali o deliranti” (p. 115), e questo nel massimo rispetto e nella massima consapevolezza di quanto i sentimenti dei familiari non possano e non debbano essere giudicati. Nel capitolo rivolto agli assistenti sanitari, si legge infatti: “Nei familiari, i sentimenti che accompagnano la fine di un percorso di accompagnamento sono molto complessi e legati ai rapporti che intercorrevano all’interno della famiglia, a volte alla perdita di sicurezza, al risentimento di dover restare soli, a un’ambivalenza di sentimenti che sono propri e che nessun assistente o curante ha diritto di sindacare e tanto meno di giudicare” (p. 137). La consapevolezza dell’esistenza dei sentimenti non implica perciò un giudizio da parte dell’operatore sanitario. Più grave ancora il caso in cui la famiglia non esista o non sia disponibile a farsi carico dell’accompagnamento: in questo caso l’operatore sanitario ne diventa volente o nolente il sostituto, e non sempre è attrezzato per fare fronte a un’eventualità così pesante.

Per concludere, direi dunque che il saggio della dottoressa Segre costituisce un utile spunto di riflessione sul problema dell’accompagnamento alla morte, dove l’esistenza delle classiche fasi di accettazione del dolore: negazione, ribellione, patteggiamento o mercanteggiamento, depressione e isolamento, e quindi accettazione della propria morte (o della morte del familiare che si “accompagna”), vengono esaminate attraverso casi concreti, e dai diversi punti di vista dei soggetti coinvolti in questo processo: il malato/la malata, i familiari, il personale medico. Le diverse funzioni e relazioni fra questi soggetti, la loro comunicazione più o meno limpida, le loro aspettative reciproche, costituiscono parte integrante del il processo di accompagnamento verso l’accettazione del dolore e la consapevolezza della morte. È un libro per familiari, malati, e operatori, che non potrà risolvere tutti i problemi legati a una pratica medica e relazionale fra le più delicate, ma che certo costituisce una preziosa fonte di suggerimento per i soggetti coinvolti.